Manuali 1 – Descrizioni
In altra sede mi era stato chiesto un articolo che parlasse di manuali di scrittura. È un argomento enorme e dunque ho deciso di suddividerlo per temi.
Ho poi preparato un articolo dove sono elencati i manuali di scrittura presenti su gigapedia (ho messo i manuali che parlano di narrativa in generale e quelli rivolti nello specifico a chi vuole scrivere fantasy/fantascienza, non ci sono i manuali dedicati al thriller o al romanzo rosa o ad altri generi), cercherò di tenerlo aggiornato, ma non garantisco.
Altri articoli nella serie dei Manuali:
• Manuali 2 – Dialoghi.
• Manuali 3 – Mostrare.
Dato che quando parlo di manuali spesso i commenti prendono una piega idiota – “le regole uccidono la creatività!”, “le regole sono fatte per essere infrante!”, “Augusto Pepponi non ha mai seguito le regole, e guardate che capolavori!” – ho già preparato una serie di risposte ai miti più frequenti. Se vi riconoscete nei commenti virgolettati di cui sopra, per piacere leggete. Gli altri possono passare oltre.
Risposte ai Miti
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Descrizioni
Come primo argomento ho scelto le descrizioni. Le fonti primarie sono:
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Description di Monica Wood (Writer’s Digest Books, 1999). |
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Description & Setting: Techniques and Exercises for Crafting a Believable World of People, Places, and Events di Ron Rozelle (Writer’s Digest Books, 2005). |
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Word Painting: A Guide to Writing More Descriptively di Rebecca McClanahan (Writer’s Digest Books, 1999). |
(per maggiori informazioni riguardo gigapedia, consultate il seguente articolo).
Tengo a precisare che questo articolo è un invito alla lettura. Cercherò di dare consigli sensati e buoni suggerimenti, ma per forza di cose sarò costretta a scartare le eccezioni, i casi particolari, le sfumature. Se l’argomento vi interessa, non fermatevi qui, ma leggete i libri segnalati.
Scopo
Scopo delle descrizioni è creare il contesto nel quale si svolgerà la storia.
In alcuni casi il contesto è addirittura lo scopo stesso di esistenza della storia: per esempio nei racconti di viaggi fantastici, che appunto descrivono mondi esotici, pianeti alieni, strane creature. Ma anche quando il contesto non è la ragione d’essere della storia, è comunque vitale perché il lettore possa seguire gli avvenimenti.
Prendiamo questo dialogo:
«Sei un pazzo, Michele!»
«No, non è vero.»
Senza descrizioni il lettore è sperduto. La scena può essere drammatica o divertente, può avere un significato o il significato opposto, è il contesto che lo determina:
Anna si alza in punta di piedi per sbirciare dentro la cella. Michele è in un angolo. È seduto in mezzo a una pozza di escrementi e urina. Ogni pochi secondi immerge l’indice nella merda e lo usa per tracciare linee sghembe sulla parete. Anna ricostruisce lettere e parole, sull’intonaco è scritto: “LORO STANNO ARRIVANDO”.
«Sei un pazzo, Michele!» esclama.
Lui si volta. Sanguina dalla fronte, si deve essere strappato i punti. «No, non è vero.»
oppure:
Anna alza il viso dal libro di geografia. Michele è in piedi sulla cattedra. Ha recuperato i gessetti colorati del prof di matematica e sta disegnando lettere cubitali, rosse, verdi e blu. La scritta dice: “ABASO LA SQUOLA”.
Anna scuote la testa. «Sei un pazzo, Michele!»
Lui lancia per aria i gessetti e li recupera al volo, come un giocoliere. «No, non è vero.»
Questa è la scoperta dell’acqua calda, ma ribadire concetti giusti non fa mai male.
Dunque, perché il lettore possa capire quello che sta succedendo – possa seguire la storia – è necessario descrivere il contesto. D’oh!
Una buona descrizione
Una buona descrizione è concreta, stimola i sensi, è dinamica e ha significato per la storia.
Questo non perché sì, questo perché, se si rispettano i precetti di cui sopra, il cervello del lettore riesce a vivere gli avvenimenti; il lettore è perciò coinvolto e non chiude a metà il libro.
Per illustrare il concetto, prendiamo le classiche descrizioni dello scrittore alle prime armi: “Anna è una bella ragazza”, “Michele fa ribrezzo”, “Se c’è una brava persona è Giuseppe”, ecc.
Descrizioni così sono vuote, troppo generiche, non offrono niente alla fantasia del lettore. “Michele fa ribrezzo”: cosa dovrebbe vedere il lettore? Cosa dovrebbe sentire? Annusare? Toccare? Assaporare? È un fotogramma nero nel mezzo del film.
Vediamo di trasformarla in una descrizione decente.
