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Il senso del meraviglioso

Quando si parla di narrativa fantastica, spesso si cita il sense of wonder, non sempre a proposito. Il discorso è abbastanza interessante da meritare un approfondimento.

Il sense of wonder è quella sensazione di meraviglia, stupore e vertigine suscitata da determinate opere di narrativa fantastica – fantascienza in particolare. Ma prima di cercare una definizione più accurata, occorre capire se il sense of wonder esista o se sia solo illusione. A riguardo, ci sono due principali scuole di pensiero:

Icona di un gamberetto La prima scuola sostiene l’oggettiva esistenza del sense of wonder: determinati romanzi, determinate storie, sono in grado di suscitare precise reazioni nel cervello di chi legge. Non è una coincidenza e dipende solo fino a un certo punto dal lettore: il sense of wonder è intrinseco alle opere stesse.

Icona di un gamberetto La seconda scuola sostiene che il sense of wonder sia un miraggio. L’ipotesi è che si prova sense of wonder quando si è bambini o ragazzini non per particolari qualità della narrativa fantastica, ma semplicemente perché a quell’età ogni stranezza, ogni cosa fuori dall’ordinario sembra meravigliosa. Quando si cresce, il sense of wonder non è più vero sense of wonder ma il ricordo di quel lontano sentimento che si è sperimentato da piccoli. Questa è la stessa corrente di pensiero che si fa beffe della Golden Age: l’Età d’Oro della fantascienza non sarebbe il periodo compreso tra la fine degli anni ’30 e la metà degli anni ’50, bensì il periodo compreso tra i 12 e i 14 anni del lettore. I rappresentanti della seconda scuola vincono un biscotto per il cinismo!

Astounding Science Fiction
Un numero della rivista Astounding Science Fiction. Editor per molti anni è stato John W. Campbell, Jr. uno dei simboli della Golden Age

Chi ha ragione? Non lo so e non credo che la questione si possa dirimere se non attaccando elettrodi al cranio dei lettori e compiendo i dovuti esperimenti. Nel frattempo assumerò che il sense of wonder sia reale, anche se non ci metto la mano sul fuoco – la mia mano, quella di Licia ce la metto volentieri.

* * *

Il sense of wonder è la sensazione più intensa che abbia mai provato leggendo. È qualcosa di più del semplice emozionarsi. Non è come commuoversi, arrabbiarsi, avere paura o essere disgustata. Il sense of wonder è un brivido, una sensazione improvvisa e travolgente che lascia stupefatti, è la subitanea realizzazione che il mondo non sarà più lo stesso, è il riuscire a immaginare quello che fino a un instante prima era inconcepibile, è l’osservare l’intero Universo dalla cima di un grattacielo, è… UAU!
Mi rendo conto sia una descrizione un po’ vaga, ma è molto difficile spiegare il sense of wonder. Infatti John Clute nella sua Encyclopedia of Science Fiction svicola da una definizione precisa e dichiara che il sense of wonder è quella sensazione che fin dagli anni ’40 i fan si aspettano di provare leggendo la buona fantascienza.
Anche Peter Nicholls non fornisce una definizione formale, ma rimanda a questi versi di Wordsworth, tratti dal poema “Tintern Abbey”:

bandiera EN And I have felt
A presence that disturbs me with the joy
Of elevated thoughts; a sense sublime
Of something far more deeply interfused,
Whose dwelling is the light of setting suns,
And the round ocean and the living air,
And the blue sky, and in the mind of man;
A motion and a spirit, that impels
All thinking things, all objects of all thought,
And rolls through all things.

bandiera IT No, non mi metto a tradurre Wordsworth in maniera letterale e scolastica: il sense of wonder andrebbe a farsi friggere.

Tintern Abbey
Tintern Abbey: l’abazia che ispirò il poeta. Sense of wonder che sprizza da ogni mattone

In un’altra occasione Nicholls ha aggiustato il tiro: non basta il sublime,[1] il sense of wonder richiede anche un conceptual breakthrough, ovvero un (radicale) cambiamento di paradigma – come scoprire che la Terra è sferica invece che piatta o che gira intorno al Sole invece di essere ferma al centro dell’Universo.
Samuel R. Delany parla del sense of wonder in questi termini:

bandiera EN We all know science fiction provides action and adventure, as well as a look at visions of different worlds, different cultures, different values. But it is just that multiplicity of worlds, each careening in its particular orbit about the vast sweep of interstellar night, which may be the subtlest, most pervasive, and finally the most valuable thing in s-f. This experience of constant de-centered de-centeredness, each decentering on a vaster and vaster scale, has a venerable name among people who talk about science fiction: ‘the sense of wonder’.

bandiera IT Tutti sappiamo che la fantascienza garantisce azione e avventura, oltre a offrire la visione di pianeti differenti, culture differenti, valori differenti. Tale molteplicità di mondi, ognuno intento a seguire la propria particolare orbita, sperso nell’enorme distesa della notte interstellare, potrebbe essere la più sottile, la più pervasiva e infine la più importante caratteristica della fantascienza. Questa esperienza di costante de-centralizzazione, ogni decentralizzazione realizzata su una scala sempre più grande, ha un nome venerabile tra le persone che discutono di fantascienza: ‘il senso del meraviglioso’.

Per Joanna Russ il sense of wonder è:

bandiera EN [...] the feeling of transcendental beauty and awe that attached itself to the physical world.

bandiera IT [...] un sentimento di bellezza trascendentale e sgomento collegato al mondo fisico.

David Gerrold così si esprime:

bandiera EN Perhaps these were things you had never seen before, never even imagined. Perhaps your imagination was stretched beyond its limits, stretched and expanded. And afterward, perhaps you were left pondering things far beyond your sense of the possible.
That feeling is the sense of wonder.
The literature of the fantastic is about awakening that feeling of awe—and exercising it.
The sense of wonder is the marvelous heart of every great science fiction or fantasy story. It comes from the surprise of discovery. It comes from the recognition of the magic within. Most of all, it comes from the realization—the acknowledgment—of something new in the universe.

bandiera IT Forse queste cose non le avevate mai viste, non le avevate mai immaginate. Forse l’immaginazione si è spinta oltre i suoi limiti, si è espansa. E dopo, forse siete rimasti a ponderare su questioni ben al di là di quello che credevate possibile.
Questa sensazione è il sense of wonder.
Lo scopo della letteratura fantastica è risvegliare questo senso di sgomento – e stimolarlo.
Il sense of wonder è il cuore meraviglioso di ogni grande storia di fantascienza o fantasy. Deriva dalla sorpresa della scoperta. Deriva dall’accorgersi della magia intrinseca alla storia. Più di tutto, deriva dalla realizzazione – dalla consapevolezza – che è nato qualcosa di nuovo nell’universo.

E potrei continuare con infinite altre citazioni: ogni autore o appassionato ha la sua definizione più o meno diretta e più o meno dettagliata del sense of wonder.

Per me i tre elementi chiave sono: surprise, sublime e conceptual breakthrough.
Un tipico esempio di sense of wonder: in una Città seguiamo la storia di un investigatore che indaga su un omicidio, una contessa tradisce il marito, un mentecatto inizia a scrivere l’ennesimo inutile romanzo fantasy, una ragazza aggiorna il suo blog. All’improvviso investigatore, contessa, mentecatto e ragazza scompaiono. Scompare il morto, il marito tradito, il romanzo, il blog e Internet. Scompare l’intera Città.
Un coniglietto si risveglia.
Ecco i tre elementi: surprise – il tutto avviene di colpo.
sublime – il coniglietto!
conceptual breakthrough – la realtà che percepiamo è il sogno di un coniglietto.

Coniglietto addormentato
Quando il coniglietto si sveglierà, la realtà come la conosciamo cesserà di esistere. Perciò fate piano! Non parlate a voce troppo alta!

Notare che questo tipo di sense of wonder (“è tutto un sogno!”) non funziona più. Non perché in sé abbia qualcosa di sbagliato, ma perché il lettore un minimo smaliziato si immagina da solo che la realtà potrebbe essere un sogno. Perciò si può aggiungere all’elenco di elementi chiave l’originalità: non è una caratteristica intrinseca al sense of wonder, ma se manca spesso gli altri elementi non possono funzionare.

Ogni dettaglio fantastico ha in sé una scintilla di sense of wonder: quando in Leviathan la nave-balena volante spunta dalle nuvole, è sense of wonder.
Infatti c’è surprise – il lettore non ha elementi per immaginarsi che da lì a poco apparirà una nave-balena volante, c’è il sublime – la nave-balena è imponente, maestosa, dovrebbe lasciare a bocca aperta per lo stupore, e c’è il conceptual breakthrough – le nuvole in verità non sono nuvole ma una balena volante!!! L’originalità è così così: la nave-balena volante si è già vista in altri contesti, ma non è un cliché.
Certo, questo tipo di sense of wonder non sconvolge il lettore, non è il sense of wonder che fa esclamare “UAU!”, ma è meglio di niente. È meglio avere una balena volante in più, che una balena volante in meno. È questo il nocciolo della narrativa fantastica.

* * *

Alcuni esempi di vero sense of wonder in tre celeberrimi racconti: “L’Ultima Domanda” di Isaac Asimov, “I Nove Miliardi di Nomi di Dio” di Arthur C. Clarke e “La Stella” di H.G. Wells – il finale di ognuno dei tre racconti sarà svelato, dunque se non li avete mai letti, forse vi conviene farlo prima che gli spoiler ve li rovinino per sempre. Andate alla bibliografia, procuratevi i racconti, leggeteli e tornate qui.

Partiamo con “L’Ultima Domanda” (“The Last Question”, 1956) di Isaac Asimov. Nel 2061 è in funzione un supercomputer: Multivac. Due addetti alla manutenzione si prendono una pausa per scolarsi una bottiglia. Intanto discutono tra loro: cosa succederà quando le stelle di spegneranno? È possibile evitare la morte termica dell’universo? È possibile invertire l’entropia? Pongono queste domande al supercomputer. Il computer replica che non ha dati sufficienti per una risposta significativa.
Passano gli anni – migliaia di anni, milioni di anni, miliardi di anni. La razza umana scopre il segreto dell’immortalità, come viaggiare tra le stelle, come trascendere il proprio corpo fisico. Intanto anche la potenza di calcolo del supercomputer cresce sempre di più; diviene immensa.
Periodicamente viene posta la domanda: “È possibile invertire l’entropia?”. Ma la risposta del supercomputer è sempre: “Non ci sono dati sufficienti per una risposta significativa”.
Questo è il finale del racconto:

bandiera EN The stars and Galaxies died and snuffed out, and space grew black after ten trillion years of running down.
One by one Man fused with AC [Automatic Computer], each physical body losing its mental identity in a manner that was somehow not a loss but a gain.
Man’s last mind paused before fusion, looking over a space that included nothing but the dregs of one last dark star and nothing besides but incredibly thin matter, agitated randomly by the tag ends of heat wearing out, asymptotically, to the absolute zero.
Man said, “AC, is this the end? Can this chaos not be reversed into the Universe once more? Can that not be done?”
AC said, “THERE IS AS YET INSUFFICIENT DATA FOR A MEANINGFUL ANSWER.”
Man’s last mind fused and only AC existed – and that in hyperspace.

Matter and energy had ended and with it, space and time. Even AC existed only for the sake of the one last question that it had never answered from the time a half-drunken computer ten trillion years before had asked the question of a computer that was to AC far less than was a man to Man.
All other questions had been answered, and until this last question was answered also, AC might not release his consciousness.
All collected data had come to a final end. Nothing was left to be collected.
But all collected data had yet to be completely correlated and put together in all possible relationships.
A timeless interval was spent in doing that.
And it came to pass that AC learned how to reverse the direction of entropy.
But there was now no man to whom AC might give the answer of the last question. No matter. The answer – by demonstration – would take care of that, too.
For another timeless interval, AC thought how best to do this. Carefully, AC organized the program.
The consciousness of AC encompassed all of what had once been a Universe and brooded over what was now Chaos. Step by step, it must be done.
And AC said, “LET THERE BE LIGHT!”
And there was light.

bandiera IT Le stelle e le Galassie morirono e si spensero, e lo spazio, dopo dieci trilioni d’anni di decadimento, divenne nero.
Un individuo alla volta, l’Uomo si fuse con AC [Automatic Computer], e ciascun corpo fisico perdeva la sua idoneità mentale in un modo che, a conti fatti, non si traduceva in una perdita ma in un guadagno.
L’ultima mente dell’Uomo esitò, prima della fusione, contemplando uno spazio che comprendeva soltanto i fondi di un’ultima stella quasi spenta e nient’altro che materia incredibilmente rarefatta, agitata a casaccio da rimasugli finali di calore che calava, asintoticamente, verso lo zero assoluto.
«È questa la fine, AC?» domandò l’Uomo. «Non è possibile ritrasformare ancora una volta questo caos nell’Universo? Non si può invertire il processo?»
MANCANO ANCORA I DATI SUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA, disse AC.
L’ultima mente dell’Uomo si fuse e soltanto AC esisteva, ormai… nell’iperspazio.

Materia ed energia erano terminate e, con esse, lo spazio e il tempo. Perfino AC esisteva unicamente in nome di quell’ultima domanda alla quale non c’era mai stata risposta dal tempo in cui un assistente semi-ubriaco, dieci trilioni d’anni prima, l’aveva rivolta a un calcolatore che stava ad AC assai meno di quanto l’uomo stesse all’Uomo.
Tutte le altre domande avevano avuto risposta e, finché quell’ultima non fosse stata anch’essa soddisfatta, AC non si sarebbe forse liberato della consapevolezza di sé.
Tutti i dati raccolti erano arrivati alla fine, ormai. Da raccogliere, non rimaneva più niente.
Ma i dati raccolti dovevano ancora essere correlati e accostati secondo tutte le relazioni possibili.
Un intervallo senza tempo venne speso a far questo.
E accadde, così, che AC scoprisse come si poteva invertire l’andamento dell’entropia.
Ma ormai non c’era nessuno cui AC potesse fornire la risposta all’ultima domanda. Pazienza! La risposta – per dimostrazione – avrebbe provveduto anche a questo.
Per un altro intervallo senza tempo, AC pensò al modo migliore per riuscirci. Con cura, AC organizzò il programma.
La coscienza di AC abbracciò tutto quello che un tempo era stato un Universo e meditò sopra quello che adesso era Caos. Un passo alla volta, così bisognava procedere.
LA LUCE SIA! disse AC.
E la luce fu…

[traduzione di Hilja Brinis]

Gli elementi chiave: cominciamo dal sublime. Non è il sublime di una balena volante. Qui il sublime sta nella grandiosità della situazione: le stelle e le galassie sono spente; l’Universo è completamente buio; e poi la materia, l’energia, lo spazio e il tempo stesso cessano di esistere. Rimane solo la coscienza del computer, che, nelle ultime righe, si espande fino a occupare l’intero Universo.
Il conceptual breakthrough. AC scopre come invertire l’entropia, e dà la sua risposta con una dimostrazione: AC fa rinascere l’Universo. Ovvero l’origine dell’Universo potrebbe essere la risposta di un supercomputer all’ultima domanda.
La surprise: il lettore non ha idea di quale possa essere la risposta fino alle ultime due righe.

UNIVAC
Il Multivac di Asimov è ispirato all’UNIVAC I. No, è inutile che chiedete all’UNIVAC I, non vi risponderà…

In questo racconto il sense of wonder è prettamente scientifico e il cambiamento di paradigma è l’idea che si possano violare le leggi della termodinamica. È il sense of wonder tipico della fantascienza. In tempi più vicini si può ritrovare nelle opere di Vernor Vinge, Greg Egan o Charles Stross.

Tuttavia non è per niente obbligatorio un sense of wonder “scientifico”.
Consideriamo “I Nove Miliardi di Nomi di Dio” (“The Nine Billion Names of God”, 1953) di Arthur C. Clarke.
Secondo un gruppo di monaci tibetani, lo scopo dell’umanità è elencare tutti i possibili nomi di Dio – quando il compito sarà concluso, l’Universo cesserà di esistere. Per facilitarsi il lavoro, i monaci decidono di affittare un computer. Due tecnici arrivano in Tibet per installare e programmare la macchina.
Il computer comincia a stampare i nomi di Dio, e più passa il tempo più i due tecnici sono preoccupati. Non preoccupati che l’Universo possa cessare di esistere – che idiozia! – ma preoccupati che i monaci, delusi che non succeda niente, possano dare fuori di matto.
I due tecnici riescono a organizzare in modo che il computer finisca il suo lavoro mentre loro saranno già al sicuro, pronti a imbarcarsi su un aereo per tornare a casa.
Il finale del racconto è questo:

bandiera EN The swift night of the high Himalayas was now almost upon them. Fortunately the road was very good, as roads went in this region, and they were both carrying torches. There was not the slightest danger, only a certain discomfort from the bitter cold. The sky overhead was perfectly clear and ablaze with the familiar, friendly stars. At least there would be no risk, thought George, of the pilot being unable to take off because of weather conditions. That had been his only remaining worry.
He began to sing but gave it up after a while. This vast arena of mountains, gleaming like whitely hooded ghosts on every side, did not encourage such ebullience. Presently George glanced at his watch.
“Should be there in an hour,” he called back over his shoulder to Chuck. Then he added, in an afterthought, “Wonder if the computer’s finished its run? It was due about now.”
Chuck didn’t reply, so George swung round in his saddle. He could just see Chuck’s face, a white oval turned toward the sky.
“Look,” whispered Chuck, and George lifted his eyes to heaven. (There is always a last time for everything.)
Overhead, without any fuss, the stars were going out.

bandiera IT Adesso la rapida notte dell’alto Himalaya era quasi su di loro. Per fortuna la strada era molto buona, secondo la qualità media delle strade in quella regione, e tutti e due erano muniti di torce. Non c’era il minimo pericolo, soltanto il lieve disagio dovuto al freddo pungente. Il cielo sopra di loro era perfettamente limpido, e acceso dal brulichio delle familiari e amichevoli stelle. Per lo meno, pensò George, non ci sarebbe stato il rischio che il pilota non potesse decollare a causa delle cattive condizioni del tempo. Quella era l’unica preoccupazione che gli era ancora rimasta.
Cominciò a cantare, ma dopo un po’ ci rinunciò. Quel vasto anfiteatro di montagne che si stagliavano da ogni lato simili a bianchi fantasmi incappucciati, non incoraggiava una simile esuberanza. Poco dopo, George diede un’occhiata al suo orologio.
«Dovremmo esserci fra un’ora» gridò a Chuck, senza voltarsi. Poi aggiunse, a mo’ di ripensamento: «Mi chiedo se il computer non abbia finito il suo lavoro. Dovrebbe essere all’incirca adesso».
Chuck non rispose, così George si girò sulla sella. Poteva vedere il volto di Chuck, un ovale bianco rivolto al cielo.
«Guarda» bisbigliò Chuck, e George sollevò gli occhi verso il firmamento. (C’è sempre un’ultima volta per ogni cosa.)
In alto, senza nessun clamore, le stelle si stavano spegnendo.

[traduzione di Giampaolo Cossato]

Il conceptual breakthrough: Dio esiste e ha creato l’umanità perché possa elencare i Suoi nove miliardi di nomi. Ah, è la Fine del Mondo!
La surprise: il lettore, sapendo che si tratta di un racconto fantastico, può immaginarsi che i monaci abbiano ragione. Tuttavia Clarke è abbastanza bravo a sviare l’attenzione attraverso il punto di vista dei due tecnici, più preoccupati per i monaci pazzi che non per la faccenda dei nomi di Dio.
Il sublime: meno presente che non nel racconto precedente, ma il contrasto tra le montagne e le stelle “amichevoli” con il buio finale ha un pizzico di “sublimitudine”.