Michele. L’avevamo già conosciuto mesi fa. Era uno scrittore, prima che la pirateria lo costringesse a vivere sotto i ponti
Innanzi tutto bisogna capire – e lo scrittore lo deve sapere – perché Michele è così rivoltante. Mettiamo che lo sia perché non si lava: “Michele è sporco”. Ma ancora non c’è molta carne per il lettore, non c’è molto in cui affondare i denti.
Spacchettiamo la sporcizia:
Michele ha i denti gialli, il naso sporco di moccio, i capelli unti e pieni di forfora.
Questa è una descrizione concreta. Il lettore vede la sporcizia sul viso di Michele e molto probabilmente proverà un certo ribrezzo a quella vista.
Tuttavia si può far di meglio. Quella di prima è una descrizione statica, come se avessimo fotografato Michele. Ma è raro che ci si metta a fotografare le persone; quando vediamo una persona, di solito si sta facendo gli affari propri, non è in posa per noi. Proviamo a dare un po’ di vita a Michele:
Michele sta digitando un sms sul cellulare. Ma ogni pochi secondi si ferma per scostarsi i capelli unti dagli occhi. O per pulirsi con le dita il moccio che gli cola dal naso. O per spazzolare via la forfora dalle spalline della giacca. Intanto sorride, rivolto allo specchio. Denti gialli gli sorridono di rimando.
Meglio. Michele non è più una fotografia messa tra le pagine, è calato nello scorrere del tempo.
Lo scorrere del tempo è sempre presente, anche quando si stanno osservando luoghi od oggetti: le nuvole corrono in cielo e cambiano la luce, una mosca ti ronza attorno e ti distrae, ti annoi – ma che diavolo ci sto facendo a fissare un sasso da dieci minuti? – e la percezione cambia. Tutto scorre (parola di Eraclito): non esistono due istanti uguali, e se non esistono due istanti uguali nella realtà, così non devono esistere nella narrativa, dato che stiamo provando a essere verosimili.
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Angolo della saputella! Quando è nata l’idea che sia meglio descrivere qualcosa in movimento invece di riprenderlo in modo statico? I furboni risponderanno che è un’americanata dovuta alla diffusione del cinema, in realtà è un consiglio che già dava Aristotele nel libro terzo della Retorica. |
Facciamo un ulteriore passo in avanti:
Mi accorgo che Michele è in camera prima ancora di vederlo. Per la puzza dolciastra che arriva fino in corridoio e per quel rumore che fa quando si morde le unghie. Tic. Tic. Tic. Poi con un gorgoglio sputa per terra e passa al dito successivo.
È in piedi davanti allo specchio. Sta digitando un sms sul cellulare, ma ogni pochi secondi si ferma per scostarsi i capelli unti dagli occhi; per pulirsi con le dita il moccio che gli cola dal naso; per spazzolare via la forfora dalle spalline della giacca; per mangiarsi le unghie.
Si gira nella mia direzione. Mi sorride e mette in mostra i denti gialli e cariati. Arretro di un passo: ho ancora vivido il ricordo di quando mi ha sfiorata con le sue mani luride; sono subito corsa in bagno a lavarmi il braccio, per grattare via il ricordo di quel tocco molle e viscido.
Adesso Michele puzza, fa rumore, ed è spregevole al tatto – e per renderlo al meglio ho cambiato punto di vista, passando dal Narratore ad Anna.
Questa è una descrizione decente. Non brillante – non c’è niente di molto ispirato –, ma fornisce tutti gli elementi necessari per comunicare il concetto che “Michele fa ribrezzo”.
Notare che non ho detto quanto Michele sia alto, o che età abbia o come sia vestito (a parte l’accenno della giacca). Questo perché i dettagli di una descrizione devono essere funzionali alla storia. Non ci si deve sperdere, se la ragion d’essere di Michele è il suo suscitare ribrezzo, lì devo puntare.
Naturalmente avrei potuto scegliere particolari diversi: per esempio i vestiti rattoppati e sporchi avrebbero potuto essere inseriti o sostituire altri particolari. O magari se Michele è storpio o grasso o gobbo, sarebbero potuti essere altri dettagli da inserire o sostituire. Non ci sono vincoli, se non l’avere sempre ben presente dove si vuole andare a parare.
A tal riguardo, si pensi a quante volte si legge nei testi dei dilettanti (e non solo): “Anna ha diciotto anni”, “Michele ha ottantanove anni”, ecc.
Ma comunicare l’età, in questa maniera, è brutto e rozzo. Perché è importante per la storia che Anna abbia 18 anni? Se non è importante è inutile scriverlo, e se lo è tanto vale mostrare questa importanza, invece di raccontare in maniera asettica l’età.