Ruota da preghiera
Ruota da preghiera tibetana: meno innocente di quanto non sembri

Il sense of wonder non è stato scientifico, ma rimane vero sense of wonder. Molti altri racconti e romanzi di Arthur C. Clarke sono imbevuti di sense of wonder. Giustamente famoso è il romanzo Le Guide del Tramonto (Childhood’s End, 1953), con il suo finale di mistica maestosità, degno di The End of Evangelion – leggo adesso su wikipedia che Hideaki Anno, regista di Evangelion, si sarebbe proprio ispirato al romanzo di Clarke. La differenza tra il finale di Childhood’s End e quello di The End of Evangelion è che il romanzo di Clarke ha un senso. Non svelo di più: leggete Childhood’s End ché ne vale la pena.

Terzo esempio di sense of wonder. Scenari meno apocalittici rispetto ad Asimov e Clarke, ma comunque molti gradini sopra la balena volante. Parlo del racconto di H.G. Wells “La Stella” (“The Star”, 1897).
In “The Star”, una stella attraversa il Sistema Solare. Il corpo celeste colpisce Nettuno e poi Giove. I calcoli indicano che colpirà anche la Terra o, se non lo farà, ci passerà molto vicina, causando ogni sorta di cataclisma.
Così Wells descrive l’apparire della stella nel cielo terrestre:

bandiera EN But the yawning policeman saw the thing, the busy crowds in the markets stopped agape, workmen going to their work betimes, milkmen, the drivers of news-carts, dissipation going home jaded and pale, homeless wanderers, sentinels on their beats, and in the country, labourers trudging afield, poachers slinking home, all over the dusky quickening country it could be seen–and out at sea by seamen watching for the day – a great white star, come suddenly into the westward sky!

bandiera IT Ma il poliziotto che sbadigliava la vide, la folla al mercato rimase a bocca aperta, la videro gli operai che andavano al lavoro di buonora, i lattai, gli edicolanti, chi tornava a casa pallido e stanco, i vagabondi, le sentinelle nel loro giro di guardia, e in campagna la videro i contadini che arrancavano nei campi, la videro i bracconieri che rientravano di soppiatto alle loro dimore, la si poteva vedere ovunque nella campagna scura che riprendeva vita – e in alto mare la videro i marinai di vedetta quel giorno – videro una grande stella bianca, che all’improvviso irrompeva nel cielo a Occidente!

In qualche misura è un modo di narrare un po’ ingenuo, però riesce a far trattenere il fiato, finché il sublime non appare nell’ultima riga: una grande stella bianca nel cielo d’Occidente!
Poi Wells descrive gli effetti catastrofici dell’avvicinarsi della stella, anche se, per fortuna, la stella non colpisce il nostro pianeta. L’ultimo paragrafo del racconto è questo:

bandiera EN The Martian astronomers – for there are astronomers on Mars, although they are very different beings from men – were naturally profoundly interested by these things. They saw them from their own standpoint of course. “Considering the mass and temperature of the missile that was flung through our solar system into the sun,” one wrote, “it is astonishing what a little damage the earth, which it missed so narrowly, has sustained. All the familiar continental markings and the masses of the seas remain intact, and indeed the only difference seems to be a shrinkage of the white discoloration (supposed to be frozen water) round either pole.” Which only shows how small the vastest of human catastrophes may seem, at a distance of a few million miles.

bandiera IT Gli astronomi marziani – perché ci sono astronomi su Marte, sebbene siano creature molto diverse dagli uomini – naturalmente furono profondamente interessati da questi avvenimenti. Ovviamente li videro dalla loro prospettiva. “Considerando la massa e la temperatura del proiettile che è volato attraverso il nostro Sistema Solare fin contro il Sole”, uno degli astronomi scrisse, “è incredibile quanto minimo sia stato il danno alla Terra, mancata di pochissimo. Tutti i familiari punti di riferimento continentali e le masse oceaniche sono rimasti inalterati, in effetti l’unica differenza sembra essere una riduzione della zona bianca (che si pensa sia acqua ghiacciata) intorno a ciascuno dei poli”. Il che dimostra quanto minuscole appaiano le più grandi catastrofi dell’umanità se viste da milioni di miglia di distanza.

Il conceptual breakthrough: i Marziani esistono e ci spiano![2] Ma non solo, qui il sense of wonder è alimentato anche dal decentering nella definizione di Delany: d’improvviso cambia la prospettiva; adesso la Terra è solo una piccola immagine nel telescopio di un marziano. Un punto di riferimento cardine è spostato: al centro metafisico dell’Universo non c’è più il nostro pianeta.

Collisione planetaria
Per fortuna non è andata così!

Questi tre racconti non sono perfetti dal punto di vista stilistico, però funzionano.
Il vero sense of wonder riesce a trascendere una scrittura poco brillante: Infinito (Last and First Men, 1930) di Olaf Stapledon non è neanche un romanzo nel senso comune del termine; in pratica non ci sono personaggi ed è quasi tutto raccontato. Se lo dovessi giudicare con il metro che uso di solito prenderebbe 100 gamberi marci. Tuttavia dalla sua Stapledon può sostenere di raccontare due miliardi di anni di storia futura dell’umanità.
L’intrinseca grandiosità e ambizione del progetto – il sense of wonder che nasce dall’incredibile viaggio fino alle sorti ultime dell’umanità – possono far chiudere un occhio sui dettagli tecnici della narrazione. Forse. Ciò detto, si può benissimo scrivere come Dio comanda e suscitare sense of wonder, le due cose non si escludono. La scarsa tecnica non favorisce in alcun modo il sense of wonder. Sto solo sostenendo che il sense of wonder è possibile nonostante una scarsa tecnica.

* * *

Quanto è importante il sense of wonder in un’opera di narrativa fantastica? Per alcuni è vitale. Scrive David Gerrold:

bandiera EN That sense of wonder is what you aspire to create; that’s what you must create if you are going to write effective science fiction and fantasy.

bandiera IT Dovete ambire a suscitare il sense of wonder; se volete scrivere efficaci storie fantasy o di fantascienza, dovete creare il sense of wonder.

Per Damon Knight:

bandiera EN Science fiction exists to provide what Moskowitz and others call ‘the sense of wonder’: some widening of the mind’s horizons, no matter in what direction [...]

bandiera IT La fantascienza esiste per suscitare quello che Moskowitz e altri chiamano ‘il senso del meraviglioso’: un espandersi degli orizzonti mentali, non importa in quale direzione [...]

Altri non la pensano così. I rappresentanti del partito “il sense of wonder è un’illusione!” pongono enfasi su altri elementi, considerando fondamentali personaggi, ambientazione, intreccio, ecc. Non riporto in dettaglio le loro opinioni perché mi stanno antipatici!
Io concordo con Gerrold e Knight: come già detto, il sense of wonder è il nocciolo del fantastico; il sense of wonder è vitale. Il sense of wonder eleva le storie in una dimensione altrimenti irraggiungibile. Nessun personaggio, nessuna ambientazione, nessun intreccio può avere l’impatto viscerale del meraviglioso.
Inoltre difficilmente una storia può avere un significato più profondo di una vicenda caratterizzata da vero sense of wonder. Il vero sense of wonder afferma qualcosa di basilare riguardo la realtà stessa: “Siamo tutti in una simulazione!!! E in più ci fanno lavorare senza ferie per costruire un computer quantistico!!!”, “La Terra è piatta!!! E se continuiamo a navigare non scopriamo l’America, cadiamo oltre il bordo del mondo e finiamo in orbita!!!”, “Dio esiste!!! E ha ucciso gli alieni per colpa dei Re Magi!!!” (provate a indovinare a quali racconti mi riferisco. Qualche indizio: sono tre racconti che sono stati tradotti in italiano. Il primo racconto è stato venduto come romanzo breve ed è già stato citato in un altro articolo del blog; il titolo del terzo racconto compare in questo di articolo).
Una storia può essere bella anche senza sense of wonder, ma senza sense of wonder non potrà mai compiere il balzo da “bella” a “UAU!”.

Io sono spesso accusata – specie quando si parla di opere italiane – di giudicare i romanzi solo in base allo stile, di fermarmi alla superficie e di non scavare più a fondo oltre le apparenze. C’è un pizzico di verità in questo, ma la ragione non è che sono sadica, invidiosa, acida, frustrata e rubo i leccalecca ai bambini, la ragione è che sono infinitamente buona e generosa.[3] Se dovessi giudicare in base ai parametri del fantastico, sarebbe sì un vero massacro. Non lo faccio perché in effetti il sense of wonder potrebbe essere illusione, potrebbe essere solo questione di gusto personale – non lo credo, ma non posso escluderlo.
Come già accennato, sono disposta a passare molto volentieri sopra a uno stile zoppicante se un romanzo mi facesse esclamare “UAU!”. Ma non succede. Anzi, anche i romanzi italiani migliori che ho letto – Pan, Esbat, L’Acchiapparatti di Tilos – si distinguono per personaggi, intreccio, ambientazione o qualità della scrittura; sotto il profilo del sense of wonder latitano. Negli ultimi anni forse un solo romanzo italiano di narrativa fantastica è riuscito a suscitarmi un minimo di sense of wonder. È un romanzo inedito di Luca Zaffini. Nonostante abbia letto solo una prima stesura – con tutti i problemi di stile e trama che questo comporta – sono rimasta impressionata. Quanto impressionata me ne sono resa conto scrivendo questo articolo: ormai è passato più di un anno da quando ho letto quel romanzo, eppure un sacco di scene le ricordo ancora benissimo. Una traccia di sense of wonder è rimasta dopo così tanto tempo e così tanti altri romanzi. Notevole. Spero l’autore riesca a pubblicarlo, credo sarebbe il più bel romanzo fantasy italiano da anni.

* * *

Le parole non hanno un costo diverso a seconda del loro significato. Potete spendere le parole di un romanzo per descrivere l’elfo, il nano e il barbaro che entrano in una taverna, mangiano, bevono, ruttano e poi il nano trascina tutti in una rissa; oppure potete scegliere altre parole e rivoltare l’intero Universo. Non si pagano tasse sulla fantasia, non ponetevi limiti!

Buon Natale a tutti! chikas_pink53.gif

Bibliografia

Per maggiori informazioni riguardo a gigapedia, consultate questo articolo.

Sulla fantascienza:

Copertina di The Encyclopedia of Science Fiction The Encyclopedia of Science Fiction di John Clute & Peter Nicholls (St. Martin’s Press, 1995).
Copertina di The Cambridge Companion to Science Fiction The Cambridge Companion to Science Fiction a cura di Edward James & Farah Mendelsohn (Cambridge University Press, 2003).
Copertina di Science Fiction: What It's All About Science Fiction: What It’s All About di Sam J. Lundwall (Ace Books, 1971).
Copertina di Reading by Starlight: Postmodern Science Fiction Reading by Starlight: Postmodern Science Fiction di Damie Broderick (Routledge, 1994).
Copertina di Worlds of Wonder: How to Write Science Fiction and Fantasy Worlds of Wonder: How to Write Science Fiction & Fantasy di David Gerrold (Writer’s Digest Books, 2001).

Opere citate:

Copertina di Nine Tomorrows Nine Tomorrows di Isaac Asimov (Doubleday, 1959).
Questa antologia contiene il racconto “The Last Question”. Potete anche leggerlo online, qui.
In Italiano trovate “L’Ultima Domanda” su emule dentro:
Icona di un mulo eBook.ITA.2854.Isaac.Asimov.
Il.Meglio.Di.Asimov.(doc.lit.pdf.rtf).[Hyps].rar
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Copertina di The Nine Billion Names of God: The Collected Stories of Arthur C. Clarke, 1951-1956 The Nine Billion Names of God: The Collected Stories of Arthur C. Clarke, 1951-1956 di Arthur C. Clarke (Signet, 1974).
Questa antologia contiene il racconto “The Nine Billion Names of God”.
In Italiano trovate “I Nove Miliardi di Nomi di Dio” su emule dentro:
Icona di un mulo eBook.ITA.1280.Isaac.Asimov.Le.Grandi.Storie.
Della.Fantascienza.15.1953.(doc.lit.pdf.rtf).[Hyps].rar
(2.793.403 bytes)
Copertina di L'Uomo dei Miracoli “The Star” di H.G. Wells potete leggerlo online, qui.
Secondo il Catalogo Vegetti esiste una sola traduzione italiana – “La Stella” – in un’antologia del 1905, L’Uomo dei Miracoli. Non si trova su emule. Ma a quanto pare il racconto è stato tradotto anche nell’antologia La porta nel muro e altri racconti edita da Bollati Boringhieri, e questa traduzione si può leggere online, qui. Grazie a doktorgeiger per la segnalazione.
Copertina di Childhood's End Childhood’s End di Arthur C. Clarke (Ballantine Books, 1953).
In Italiano lo trovate su emule, cercando:
Icona di un mulo eBook.ITA.2345.Arthur.C.Clarke.Le.Guide.
Del.Tramonto.(doc.lit.pdf.rtf).[Hyps].rar
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Copertina di Last and First Men Last and First Men di Olaf Stapledon (Methuen, 1930).
Potete anche leggerlo online, qui.
In Italiano è apparso negli Oscar Fantascienza Mondadori e nei Classici di Urania. Non si trova su emule.

* * *

note:
 [1] ^ Mi rendo conto che anche sulla definizione di “sublime” ci si potrebbe scannare. Intenderò “sublime” nel suo significato intuitivo di grandioso, eccelso, strabello.

 [2] ^ Infatti:

No one would have believed in the last years of the nineteenth century that this world was being watched keenly and closely by intelligences greater than man’s and yet as mortal as his own; that as men busied themselves about their various concerns they were scrutinised and studied, perhaps almost as narrowly as a man with a microscope might scrutinise the transient creatures that swarm and multiply in a drop of water.

Ma questa è un’altra storia!

 [3] ^ Ricordo che se siete miei fan dovete accettare il fatto che sono infinitamente buona e generosa come dogma di fede.


Approfondimenti:

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Alcune note sullo scrivere Recensioni

Una delle ragioni dietro la nascita della Barca dei Gamberi è stata l’insoddisfazione mia e del resto dell’equipaggio riguardo le recensioni librarie che si possono trovare in Rete e non. In particolare le recensioni che parlano di narrativa fantastica sono un disastro: se ne trovano poche, scritte da cani, inutili, e più spesso che non ipocrite e disoneste. Non sempre, certo, si possono incontrare anche ottime recensioni, ma sono rare.
Penso dipenda dal fatto che ognuno vede le recensioni a modo suo. Un po’ lo stesso problema che affligge la narrativa: ognuno insegue la sua presunta Arte come gli pare e piace, fregandosene se quello che sta scrivendo sia utile, interessante e divertente anche per il prossimo. Il che è un atteggiamento legittimo, ma non aiuta chi sta cercando invece proprio l’utile, l’interessante e il divertente.
Per questo voglio proporre una serie di linee guida rispetto allo scrivere recensioni. Probabilmente non verranno prese in considerazione da nessuno, se non da me stessa e dalla Barca dei Gamberi, ma non si sa mai, tentar non nuoce.

I: Lo scopo di una recensione.

Lo scopo di una recensione libraria dev’essere offrire al lettore un parere chiaro e inequivocabile rispetto al valore del romanzo preso in esame. Questo può essere ottenuto con poche o tante parole, con un esplicito giudizio numerico o lasciando che siano discorsi più articolati a esprimere il parere del recensore, non ha importanza, l’importante è che alla fine il lettore deve sapere se spendere 18 euro per comprare il tal romanzo o no; se vale la pena perdere 10 o 20 ore per leggerlo.
Ci possono essere mille distinguo e precisazioni – del tipo che magari il romanzo può piacere agli appassionati di Elfi ma comunque non vale 20 euro e dunque è un affare solo se scaricato gratis da emule – ma il recensore non può e non deve sfuggire dall’esprimere il suo giudizio. Deve prendersi la responsabilità di dire: vale la pena leggerlo, non vale la pena leggerlo.
Può sembrare un’ovvietà ma non lo è. Ci sono quintali di recensioni che parlano di tutto e di più e poi i commenti dei lettori sono di questo tenore: “…sì, d’accordo, ma non solo non ho capito se il romanzo mi potrebbe piacere, ma non ho neanche capito se è piaciuto al tizio che l’ha recensito!” Ecco, recensioni così sono da buttar via.
Bisogna essere espliciti e prendere posizione. Perché, in generale, non ci sono vie di mezzo, non puoi presentarti alla cassa in libreria e discutere del più e del meno e dei Massimi Sistemi della Natura: o paghi i 18 euro o non li paghi.
Questo non vieta che si possa parlare di romanzi senza esprimere un parere netto, solo non sono recensioni e il lettore ne dovrebbe essere consapevole.

Sex for the eyes
Sex for the eyes. Your art is like sex for the eyes

II: Una recensione deve essere obbiettiva.

Questo significa che il recensore deve rendere noti (al limite nella recensione stessa) i criteri che intende adottare, e a quelli attenersi. Deve attenersi a quei criteri indipendentemente da quale romanzo prenda in considerazione, chi sia l’autore, la casa editrice o qualunque altro fattore esterno. Inoltre i criteri devono essere consistenti da recensione a recensione.
Un esempio: qualche tempo fa, cercando altro, mi sono imbattuta in un sito di recensioni filmiche “cattoliche”. Il criterio di valutazione del sito era basato sul verificare quanto i film presi in esame fossero in accordo con la dottrina della Chiesa Cattolica. È un sito obbiettivo? Sì, perché i criteri adottati sono espressi in maniera esplicita e applicati a ogni film. È un sito dal quale prenderò consigli? No, perché i criteri non mi paiono adeguati.
Uno dei criteri adottati dalla Barca dei Gamberi è per esempio l’accuratezza dell’ambientazione. Un altro è l’originalità. Altri sono illustrati nell’articolo Riassunto delle Puntate Precedenti. Non pretendo che nessun altro adotti i nostri stessi criteri, ma una scelta dev’essere compiuta. Il criterio: come gira la Luna al recensore mentre scrive la recensione, non è un criterio accettabile.
Una scelta a priori dei criteri è anche l’unica possibilità per il lettore di poter verificare l’attendibilità della recensione. Dato il romanzo, o al limite estratti dello stesso, e dati i criteri ognuno può controllare se quello che il recensore scrive sia obbiettivo o no.
Sempre in quest’ottica di obbiettività, io considero più interessanti i criteri basati sul testo piuttosto che quelli basati sull’interpretazione dello stesso. Mi spiego meglio: mettiamo che uno adotti un criterio “politico”, per cui un romanzo è buono se aderisce a certe idee e brutto se fa riferimento a idee diverse. Di per sé può essere un criterio valido, ma poi il nostro recensore prende in mano il classico di Heinlein Fanteria dello Spazio. Dice che è un brutto romanzo perché è un romanzo “fascista”. Solo che, come ovvio, nel testo da nessuna parte c’è scritto che si tratta di un romanzo fascista: quella è un’interpretazione. Sarà vera? Forse sì, forse no, in quanto interpretazione è soggettiva: diventa difficile stabilire se il recensore sia stato sul serio obbiettivo.
Invece stabilire se un romanzo è originale o no non è così complesso (basta guardare i precedenti) e neppure è complicato accertare la verosimiglianza o verificare la coerenza interna.
Rimanendo attinenti al testo si può dire molto su un romanzo, e dire un molto oggettivo, senza entrare nel pantano delle interpretazioni. Rimanendo legati al testo si possono fare affermazioni che sono vere in sé, e secondo me queste affermazioni sono le più interessanti, perché sono vere per tutti. Non sto più offrendo un servizio solo a chi condivide la mia filosofia (come può essere con il sito di recensioni “cattoliche”), ma sto offrendo un servizio a tutti.
Va da sé che i criteri per me perdono ogni validità quando vanno oltre il testo e l’interpretazione. Per me non ha alcun senso dire che un romanzo è bello o brutto perché l’ha scritto un autore piuttosto che un altro. O magari perché ha venduto tanto o poco, o perché ne hanno tratto un film o un videogioco. O perché aiuta l’economia favorendo la vendita di segnalibri. I criteri devono essere legati alle parole del romanzo, non a quello che ci gira intorno.