«Non mi interessa quello che pensate tu e mamma. Non sto chiedendo il vostro permesso, vi sto solo comunicando che lunedì andrò a Livorno per frequentare l’Accademia.»
Il punto della storia è che Anna, avendo compiuto diciotto anni, può decidere lei di arruolarsi. Tanto vale dunque entrare in argomento senza fare i pedanti.
Da qualche anno, l’Accademia Navale di Livorno è aperta anche alle donne
Oppure:
Scatta il rosso. L’autobus riapre le porte.
Giuseppe tira la manica di Michele. «Andiamo, nonno! Se corriamo riusciamo a prenderlo!»
«No, no, non ce la faccio.»
Il povero Michele è troppo vecchio e stanco per correre fino alla fermata. Meglio così che non dire che ha ottantanove anni.
Preparare le schede dei personaggi, dove è chiarito aspetto fisico, età, gruppo sanguigno, vestiti preferiti, titolo di studio, biografia e quant’altro, può essere un buon esercizio e in certo tipo di opere con un cast ampio può essere un passo necessario, ma lo schedario deve rimanere dietro le quinte. Le descrizioni pedanti, statiche, piene di dettagli inutili, ammazzano il fluire della storia.
Ciò non vale solo per i personaggi. Anche i luoghi devono essere descritti con gli stessi criteri. Se Michele è una casa, non sarà “brutta”, “vecchia” o “malandata”. Avrà i muri scrostati, gli infissi gonfi di umidità, il soffitto pericolante e mancherà l’acqua corrente. E ancora si dovrà cercare di rendere la scena dinamica: il soffitto non è semplicemente pericolante, quando Anna entra in soggiorno, le cadono i calcinacci in testa. Quando Giuseppe prova ad aprire il rubinetto in bagno, si sporca le dita di ruggine e sente il gorgogliare lontano dell’acqua, ma dal tubo esce solo puzza di marcio.
E ovviamente il fatto che la casa sia una stamberga deve avere importanza per la storia.
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Angolo della saputella! Quando è nata l’idea che un particolare, per quanto ben descritto, debba essere tolto se non partecipa al disegno complessivo? I furboni risponderanno che è un’americanata dovuta alla diffusione del cinema, in realtà è un consiglio che già dava Orazio nell’Ars Poetica. |
Infine, non è sbagliato ribadire un particolare più volte, se ha molta importanza. Come dice Flaubert, un oggetto ha bisogno di essere nominato almento tre volte perché il lettore creda che esiste sul serio.
Linguaggio e punto di vista
Dettagli significativi, dinamici e concreti, che stimolino i sensi. Se si riesce a rispettare questi precetti, si è sulla buona strada per scrivere descrizioni efficaci. Bisogna però stare attenti anche ad altro, in particolare al linguaggio in rapporto con il punto di vista.
In generale, più si è precisi meglio è. Scrivere “fiammifero” è meglio di scrivere “legnetto corto e stretto che se lo sfreghi fa fuoco”. Scrivere “automobile” è meglio di scrivere “affare con quattro ruote”. Ed è la ragione per cui occorre documentarsi: se la storia è ambientata prima in un laboratorio dove si producono armi chimiche, poi su un campo da golf, infine nell’abitacolo di un bombardiere, bisogna conoscere la terminologia appropriata nei tre casi, altrimenti le descrizioni risulteranno goffe e fiacche.
Questo vale sempre. Non è neanche questione di narrativa di genere, literary fiction, poesia o saggio: per descrivere in maniera accettabile qualcosa, bisogna conoscerla. Non ci sono scappatoie.
Come recita la regola numero 13 di Twain riguardo la scrittura: “Use the right word, not its second cousin.” Non la parola che si avvicina, non il termine quasi giusto; bisogna usare le parole adatte, i termini corretti.
L’unico limite è il punto di vista. Infatti – a meno che le descrizioni non siano a opera del Narratore, ma per ragioni di verosimiglianza è sconsigliabile usare un Narratore onnisciente in un testo di fantasy/fantascienza – le descrizioni sono sempre dal punto di vista di un personaggio. Se il personaggio è un laureato in biologia userà la terminologia migliore nel laboratorio, ma forse non saprà distinguere le mazze da golf. Viceversa il campione di golf userà la propria esperienza per parlare di Ferro 8 o Legno 3, ma è probabile non saprà dire molto osservando un virus al microscopio.
Mantenere il punto di vista è fondamentale. Si capisce subito quando un personaggio parla con voce non sua e, quando succede, la sospensione dell’incredulità si incrina.
In certi casi, pur di mantenere senza sbavature il punto di vista, si possono trasgredire perfino le regole della grammatica. Nel classico Fiori per Algernon di Daniel Keyes, il protagonista e narratore è un ritardato mentale (così stupido da perdere una gara d’intelligenza con un topo – insomma stupido quasi quanto il tipico autore fantasy italiano): fin quando il nostro eroe non diventerà più furbo, il suo modo di raccontare sarà sgrammaticato e pieno di errori.
Anche se non si desidera arrivare fino a questo punto di “fanatismo”, in ogni caso bisogna aver sempre presente chi descrive.
Copertina dell’edizione italiana di Fiori per Algernon
La prima persona è particolarmente ostica: è difficile scacciare dal romanzo la sensazione di straniamento dovuta al fatto che il protagonista è un medico, uno studente, un’attrice, ma – guarda caso – sembra esprimersi proprio come se fosse uno scrittore.
La prima persona inoltre limita moltissimo quello che può essere descritto, dato che la telecamera è nella testa di un personaggio e non può essere spostata. Si potrà descrivere solo quello che il personaggio vede, sente, annusa, ma nulla di più.
Se oggetti, persone, ambienti sono al di là dei sensi del personaggio, sono inaccessibili.
Questo crea tutta una serie di problemi, il classico è: come si fa a descrivere l’aspetto del personaggio che narra in prima persona?
E non c’è una soluzione semplice, perché non è naturale per una persona meditare in dettaglio sul proprio aspetto – non quando la Terra è stata invasa dai marziani, i vampiri si sono trasferiti in città e gli scienziati hanno riportato in vita i dinosauri. Tuttavia, se proprio si vuole lo stesso descrivere il personaggio, bisognerebbe almeno evitare due cliché ultra abusati: lo specchio e l’ammiratore.
Lo specchio è quando Anna si specchia nella vetrina del negozio, nelle limpide acque del fiume, nello specchietto retrovisore della macchina parcheggiata e naturalmente davanti allo specchio in bagno. Questa scena suona sempre forzata, spesso risulta noiosa; se capita nel mezzo dell’avventura diviene ridicola. No, non è normale che mentre gli zombie battono le strade in cerca di cervelli, Anna all’improvviso si scopra ad ammirare il proprio profilo nella vetrina del negozio di scarpe – o forse sì, magari Anna non ha niente da temere dai morti viventi, avendo la zucca vuota!
L’ammiratore è quando Anna incontra Simona e Simona comincia: “Ah, se avessi i tuoi splendidi occhi verdi, i tuoi capelli neri e lisci, il tuo fisico slanciato bla bla bla“. Appare subito chiaro che Simona sta recitando un copione obbligata dall’autore, altrimenti non si esprimerebbe mai così.
Se non capita l’occasione per Anna di descriversi in modo che suoni naturale, che abbia senso nel fluire della storia, pazienza. Meglio evitare che aggiungere scene forzate.
Un vantaggio dell’usare un punto di vista ben saldo è il poter essere incisivi. Se per il lettore è chiaro che la telecamera è piazzata nella testa del personaggio, si possono tagliare un sacco di verbi inutili: “Avverto il dolore strisciare dal polso al gomito” diviene il più diretto “Il dolore striscia dal polso al gomito”. “Ho come la sensazione di precipitare in un pozzo nero” diviene “Precipito in un pozzo nero”.
Metafore
Uno strumento che può essere molto efficace per scrivere descrizioni ma di cui è facilissimo abusare è l’utilizzo di similitudini e metafore.
Prima di continuare: la similitudine è quando una cosa è paragonata a un’altra, la metafora è quando una cosa diventa un’altra.
“Michele è un leone”: questa è una metafora.
“Michele è feroce come un leone”: questa è una similitudine.
“Michele ruggisce”: questa è ancora una metafora, la trasformazione in animale è implicita.
Michele uomo-leone
Lo scopo di usare una metafora o una similitudine è rendere più chiaro il discorso. Non si mettono le metafore per “far colore”, si mettono le metafore perché non c’è un modo diretto migliore per esprimere il concetto che si desidera (o magari il modo esiste, ma non può essere usato dal personaggio punto di vista).
“Il lamento del verme assassino di Venere è come il ruggito di un leone”: questo è un uso corretto della similitudine. Un suono alieno, che forse non può essere descritto, è paragonato a un suono famigliare. Il lettore è a suo agio.
“La folla che esce dal cinema è un fiume in piena”: questa è una metafora accettabile. Il “fiume in piena” è un concetto facile da immaginare, e rende bene il movimento tumultuoso della gente.
Le metafore hanno sempre un prezzo: dato che per loro natura mettono in relazione cose diverse, allontanano il lettore dalla storia. Nel primo caso il lettore è su Venere e d’improvviso spunta un leone: non c’entra un tubo. Nel secondo caso siamo in città, in mezzo ai palazzi, e d’improvviso ecco scorrere le acque di un fiume: non c’entra un tubo.
Bisogna meditare bene se vale la pena introdurre immagini estranee. Non si è più scrittori se si trovano sempre metafore e similitudini, spesso è un sintomo di scarsa proprietà di linguaggio.