III: Quando la recensione non è obbiettiva bisogna segnalarlo.

Oltre ai criteri obbiettivi esiste anche un parere personale del recensore. Il recensore deve chiarire quando sta uscendo dai criteri per addentrarsi nelle opinioni. Se un romanzo ha sessanta pagine di fila di inforigurgito, è un oggettivo errore (secondo i criteri adottati), e come tale lo si deve rimarcare. Poi si può aggiungere che le sessanta pagine, pur non muovendo in avanti la storia di un niente, contengono però – secondo il personale parere del recensore – delle informazioni interessanti e dunque il recensore medesimo non si è annoiato.
In altri termini, i “secondo me”, “per me”, i “penso” e “credo” vanno riservati per quando è davvero così. Finché si seguono i propri dichiarati criteri non è opinione, è affermazione.

Hungry?
Hungry?. I would like to have you for dinner

IV: Il recensore deve poter applicare i propri criteri.

Sembra scontato, ma non lo è. Torniamo al sito di recensioni “cattoliche”: chi scrive su quel sito, deve conoscere a menadito tutti i testi sacri, il Catechismo e ogni altro rilevante documento. Non può inventarsi il cattolicesimo come gli pare, altrimenti i criteri adottati in realtà non corrispondono a quelli esposti.
Se io adotto come criterio l’originalità, devo conoscere a sufficienza il genere per poter appunto affermare che il tal testo è originale o no. Se io dico: “nel fantasy è importante l’originalità! finora ho letto di fantasy, uh… Il Signore degli Anelli e tutti i romanzi di Licia!” è ovvio che non potrò davvero applicare quel criterio come i miei lettori si aspettano.
Se penso che la verosimiglianza in un romanzo (pseudo)storico sia importante, e il romanzo parla di un’epoca che non conosco o conosco poco, prima di scrivere la recensione devo documentarmi. E capisco benissimo possa suonare esagerato, in fondo spesso se ne fregano gli stessi autori, ma i criteri li ho scelti io. Se non si può scrivere una recensione applicando i propri stessi criteri… be’, non la si scrive.
In alternativa si può confessare al lettore che il tal particolare non è stato verificato o si è ignoranti di quell’altro fatto. Finché sono questioni marginali può passare, ma se sto recensendo un romanzo dove la guerra ha un ruolo fondamentale e non ne so niente, è inutile confessarlo: non devo proprio scrivere la recensione di quel romanzo.
Tutti pensano di essere più o meno geniali e di avere opinioni originali e interessanti: non è vero. Veri geni esclusi (e se state leggendo queste righe geni non lo siete, altrimenti sareste a gegnalare da qualche altra parte), quando qualcuno scrive di un argomento è tanto più interessante quanto più è documentato e preparato. Perciò è inutile cianciare di ciò che non si conosce: si perde tempo e lo si fa perdere al prossimo.

In case of Fire
In case of Fire. In case of fire, use fire extinguisher!

V: Bisogna essere semplici, precisi e inequivocabili.

Icona di un gamberetto La semplicità di linguaggio è necessaria dato che ci si sta rivolgendo a un pubblico di appassionati ma non necessariamente di “addetti ai lavori”.
Come già ribadito si sta cercando di scrivere recensioni obbiettive, dove le affermazioni sono veritiere in quanto aderenti al testo da una parte e ai criteri scelti dall’altra e non perché espresse da Nicoletta o Luisa. Dunque usare paroloni su paroloni per sembrare più “intelligenti”(sic) non serve a niente, se non a infastidire il lettore.

Icona di un gamberetto La precisione è di vitale importanza. La precisione impone da un lato di usare un lessico appropriato, dall’altro di esprimere concetti il meno generici possibile.
Le due cose sono strettamente legate fra loro; per esempio, a me è capitato di leggere infinite volte nelle recensioni frasi di questo tipo: “questo è un romanzo coraggioso”, oppure “questo è un romanzo profondo” o aggettivi simili. Qual è il problema con affermazioni del genere?

  • Il lessico non appropriato crea ambiguità. Quando Mario entra nel palazzo in fiamme per salvare la vecchia vicina di casa che gli sta pure antipatica, possiamo definirlo “coraggioso”. Ma un romanzo? Quand’è che un romanzo affronta con sprezzo del pericolo una situazione di vita o di morte (perché questo è il coraggio)? O forse ci si riferisce all’autore? Ma in Italia, 2009, quale coraggio ci vuole a pubblicare un romanzo? Al massimo si rischia una denuncia per diffamazione, non si rischia la vita. O forse si fa riferimento allo stile? “Un romanzo coraggioso perché sfida le convenzioni della narrativa!” Ah, che gran coraggio ci vuole a sfidare le convenzioni della narrativa! Lo stesso di Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco!
    Si possono estrarre mille significati dementi dal quel coraggioso, ed è questo il danno: la recensione non è più inequivocabile, va interpretata, diviene ambigua.
  • Proprio perché coraggioso è ambiguo, può essere affiancato a qualunque romanzo. Nihal della Terra del Vento è un romanzo coraggioso. Il Nome della Rosa è un romanzo coraggioso. Bryan di Boscoquieto è un romanzo coraggioso. Quando in una recensione si esprime un concetto così generico, applicabile a qualunque libro, si sta sprecando inchiostro. Come faccio a scegliere tra Nihal della Terra del Vento e Il Nome della Rosa quando mi viene proposta una caratteristica che possono avere entrambi? Sarebbe come dire: “leggete questo romanzo perché è un romanzo pieno di parole”. Oh bella, ma anche tutti gli altri romanzi sono pieni di parole, perché dovrei leggere proprio questo? Anche tutti gli altri romanzi possono essere coraggiosi, perché dovrebbe in particolare interessarmi questo?

Lo stesso dicasi per “profondo”, “importante”, “scomodo” e così via. Meno grave è quando l’affermazione non è ambigua ma rimane generica: “questo è un romanzo noioso”, o il classico “questo è un romanzo bello/brutto”. Detto così non vuol dir niente, il recensore deve illustrare perché quel “noioso” è applicabile in quel caso particolare.
La Setta degli Assassini è un romanzo noioso”. Questa è un’affermazione che può essere vera o falsa, ma di per sé ha valore minimo, comunica al lettore poco o niente.
“Ne La Setta degli Assassini la protagonista piange ogni poche pagine: che noia!”. Questa invece è un’affermazione specifica e dunque comunica al lettore molto di più. Inoltre questa è un’affermazione verificabile: volendo ognuno può controllare se sia vero o no che la protagonista piange ogni poche pagine.
Lo stesso vale per lo stile di scrittura. Quante volte si leggono espressioni del tipo che il tal autore ha una scrittura “fresca”, o “vivace”, o “in punta di penna”(sic) o simili. Ma che vuol dire? NIENTE. È come con i libri coraggiosi, sono ambigue frasi fatte. È vero che spesso è difficile definire uno stile, e può essere conveniente usare un aggettivo generico, però almeno il recensore deve aver ben chiaro il perché ha usato proprio quell’aggettivo. Se dico che lo stile è “trasparente”, devo poterlo dimostrare testo alla mano, anche se magari nella particolare recensione non è così importante inserire le appropriate citazioni.

Icona di un gamberetto Infine l’essere inequivocabili. In parte è compreso nella precisione, in parte significa che non bisogna contraddirsi (d’oh!). Non si può dire: “il romanzo è avvincente e noioso.” Troppo ovvio? Allora questo, preso da una recensione “vera”: “[...] vengono in mente Agota Kristof e Magda Szabò, ma sono paragoni che non reggono.” Se sono paragoni che non reggono non ha senso farli…
Essere inequivocabili implica anche evitare tutte le espressioni non quantificabili, tutti i “piuttosto”, “quasi”, “si potrebbe dire che”, “in un certo senso”: non bisogna scrivere “quasi rosso”, bisogna scrivere “arancione”, non “piuttosto in carne” ma “grasso”, non “in un certo senso è come fosse un vampiro” ma “è uno gnokko”.

VI: Bisogna entrare in argomento.

Bisogna spiegare di cosa parla il libro; è necessario fornire la trama del romanzo. Spesso i recensori si lasciano trascinare in una sorta di delirio, per cui un romanzo affronta Argomenti Decisivi, pone l’Uomo di fronte ad interrogativi Fondamentali, è una pietra miliare nella storia della Letteratura e quant’altro e si “dimenticano” di dire di cosa diavolo parla il romanzo.
Per un sacco di gente, me compresa, l’argomento è importantissimo. I marziani invadono la Terra? Una ragazza dai capelli blu ammazza gente a destra e a manca con uno spadone? Una compagnia di Elfi debosciati deve salvare una principessa? Io lo voglio sapere!
Il recensore deve perciò raccontare quale sia la trama, con due avvertenze: se si è colti da attacco di pigrizia e si decide di scopiazzare la trama dalla quarta di copertina o da qualche comunicato stampa della casa editrice, è bene accertarsi che la trama sia quella giusta, spesso non è così; se si è in dubbio se svelare o no certi particolari, si possono sempre usare gli “spoiler”, sul web è facile mascherarli come si preferisce.

Entrare in argomento significa anche rimanere attinenti al testo. Dimostrare le proprie affermazioni con citazioni adeguate. Un sacco di romanzi arrivano in libreria senza che il lettore abbia potuto leggerne una sola pagina, perciò (ampi) estratti nella recensione sono i benvenuti (e ricordo a chi si facesse di questi problemi che è legale: è legale citare e riprodurre brani di un’opera finché l’intento è di critica o studio e non si sta facendo concorrenza all’opera originale).
Siamo sempre dalle parti della precisione: la recensione è di quel particolare romanzo, dunque lì bisogna scavare, lì ci sono i punti di riferimento. Bisogna parlare di quel romanzo, non della Letteratura, dell’Uomo, della Natura, e del Diavolo-in-Carrozza.

Toy Trunk
Toy Trunk. Jimmy is finally old enough to get the toys out of the trunk all by himself!

VII: Bisogna usare tante parole quante ne servono.

Se si scrivono recensioni sui giornali o sulle riviste non si è liberi di scrivere finché si vuole: la carta costa e perciò sono quasi sempre imposti limiti ben precisi. Per fortuna sul web non è così: il costo di un testo in termini di banda consumata è infinitesimale, per cui scrivere poche righe o scrivere un trattato dal punto di vista economico è la stessa identica cosa.
Per questa ragione non bisogna porsi alcun problema di spazio. Una recensione può essere approfondita a piacere, finché non corrisponde per filo e per segno a quel che il recensore vuole dire. Così pure non ci si deve porre problemi con le citazioni: se è opportuna una (lunga) citazione dal testo originale, inserirla è tutto di guadagnato.
Questo non significa però sbrodolarsi: non è una licenza per parlare dei problemi privati del recensore o per disquisire di argomenti che nulla hanno a che vedere con il testo; ogni riga della recensione deve avere un suo perché e ogni passaggio dev’essere interessante.

Ma è raro imbattersi in recensioni sbrodolate, è molto più presente l’errore opposto: ovvero recensioni compresse in poche righe.
Qui entrano in gioco diversi fattori: pigrizia del recensore (ma se sei pigro e ti pesano le dita a scrivere forse non è il tuo “mestiere”), il desiderio bruciante di esprimere un’opinione anche se non si ha niente da dire (e in questo caso è molto meglio “linkare” qualcuno che già dice il poco che vorremo dire noi, piuttosto che riscrivere le stesse cose), e l’idea balorda che scrivendo sul web bisogna essere agili, veloci, compatti, brevi.
Perché è un’idea balorda? Perché il linguaggio sul web funziona come sulla carta, l’Italiano è lo stesso e dunque se per esprimere un concetto hai bisogno di 100 parole su una pagina stampata avrai ancora bisogno di 100 parole su una pagina web. È vero che leggere a video è più faticoso e si hanno molte più distrazioni davanti a un PC, ma questo è al di fuori delle possibilità di controllo di un recensore (a parte le ovvie – che per molti ovvie non sono – considerazioni tipografiche: per esempio non scrivere viola fosforescente su sfondo verde brillante). Non si possono tagliare pagine da un trattato di filosofia o matematica solo perché “troppo lungo per il web”: web o non web il significato deve mantenersi integro. Così una recensione: deve contenere quanto necessario che sia sul web o no.
Inoltre c’è un altro livello di balordaggine implicito nell’idea di scrivere apposta poco, di “condensare” i concetti: che scrivere poco sia facile. Non lo è. Può essere meno faticoso, meno impegnativo, portare via meno tempo, ma non è più facile, tutt’altro. Il riuscire a mantenere integro un argomento riducendo via via le parole è incredibilmente difficile. Una buona recensione da 2.000 parole può diventare uno schifo immondo in 500 se l’autore non è più che abile (abile come può essere abile qualcuno che ogni volta che scrive una short story minimo un paio di premi internazionali li vince).
Dunque il recensore non si deve porre problemi di spazio: deve scrivere quello che è necessario. Se la recensione risulterà interessante, verrà letta lo stesso, web o non web.

VIII: Il tono dev’essere funzionale.

Le mie recensioni usano un tono tra l’ironico e il sarcastico. È una scelta voluta: ritengo sia il tono più adatto per “reggere” la lunghezza dei testi e al contempo quello che meglio si adatta a certa narrativa (il fantasy di scarso valore). Altri possono scegliere di usare un tono diverso e potrà andare bene uguale, però è importante che questa scelta abbia motivazioni legate alla recensione medesima, e non “esterne”. Ad esempio usare un tono “serioso” solo per mostrare la presunta posatezza del recensore è una scelta sbagliata se il tono “serioso” rallenta la lettura della recensione. Come già più volte ribadito, si sta cercando di essere obbiettivi, dunque la “serietà” del recensore è implicita nei concetti che esprime, non nel tono che usa.
Così come non ha senso ritenere che determinati argomenti (la Letteratura con la L maiuscola) debbano per forza richiedere un certo tipo di atteggiamento: perché mai? Ho letto testi di astrofisica scritti in maniera divertente e perfino con humor nero (si veda per esempio Death by Black Hole: And Other Cosmic Quandaries di Neil deGrasse Tyson), non si capisce perché la Letteratura, la Narrativa, il Fantasy o quant’altro dovrebbero invece essere speciali.
Il recensore ha lo scopo di tenere appiccicato il suo lettore dall’inizio alla fine della recensione, e per questo deve scegliere il tono più congeniale, altre considerazioni a riguardo non hanno nessuna importanza.

Icecream
Icecream.

Extra: Domande con e senza risposta.

Icona di un gamberetto Quali romanzi scegliere da recensire? Non saprei indicare un metodo. In generale io apprezzo recensioni positive di romanzi poco noti e recensioni sia positive sia negative di romanzi famosi. Recensire in negativo romanzi sconosciuti è di solito inutile: tanto non li compra nessuno comunque. Per i romanzi famosi prima di recensirli è una buona pratica controllare che qualcuno non abbia già espresso le nostre stesse considerazioni, nel qual caso meglio “linkare” l’altro piuttosto che riscrivere le medesime cose.
Però è un’idea generale che lascia il tempo che trova. La verità è che, come diceva Lorna Sage, la gran parte dei romanzi sono mediocri, li leggi e non ti lasciano nessuna particolare emozione né in bene, né in male, dunque non si sa neanche cosa scrivere a volerli recensire.
Perciò forse conviene scegliere romanzi interessanti, che in positivo o in negativo impressionino. Inoltre come già ricordato, è utile che il recensore conosca gli argomenti trattati dal romanzo, non fosse il caso, è meglio lasciar perdere quella recensione.

Icona di un gamberetto Si possono recensire romanzi tradotti? In teoria no. La recensione dev’essere sempre sul testo in lingua originale, però è anche vero che è probabile che poi il lettore compri la traduzione, non l’originale. Credo che un lavoro ben fatto implichi il leggere in lingua originale e poi rileggere la traduzione o almeno controllarla accuratamente. Nella recensione si specificheranno eventuali problemi dovuti al passaggio di lingua. Ammetto però di non seguire io stessa questo metodo, cercherò di adeguarmi.

Icona di un gamberetto Bisogna leggere fino in fondo un romanzo per recensirlo? No. È buona norma farlo, ma se un romanzo è illeggibile è illeggibile. Se bastano le prime 5 o 50 pagine per poter affermare con adeguata dimostrazione che non vale la pena spendere 18 euro, la recensione può essere scritta anche se il recensore lì si è fermato. Tengo però a precisare che tutte le recensioni qui sul blog dei Gamberi, come elencate nell’Indice delle Recensioni, sono a fronte della lettura integrale del testo, e anzi in alcuni casi il romanzo in esame è stato letto più volte.

Icona di un gamberetto Il recensore di narrativa deve essere anche uno scrittore? No. Però se tra i criteri di valutazione include la tecnica narrativa, deve conoscerla. Magari non così bene da scrivere narrativa degna di pubblicazione, ma comunque i meccanismi gli devono essere chiari.

Icona di un gamberetto Perché scrivere recensioni negative? Non è meglio suggerire solo il bello e lasciare il brutto nell’oblio? Può essere una degna scelta, e non ho problemi con chi la adotta. Però personalmente ritengo che in molti casi sia più utile non comprare il brutto, piuttosto che comprare (anche) il bello, e dunque il recensore deve recensire sia i romanzi che gli sono piaciuti sia quelli che gli sono piaciuti meno.

Icona di un gamberetto Si’ pou usare 1 linguagio modrno nll recensioni??? Sì, cm no!!! Anzi + punti esklamativi e k si metono a kaso in 1 recensione + la rece e’ strbellixima!!!1!!!!

Icona di un gamberetto È troppo facile criticare! No, per niente: scrivere una recensione negativa richiede lo stesso tempo di scriverne una positiva. Inoltre la pressione sociale favorisce la recensione positiva: posso “tagliare le curve” in una recensione positiva (per esempio non dimostrando testo alla mano ogni singolo passaggio) senza che nessuno ne sia scandalizzato, mentre una riga maldestra in una recensione negativa significa avere in casella di posta elettronica la mail di qualche squilibrata che minaccia di pikkiarmi.

Icona di un gamberetto Non la stai prendendo troppo sul serio? Vale la pena perdere tutto questo tempo per una recensione? No, è probabile non valga la pena. D’altra parte, vale la pena perder tempo a leggere un romanzo fantasy? Perdere tempo a scriverlo? Perdere tempo a leggere o scrivere narrativa? A leggere o scrivere libri? A leggere o scrivere? Vale la pena fare qualunque cosa?

Piggy Bank
Piggy Bank. Now you try


Approfondimenti:

bandiera EN Everyone’s a Critic: a Qualitative Study to Investigate the Perceptions and Attitudes towards Book Review Websites on the World Wide Web (PDF)
bandiera EN Death by Black Hole: And Other Cosmic Quandaries su Amazon.com
bandiera EN Nocturnal Devil (autore dei disegni in questo articolo) su deviantART

 

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Sul Copyright

Qualche giorno fa Cory Doctorow ha pubblicato un nuovo libro, Content: Selected Essays on Technology, Creativity, Copyright, and the Future of the Future. Come chiarisce il titolo non è un romanzo, è un raccolta di articoli e brevi saggi scritti da Doctorow negli ultimi anni e già apparsi su riviste online e cartacee. Fosse un altro parlerei di mezza truffa, visto che si cerca di vendere roba vecchia e in molti casi ancora reperibile in Rete, ma Doctorow, fedele alle sue idee, ha deciso anche questa volta di rendere disponibile per il download il testo completo del libro. Perciò chi vuole può pagare i 15 dollari del prezzo di copertina, e chi non vuole può lo stesso leggerlo.