Alcuni hanno la bizzarra convinzione che più una similitudine è bislacca, più è Arte:
“Michele barcollava in mezzo alla strada, si muoveva come un furgoncino guidato da un procione con il mal di testa.” Se il testo è comico o il narratore ubriaco, va bene, altrimenti una roba del genere è uno schifo. Una roba del genere non comunica niente riguardo alla storia, comunica solo: “Guarda, mamma! Guarda come sono bravo: ci ho messo il procione! Con il mal di testa! Che guida il furgoncino!” e la risposta dovrebbe essere: “Bravo, Andreino, bravo, ma adesso lavati i denti e corri a letto. Lascia stare la narrativa, ché è cosa per i grandi.”
Non importa quanto una metafora possa sembrare “bella” o “fantasiosa”: se non svolge lo scopo, deve sparire. E spesso la metafora “fantasiosa” deve sparire comunque, perché porta con sé una sfilza di immagini che allontanano troppo il lettore dalla storia.
Meglio una metafora o una similitudine? Le metafore sono più “radicali” – Michele non ha solo il ruggito del leone, è un leone – e dunque hanno maggior impatto. Però bisogna sceglierle con ancora più cura, perché magari il ruggito leonino applicato a Michele funziona bene, la criniera meno.
Ricapitolando
Per far capire al lettore la storia è necessario descrivere il contesto.
Stabilito quale sia il contesto che vogliamo, occorre documentarsi.
Poi si sceglie il personaggio punto di vista, colui che fornirà al lettore la descrizione.
Durante la descrizione vera e propria bisogna essere concreti, stimolare i sensi e riprendere la scena in movimento.
Non sempre più particolari si mettono meglio è. Bisogna tenere solo quei particolari significativi per la storia.
Il linguaggio dev’essere preciso, ma soprattutto deve suonare naturale in bocca al personaggio che descrive.
Descrizioni particolarmente complesse possono essere aiutate da metafore o similitudini, ma sono figure retoriche da maneggiare con cautela.
E non bisogna scordarsi dei principi alla base di una scrittura decente: evitare le frasi troppo incasinate, gli aggettivi o gli avverbi in sovrannumero, i salti temporali superflui, i cambi di punto di vista ingiustificati, ecc.
Paura del buio
Appurato come dovrebbe essere una buona descrizione, vediamo qualche esempio di descrizioni riuscite male. Avrei da pescare a piene mani dai romanzi già recensiti, ma dato che l’orrore fresco è più spaventoso dell’orrore raffermo, rovisterò in un libro appena uscito. Sto parlando di Buio, pubblicato a inizio mese da Fazi. L’autrice, al suo esordio, è Elena P. Melodia – che almeno ha il buon gusto di non essere una quattordicenne.
Buio è il primo volume nella trilogia (tanto per cambiare…) urban fantasy di My Land; è spacciato al modico prezzo di 18 euro e 50.
Copertina di Buio. Quando non si paga la bolletta…
La trama vede tale Alma, diciassettenne “bellissima, apparentemente sicura di sé, ma fragile e inquieta”(sic), coinvolta in una serie di omicidi, che paiono ispirati ai racconti che la stessa Alma scrive. Per fortuna ha come alleato Morgan “il ragazzo più misterioso e sfuggente della scuola, i cui incredibili occhi viola sanno leggerle nel cuore come nessun altro”(sic).
E già la trama basterebbe a scoraggiare qualunque persona con un quoziente intellettivo di almeno due cifre, ma l’editore ha fatto di più: offre la possibilità di leggere gratis le prime pagine del romanzo. Così anche chi fosse in dubbio può decidere di lasciar perdere.
Trovate il PDF con l’incipit di Buio, qui.
A parte la bruttezza generale, vorrei concentrarmi su alcune descrizioni ed evidenziarne i difetti, in base a quanto illustrato in precedenza.
Prima scena: la protagonista sta sognando. Sogna il buio (no comment):
È buio. Cammino, ma non mi muovo. Ho le gambe pesanti come piombo e nella testa mi battono i colpi di passi immobili, che martellano senza sosta, mentre comincio a sentire freddo. Tremo e non ho modo di scaldarmi. Anche le mie braccia sono paralizzate. Mi fanno male, un male che non ho mai provato prima, quasi stessero per staccarsi.
Provo a gridare, ma non ci riesco. Emetto solo un filo di voce roca e stonata, come il suono di uno strumento a fiato rimasto troppo a lungo sott’acqua.
Vediamo qualche punto particolarmente osceno: le braccia “Mi fanno male, un male che non ho mai provato prima, quasi stessero per staccarsi.” Tipica frase vuota: dopo che la protagonista ha abortito un feto alieno, le hanno amputato una gamba, ha passato la notte a mollo nel mar glaciale artico, allora, “un male che non ha mai provato prima” ha un significato. A tre righe dall’inizio del romanzo non significa niente.
“quasi stessero per staccarsi” è un pochino meglio, perché almeno richiama, sebbene in maniera vaga, un’immagine. Ma rimane un passaggio molto fiacco. Devi descrivere un dolore simile all’avere gli arti strapparti dal corpo, non mi sembra che ci siamo molto…
“un filo di voce roca e stonata, come il suono di uno strumento a fiato rimasto troppo a lungo sott’acqua.” Una similitudine o una metafora mettono in rapporto due cose diverse perché il lettore possa avere più facile comprensione. Ora, se dico: “voce roca” penso che non ci siano grossi problemi a sentire quello di cui si parla, ma quanti di voi hanno mai preso uno strumento a fiato, l’hanno lasciato troppo a lungo sott’acqua e infine hanno provato a suonarlo? Nessuno? No, tu lì in fondo non conti.
In altre parole qui c’è una similitudine che rende più difficile la comprensione della frase. Due piccioni con una fava: prima si butta fuori il lettore dall’incubo (improvvisamente il buio è riempito dall’acqua e da uno strumento stonato), e in cambio si ottiene di non fargli capire a quale suono ci si voglia riferire.
E non è finita qui: nelle descrizioni bisogna essere precisi, usare il preciso nome delle cose – la giusta parola, non la seconda cugina. Cosa dovrei immaginarmi a “strumento a fiato”? Una zampogna? Un flauto? Un trombone? Aggravante: la narrazione è in prima persona. Il Narratore onnisciente può usare termini generici per ragioni letterarie, ma un personaggio no. Nessuno immagina uno “strumento a fiato”, una persona immagina appunto una tromba o una cornamusa o qualcos’altro.
Una tromba immersa nell’acqua (troppo a lungo?) È proprio l’immagine giusta per calare il lettore in un incubo tenebroso
C’è infine da domandarsi quale personaggio ha il sangue freddo per analizzare la propria voce e metterla in relazione con uno strumento a fiato bagnato, mentre si trova ad affrontare il dolore fisico più intenso della propria vita. Forse basta dire perché sì!!! Perché è fantasy!!! Perché imparare a scrivere è brutto!!!
Tralascio altri dettagli di cattiva scrittura in quelle poche frasi, perché non sono attinenti al problema delle descrizioni.
Andiamo avanti:
È successo di nuovo. Il confine tra sonno e veglia non esiste più, ormai, e gli incubi sono veri, la realtà un inferno. Il sogno diventa realtà. E anche il sogno è un inferno.
Poco da aggiungere. Una sfilza di termini astratti: incubi, realtà, sogno, inferno, ecc. Non c’è niente a cui il povero lettore possa aggrapparsi. Frasi del genere sono letteralmente inchiostro buttato. Non comunicano niente.
Scena immancabile:
Mi guardo allo specchio e il buio si scioglie, a poco a poco. Sono bella, nonostante tutto.
Resto lì, a fissarmi.
Ogni tanto mi capita di pensare come sarebbe la mia vita se fossi brutta, se non avessi gli occhi verdi, che mi piace piantare addosso ai ragazzi per metterli in imbarazzo, o i capelli neri e lisci, lucidi da far invidia a una geisha, o questo corpo che rimane magro, qualunque cosa mangi. Come sarebbe la mia vita?
Sarebbe un unico, colossale, irrimediabile schifo.
Come si diceva, le scene allo specchio nella narrazione in prima persona sono cliché in maniera insopportabile. E per non farci mancare niente l’autrice riprende i canoni di bellezza più scontati: occhi verdi, capelli neri e lisci, corpo sempre magro. Persino Nihal in una scena analoga si era trovata un difettuccio (la poverina aveva gli occhi troppo grandi!), qui invece c’è solo piatta perfezione. Comunque è da apprezzare almeno un tentativo di dare movimento alla descrizione, per esempio gli occhi piantati addosso ai ragazzi.
La protagonista arriva a scuola:
Fuori, il solito gruppetto di ragazzi mi fissa mentre passo nel corridoio affollato del primo piano.
Uhm? C’è un gruppo di ragazzi che la fissa da fuori la scuola mentre lei cammina in corridoio? E perché non entrano? Un gruppo di ragazzi che non sono della scuola tutte le mattine si appostano fuori per spiare lei? E come fanno a seguirla nella loro opera di spionaggio se il corridoio è affollato? Qualcuno ha capito il senso di questa descrizione?
La protagonista arriva in classe:
Le mie amiche invece sono diverse. Ognuna con la propria personalità vincente. Seline, sempre allegra e curiosa, sarebbe capace di vivere una settimana solo facendo shopping. Agatha, taciturna e introversa, è indipendente e determinata. E Naomi, vivace ma equilibrata, è una di quelle che dicono sempre quello che pensano.