Copertina di Content
Copertina di Content

Gli articoli trattano i temi più svariati, dalle fanfiction, ai MMORPG, alla Singolarità e tanti altri argomenti. La parte del leone è però appannaggio del discorso sul diritto d’autore e il futuro della scrittura nell’epoca di Internet. Doctorow ha una posizione radicale in merito, non a caso durante tutta la sua carriera di scrittore ha sempre distribuito i suoi romanzi e racconti con licenza Creative Commons. E bisogna subito notare un particolare importante: Doctorow ha una carriera. Non è facile inventarsi una carriera come scrittore, specie scrittore di fantascienza, Doctorow ci è riuscito e secondo lui uno dei fattori è stato proprio il distribuire liberamente i suoi romanzi.
Io non ho (ancora) una carriera come scrittrice di fantascienza, ma sono d’accordo con Doctorow.
Ho già affrontato la questione in diversi articoli, ma mai in maniera sistematica. Come nel caso della scrittura, con il Riassunto delle Puntate Precedenti, è giunto il momento di chiarire in maniera inequivocabile quale sia la posizione della Barca dei Gamberi rispetto al diritto d’autore e problemi affini. E per non suscitare inutili polemiche, puntualizzo subito un fatto incontrovertibile, una verità auto evidente: io ho ragione, chi non è d’accordo sbaglia!

Sul Copyright

Partiamo dal principio. Il principio è che le opere d’arte sono utili per la società nel suo complesso. Qui per “opere d’arte” intendo quelle opere che così sono comunemente definite, da Beethoven a Moccia, ovvero non entrerò nella polemica: “Mozart è arte, Britney Spears è spazzatura!” Può essere che ascoltare Mozart sia benefico e ascoltare Britney Spears no, può essere che leggere la Troisi sia addirittura dannoso, ma nel complesso, assumerò che leggere, ascoltare musica, andare al cinema o a teatro, e attività simili suscitano emozioni e trasmettono conoscenze che arricchiscono l’individuo e di conseguenza l’intera società.
Il ruolo positivo dell’arte lo darò per scontato; non tutti la pensano così, ma discutere questo punto esula dagli scopi del presente articolo. Questo articolo parte dal presupposto che più gli individui fruiscono delle opere d’arte, meglio è per tutti.

Dunque è necessario produrre e distribuire più arte possibile. Purtroppo la tecnologia attuale non permette di creare arte in maniera industriale. Se la società ha bisogno di sedie, pomodori pelati in scatola o carri armati, non è un problema, materie prime permettendo, produrre tali beni in quantità. Con l’arte non funziona così. Creare un’opera d’arte richiede l’intervento specialistico di un essere umano (credo, certi romanzi fantasy me ne fanno dubitare). Ci sono programmi per computer che in automatico scrivono brevi racconti o poesie, ma almeno per ora i risultati non sono all’altezza. Non è detto che sarà sempre così: a molti piace pensare che solo il sublime intelletto umano possa partorire le Cronache del Mondo Emerso o Vacanze di Natale, tuttavia non ci sono prove scientifiche a sostegno di questa tesi; è possibile che il segreto di un buon romanzo sia più semplice di quanto non si creda e che perciò non sia lontano il giorno nel quale sarà un software a scrivere in automatico i romanzi di Licia Troisi. Con la differenza che saranno belli! Sfortunatamente quel giorno, purché forse vicino, è ancora di là da venire.

Licia Troisi & cosplayer
Licia Troisi (a sinistra) e fan. Guardando queste immagini (altre qui) non è difficile credere che presto le Intelligenze Artificiali saranno in grado di scrivere romanzi…

Non potendo industrializzare l’arte, una società deve spronare chi è in grado di produrla a darsi da fare. E qui nasce il diritto d’autore: la società conferisce dei diritti particolari agli artisti quale incentivo a produrre più arte possibile. Questo è un punto fondamentale. Il copyright non ha basi morali, non sancisce diritti divini, è una sorta di contratto: io società ti sventolo davanti al naso la carota di vivere e diventar ricco scrivendo invece di lavorare in miniera, e tu artista in cambio produci più arte possibile. Ed è anche la ragione per la quale il copyright ha durata limitata: se io, i miei figli, i miei nipoti, i miei amici, il mio editore e tutti i suoi dipendenti potessimo vivere di rendita in eterno sulla base dei diritti delle opere già create, non avrei più nessun incentivo a crearne altre. L’idea è che quando i diritti su Topolino stanno per scadere, il signor Disney esclami: “Ostrega! Adesso devo inventarmi un altro personaggio!”, invece il signor Disney paga più o meno sottobanco i membri del Congresso americano per far allungare la durata del copyright. Ma questa è un’altra storia.
C’è da notare che la società potrebbe cambiare i termini dell’accordo con gli artisti andando in altre direzioni: se ogni individuo adulto non produce la sua quota di arte, pubblica fustigazione e galera! Da quanto ne so nessuno ci ha mai provato, nondimeno potrebbe funzionare.
Le leggi sul copyright possono essere paragonate a un condono edilizio: si offre un incentivo perché delle persone compiano azioni ritenute utili allo società (mettersi in regola / evitare di continuare a costruire senza permesso), tuttavia nulla vieta che l’anno dopo invece del condono ci siano ruspe e manette. Siamo su questo piano, parliamo di un incentivo, con lo scopo ultimo di accrescere la quantità di opere d’arte fruibili dalla società nel suo complesso, tutto qui, da nessuna parte il copyright sancisce un fantomatico diritto al guadagno degli artisti, al massimo offre una possibilità di guadagno.

Come accennato, oltre a produrla, l’arte occorre distribuirla. Prima dell’invenzione della stampa, distribuire un libro significava innanzi tutto ricopiarlo a mano, lavoro che poteva richiedere anni. È facile intuire come i benefici dell’arte sulla società siano minimi quando l’accesso è così limitato.
Con il passare dei secoli la tecnologia è via via progredita, rendendo sempre più facile usufruire delle opere d’arte. Quindi sono arrivati i computer e Internet. Internet è quell’incredibile Rete con decine di milioni di nodi il cui unico scopo è trasmette informazioni. Grazie a Internet il costo di diffusione dell’arte si è avvicinato a zero, almeno nei paesi occidentali. Con un normale abbonamento ADSL da 15 euro al mese posso spedire un film su DVD dall’Italia all’Australia spendendo pochi centesimi. Una frazione infinitesimale rispetto ai costi del mondo pre Internet. Meraviglioso! Il problema è che questo risultato è ottenibile solo violando il diritto d’autore. Il punto di forza di Internet è la possibilità per ognuno dei nodi di ricopiare e (ri)trasmettere le informazioni. Ma come recitano le parole scritte in piccolino in ogni libro, DVD, e quant’altro, la riproduzione dell’opera in oggetto senza autorizzazione è vietata.
Perciò da un lato abbiamo un sistema che permette di abbattere in maniera stratosferica i costi di distribuzione, ma dall’altro, per raggiungere tale risultato, deve necessariamente violare il copyright[1]. Qual è la soluzione? Storicamente è stato adattare il copyright alle nuove tecnologie.
Doctorow illustra vari casi, per altro piuttosto famosi: per esempio la minaccia delle pianole sulla salute degli Americani.
Ai primi del ’900, se si voleva ascoltare della musica, era necessario andare a un concerto o pagare qualcuno perché venisse a suonare a casa nostra. Poi iniziarono a diffondersi le pianole e i pianoforti automatici. Questi apparecchi musicali non avevano bisogno che qualcuno li suonasse, le note venivano lette da rulli di carta perforata. Com’è facile immaginare, superato l’investimento iniziale della pianola, era molto più semplice ed economico acquistare i rulli con i vari brani, piuttosto che ogni volta affittare un pianista. Inoltre i produttori di rulli non pagavano un centesimo di diritti a nessuno: prendevano gli spartiti, li convertivano in rulli e i compositori potevano pure morire di fame!

Piano roll
Un “rullo” (piano roll) sbobinato

Compositori e musicisti andarono a piangere presso il Congresso americano, lamentando che se non fossero state proibite le pianole era la morte dell’arte musicale. Peggio, i giovani, soverchiati dall’incessante gracchiare delle infernali macchinette, avrebbero perso ogni entusiasmo per il canto, finché le loro corde vocali non fossero avvizzite, lasciando in dote all’America una generazione di muti.
Il Congresso decise che i produttori di rulli dovessero pagare una licenza per usufruire degli spartiti, e dall’altra parte fosse obbligatorio concedere tale licenza, secondo termini stabiliti per legge. Alla faccia del Libero Mercato! Però, alla fine, ci guadagnarono tutti.
La stessa storia si ripeté con la radio, le musicassette, i videoregistratori e la televisione via cavo. Ogni volta nasceva un sistema più economico ed efficiente di distribuire le opere d’arte e ogni volta qualcuno si abbandonava a previsioni catastrofiche piangendo miseria. Ogni volta si è deciso che non era nell’interesse della società rinunciare a un progresso tecnologico in nome di privilegi presunti inviolabili, e dunque si sono adattate le leggi per tener conto dei diritti di tutte le parti in causa.
Poi è arrivato Napster, il sistema per scambiare musica via Internet. L’antesignano di eMule, Gnutella, BitTorrent e soci. Napster in poco più di un anno ha raccolto 50 milioni di utenti: mai nessuna tecnologia nella storia era stata adottata tanto in fretta. Le società discografiche, come sempre, si sono messe a piangere – e qui cominciano i guai – il Congresso ha dato loro ragione.
Da leggi utilitaristiche, le leggi sul copyright sono diventate Vangelo, per cui tutto può cambiare ma il diritto d’autore diviene intoccabile. Napster è stato chiuso, le pene per la violazione di copyright sono state inasprite, e gli USA hanno cominciato a richiedere come base per eventuali accordi commerciali che le leggi dei vari Paesi venissero modificate fino a copiare quelle americane.
Da non dimenticare poi la nascita di campagne pubblicitarie terroristiche, come quelle basate sul concetto che la violazione del diritto d’autore sia equivalente a rubare beni fisici. Questa è una stronzata, ma purtroppo più di qualcuno ci ha creduto e ci crede tutt’ora.