Voglio un attimo imitare Naomi: “questa è la descrizione di personaggi più squallida che abbia mai letto in un libro pubblicato da casa editrice non a pagamento”. È una descrizione che fa schifo perché è vuota in modo imbarazzante. Non ci sono immagini, non ci sono suoni, non ci sono sapori, non ci sono sensazioni, non c’è un beneamato niente. Ci sono un mucchio di aggettivi, Agatha ne ha appiccicati addosso addirittura quattro: taciturna, introversa, indipendente e determinata. Ovviamente sono tutti aggettivi astratti, perché guai se il lettore riesce a immaginare qualcosa. Se almeno Agatha fosse stata bassa, grassa, gobba e zoppa, avremmo avuto un qualcosa a cui aggrapparci. Invece niente, dobbiamo aggrapparci all’eterea indipendenza o determinatezza.
Per Seline e Naomi vale altrettanto.
Senza contare che descrivere il carattere dei personaggi è un’idea balorda in sé: quando agiranno, il lettore capirà il loro carattere. Quando scopriremo che Agatha vive già da sola e si prende cura della sorella malata, magari ne dedurremo che è “indipendente” e “determinata”. Quando Naomi si alzerà dal suo posto per mandare a quel paese l’insegnante di matematica, sapremo che è una che dice sempre quello che pensa. Quando Seline si presenterà in classe ubriaca e con i vestiti in disordine, capiremo che è “sempre allegra”.
Seline, Agatha e Naomi. Notare l’aura di vivacità che circonda Naomi e la distingue subito dalle altre
La cosa che fa rabbia non è tanto l’incompetenza della signorina Melodia, dell’editor o di chi altri ha letto prima della pubblicazione, quello che fa rabbia è vedere quanto il lettore sia tenuto in poco conto. Tra le righe della descrizione di cui sopra in verità si legge: “Chi se ne fotte? Tanto ‘sta merda se la devono sorbire delle ragazzine cerebrolese. Povere scemotte che si bevono qualsiasi cosa. Perché impegnarsi?”
Be’, niente da dire, se si vende è sempre tutto ok, no? Ma un mondo così mette addosso tristezza.
Come mette addosso tristezza:
Le aule sono grandi e illuminate da chilometri di luci al neon, come gigantesche stanze di un vecchio ospedale, dove una parola riecheggia con la forza di un urlo e il bianco disarmante dei soffitti ti ricorda il vuoto che hai dentro ogni giorno varcando l’ingresso.
A parte l’inutile complessità della frase, che parte da “Le aule sono grandi” e finisce con il lamento della protagonista per il vuoto dentro, abbiamo il ritorno della similitudine dannosa!
“Le aule sono grandi”: si capisce, o sbaglio?
“illuminate da chilometri di luci al neon”: questa è una prima figura retorica, un’iperbole, forse ci può stare, perché il significato rimane chiaro.
“come gigantesche stanze di un vecchio ospedale”: questa similitudine dovrebbe avere lo scopo di rendere più semplice per il lettore comprendere il significato di “aule grandi con un mucchio di luci al neon”. E invece confonde: perché non è esperienza comune frequentare le stanze (gigantesche) dei vecchi ospedali, e perché nei vecchi ospedali ci sono sale di ogni dimensione e con ogni gradazione di luce.
“[...] il bianco disarmante dei soffitti ti ricorda il vuoto che hai dentro ogni giorno varcando l’ingresso.” Scusate, sono stufa di essere razionale e gentile quando è evidente la presa per i fondelli. “Il bianco disarmante dei soffitti”? “Il vuoto che hai dentro (varcando l’ingresso)”? WTF?
«Ciao, Marco. Che ci fai con quell’arnese in mano?»
«Ciao, Chiara. Eh, nuove disposizioni del Ministero: devo fare il vuoto dentro a tutti gli studenti che varcano il cancello.»
Bonus, lo gnokko:
Approfitto di quella sua esitazione per studiarlo meglio. Non so se dipenda dal fisico slanciato e perfetto o dai capelli biondi da angelo o dagli occhi quasi viola, oppure dalla fossetta che, quando sorride, segna il lato sinistro della bocca, ma il fatto è che Morgan è senza dubbio il ragazzo più interessante che conosco.
Va bene, ma è bello come un dio greco?
Per il resto penso possiate commentare da soli: fotografia statica, con dettagli cliché e solo la vista è stimolata. Non è una descrizione atroce come quella delle compagne di scuola, ma certo sarebbe bello che uno scrittore si sforzasse un attimo di più – tanto per cambiare, eh.
Per me Morgan è un vampiro. E in più ha gli occhi viola. Sarà mica un vampiro mezzelfo?
Con questo non voglio dire che Buio sia un brutto romanzo, magari la storia brillante compensa lo stile, io però, lette queste prime pagine, non ho nessuna voglia di proseguire.
Quali manuali leggere
Se volete approfondire, leggete i manuali segnalati. In particolare, quello che ho trovato più interessante è stato Word Painting: A Guide to Writing More Descriptively. È un testo a tratti dispersivo, che non sempre rimane focalizzato sull’argomento, ma le divagazioni mi hanno divertita.
Gli aneddoti che l’autrice inserisce qui e là sono simpatici. Uno su tutti mi ha fatto meditare: l’autrice ricorda quando consegnò all’insegnante di inglese delle medie un poema, nel quale era descritta una signora che rinvasava un geranio. L’insegnante glielo restituì dicendo che doveva essere più creativa, mettere maggior fantasia nello scrivere, per esempio imitare il compagno di banco, che aveva scritto un racconto di fantascienza con gli alieni che uscivano dai fiori.
Mi chiedo in quale scuola italiana, di qualunque ordine o grado, un insegnante non solo preferisce un racconto di fantascienza a una poesia con i gerani, ma addirittura incita il sedicente poeta a essere più fantasioso.
Nota: in realtà Rebecca McClanahan ha continuato a scrivere di gerani & simili, non si è mai convertita al fantastico – l’aneddoto rimane significativo.
Piacevole anche quando, molti anni dopo, la Rebecca, questa volta nel ruolo di insegnante, dimostra la pochezza del suo allievo che non si abbassa a costruire una storia basata su dettagli concreti, perché lui deve pontificare sull’”ansietà dell’essere” o sul “caos della modernità indefinita”. Da noi i gonzi di questo genere, invece di essere bocciati, finiscono a scrivere sulle riviste letterarie.
Inoltre in Word Painting sono trattati molti argomenti che per ragioni di spazio qui non ho potuto affrontare, per esempio l’importanza del suono delle parole in determinate descrizioni. Dunque, lettura consigliata.
Description di Monica Wood non è allo stesso livello. Anche qui ci sono buone cose, ma la Wood non ha il carisma, né la competenza della McClanahan. In particolare gli esempi della Wood sono pessimi: invece di citare da autori più o meno noti, la Wood si è costruita i propri esempi, e non si è impegnata molto. Gli esempi “sbagliati”, da non seguire, sono brutti. Gli esempi “giusti”, da imitare, sono brutti uguale.
Spesso il discorso è confuso: per esempio, quando parla di “mostrare” e “raccontare”, giustamente dice che ci sono momenti dove è meglio “mostrare” e altri dove è più utile “raccontare” – le relative citazioni sono perfino attinenti –, tuttavia si rimane con l’impressione che le due tecniche siano equivalenti. E non è proprio così: le occasioni dove il “raccontare” è più funzionale alla storia rispetto al “mostrare” non sono molte.
Comunque, meglio leggere Description che gnente.
Description & Setting di Ron Rozelle mi è parso monotono e superficiale. All’inizio l’autore proclama che si occuperà sia di narrativa di genere sia di literary fiction, ma quando si arriva alle pagine dedicate ai generi, sono poche, inconcludenti e scritte da qualcuno che non conosce bene la materia. Ho trovato la cosa irritante. Ma forse è un problema mio.
Leggetelo se vi avanza tempo.
Compiti a casa
Per concludere, vi propongo un esercizio. Guardate l’immagine qui sotto:
I giapponesi sono strani
Prendete un punto di vista (qualcuno nascosto nell’ombra, dietro una delle tante finestre o la ragazza seduta o magari i conigli rosa distesi sulle scale) e provate a descrivere la scena. C’è di tutto: una ragazza con i capelli di un colore strano e vestita in maniera bizzarra, armata di un fucile che sembra vero ma è decorato con coniglietti; altri coniglietti (vivi?) abbandonati sui gradini, insieme con delle mele; sullo sfondo un coniglio nero antropomorfo, forse un uomo in costume? E il poster appeso vicino alla galleria, sarà la pubblicità del circo, o è un avviso della polizia per la ricerca di un pericoloso coniglio mannaro, o ancora è la foto di un coniglio scomparso?
Divertitevi!
Approfondimenti:
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Description & Setting su Amazon.com
Word Painting su Amazon.com
Il sito di Monica Wood
Il sito di Ron Rozelle
Il sito di Rebecca McClanahan
Fiori per Algernon su iBS.it
Flowers for Algernon su gigapedia
Buio su iBS.it
Il sito ufficiale della trilogia My Land
Ars Poetica di Orazio su Wikipedia
Retorica di Aristotele su Wikipedia
Scritto da Gamberetta •
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