Il demenziale spot antipirateria che equipara il rubare allo scaricare da Internet. No, non ruberei mai una macchina, però spaccherei volentieri il cranio di chi ha inventato questa idiozia

Ricordo perciò che perché ci sia furto io devo impossessarmi di qualcosa di un altro. Entro in un museo e mi frego un quadro: questo è rubare. Se entro in un museo e fotografo il quadro, non lo sto rubando! Quando si copia un film o un libro non si sta portando via niente a nessuno, il legittimo proprietario è ancora legittimo proprietario.
“Ma, ma, cioè tu è come se rubassi!!! Perché ecco se non avessi la copia compreresti il libro e dunque hai rubato il guadagno all’autore!!!” Vicino a casa mia c’è una fermata dell’autobus e a meno di venti metri un concessionario. Ogni volta che prendo l’autobus invece di pagare 5.000 euro per un’auto, sto derubando il concessionario!!! Perché, se non ci fosse l’autobus, sarei costretta a prendere la macchina. Stronzate. Se non ci fosse l’autobus, andrei a piedi. Se il tal romanzo non è disponibile su Internet, non spendo 20 euro per comprarlo, ne leggo un altro o non leggo niente del tutto e mi metto a giocare a Puzzle Quest (piratato).

Trailer di Puzzle Quest. Un gioco semplice ma divertentissimo!

E qui torniamo al discorso di partenza: più gli individui usufruiscono dell’arte, meglio è. Perciò è più utile per la società che io legga il romanzo gratis piuttosto che non lo legga a 20 euro.

Ciò non significa che non spenderò mai 20 euro – in fondo anche se ci sono gli autobus quasi tutti un’auto la comprano – significa che la società deve approfittare del fatto che la tecnologia permette di distribuire gratis l’arte, perché è questo lo scopo, non creare un regime da borsa nera, dove artificialmente si riduce l’offerta per tenere alti i prezzi.
Non sto parlando in teoria, basta guardare il pastrocchio delle regioni sui DVD. I produttori cinematografici si sono accordati per dividere il mondo in 7 regioni, e si sono garantiti per legge che i lettori di DVD venduti in una regione possano riprodurre solo i DVD pensati per quella regione. E questo perché i signori produttori sanno benissimo che in Europa o in America possono vendere un DVD a 30 euro, ma nessuno lo comprerà a quel prezzo in Cina o in Russia. Dunque era necessario un meccanismo perché le regioni più ricche non potessero importare i DVD venduti a prezzi bassi nelle regioni più povere. In Russia non è raro trovare DVD a 5 euro e anche meno. Non piratati, DVD ufficiali, di film appena usciti. E con i DVD a 5 euro le case cinematografiche ci guadagnano. Però che brutto guadagnare 5 quando puoi guadagnare 30, facendo approvare quelle due o tre leggi che danneggiano la collettività ma ti favoriscono…

Con la chiusura di Napster si è persa l’occasione di legalizzare l’utilizzo di Internet come sistema per la diffusione dell’arte. Da un lato i “detentori dei diritti” hanno cominciato la loro opera tendente a censurare Internet, dall’altro le persone hanno continuato a scambiarsi opere d’arte a costi vicini allo zero.
“Censurare” non è un termine scelto a caso: secondo i signori discografici & amici, il copyright è così sacro che non solo è inammissibile distribuire opere protette da diritti senza permesso, ma è inammissibile discutere di come si possano distribuire tali opere, è inammissibile discutere delle opere stesse e addirittura citarle. La MLB, la lega americana dei giocatori di baseball professionisti, ha denunciato gente sulla base che secondo lei, le statistiche dei giocatori erano coperte da copyright![2] Sarebbe come dire che io non posso utilizzare o comunicare il fatto che Maradona ha segnato 115 gol col Napoli senza il permesso della Lega Calcio! In questi giorni quei mentecatti di Scientology hanno spedito 4.000 diffide a YouTube perché togliesse altrettanti video, sostenendo che citare Scientology senza permesso è violazione di copyright. Ascoltare la radio ad alto volume con le finestre aperte non è disturbo della quiete pubblica, ma un reato ben più grave: violazione di copyright! Anche in questo caso ci sono state denuncie.
Come ovvio il solo denunciare non basta. È importante che ci siano pene esemplari, che la gente vada in galera per essersi scambiata informazioni.
Ci sono poi i lecchini che fanno a gara a essere “più realisti del Re”. Quel citrullo di Sarkozy ha per esempio introdotto in Francia la così detta “dottrina Sarkozy”: i provider devono staccare la connessione a Internet quando un utente raggiunge le tre violazioni del copyright. Chi decide delle violazioni? I detentori dei diritti. Se io casa cinematografica decido che tu stai violando il mio copyright, faccio in modo di staccarti la connessione (e questo non esclude una successiva denuncia).

Sarkozy
Secondo Sarkozy, a causa della pirateria via Internet, “corriamo il rischio di essere testimoni della distruzione della cultura.” Come si fa a discutere con gente così? Mazzate, questo è l’unico atteggiamento civile da tenere

Qualcuno – ingenuo! – potrebbe pensare che forse sarebbe il caso indagasse qualcuno esterno alle parti, tipo un giudice, ma purtroppo il reato di violazione di copyright è troppo grave perché ci si possa affidare alla giustizia, tanto più che i tribunali funzionano in questa maniera assurda: prima di condannare qualcuno ci devono essere delle prove. Chi ha bisogno di prove, quando basta il sospetto? Passare per vie legali va bene per lo stupro o l’omicidio o le rapine a mano armata, ma per fatti davvero gravi, che minano le basi stesse della società, come lo scambio senza fini di lucro di musica, bisogna intervenire in maniera drastica e senza tentennamenti. Naturalmente i detentori dei diritti svolgono loro le opportune indagini, affidandosi a sofisticati metodi per scoprire i violatori dei diritti, non a caso in questi anni grazie a tali sopraffini metodi hanno scoperto che infrangevano il copyright vecchietti morti da tempo, così come gente che non lo sa neppure usare un computer, e appurato ciò, è toccato ai figli essere torchiati. D’altra parte una commissione del Senato USA ha stabilito che le reti P2P con il loro scambio libero di opere protette da diritti finanziano il terrorismo. Osama & soci scaricano i film via eMule, masterizzano migliaia di copie, le rivendono e con il ricavato si comprano il tritolo! È palese come l’unica soluzione sia chiudere i sistemi P2P, così i terroristi non potrebbero più procurarsi i film. Proprio.

Ma lasciamo perdere questi pazzi. Quello che sostengono molti è che in un regime di sistematica violazione del copyright, venga a mancare l’incentivo che il copyright offriva. In poche parole l’artista pensa: “Brutti bastardi piratoni! Ogni volta che scrivo qualcosa me la copiate e la gente legge a sbafo senza pagarmi, non diventerò mai ricco! Basta! Non scrivo più neanche una riga!”
Assumiamo sia vero; è, in altri termini, la morte del professionismo in campo artistico. L’arte può essere al massimo solo un hobby, dato che i piratoni impediscono qualunque guadagno. È così grave? Kafka è stato un impiegato per tutta la vita, Tolkien era professore, Tom Clancy mentre scriveva il suo primo e miglior romanzo lavorava come assicuratore. Se questi tre signori fossero stati professionisti della scrittura, se avessero potuto dedicare 24 ore su 24 all’arte dello scrivere, avrebbero creato opere più belle? Forse sì, forse no. Clancy da quando si è dedicato esclusivamente alla scrittura ha prodotto materiale più scadente. In ogni caso mi sembra ovvio che anche se sparisse il professionismo, non necessariamente sparirebbe la (buona) arte. Kafka forse avrebbe potuto fare più di quel che ha fatto, ma già così ad averli tutti questi Kafka!

Casco
Questo è un casco antinfortunistico, del tipo che gli operai dovrebbero sempre tenere in testa mentre lavorano nei cantieri, per evitare incidenti. Ebbene, è stato inventato da nient’altri che Franz Kafka!

Inoltre non si tiene conto di un altro fatto: già ora la gran parte delle opere artistiche sono prodotte da dilettanti. In Italia si stampano decine di migliaia di libri l’anno, ma come noto, i personaggi che possono sopravvivere grazie alla sola scrittura sono pochissimi. Perciò il 99% della produzione è frutto di hobbysti che non ci guadagnano niente o quasi. Siamo sicuri che tutto questo esercito che non guadagna niente, smetterebbe di scrivere solo perché ha il sospetto che non guadagnerà mai niente? Davvero questi migliaia di libri nascono unicamente dalla prospettiva per gli autori d’intascare tanti soldi quanti la Rowling? Io non credo, perché se sul serio l’obbiettivo di una persona fosse la ricchezza, non ci proverebbe neanche con la scrittura.

Ricapitolando:

  • La qualità artistica non è legata al professionismo; intuitivamente se una persona ha la possibilità di dedicare tutto il suo tempo a un’attività è probabile che la svolga al meglio, tuttavia non è una condizione indispensabile, anche part time si può diventare scrittori sopraffini.
  • La prospettiva del guadagno non può essere la sola motivazione a spingere così tanta gente a scrivere. Perciò, se dovesse sparire tale prospettiva, rimarrebbero lo stesso un buon numero di scrittori.

E questo partendo dal presupposto: assumiamo sia vero. Ma non è vero. Già da diversi anni ogni singolo album musicale, videogioco o film è disponibile gratis in Rete. Con i romanzi non siamo ancora a questa copertura capillare ma non manca molto. Ebbene, se fosse vero che i piratoni mangiano tutti i guadagni, la cosidetta “Industria dell’intrattenimento” sarebbe dovuta crollare da tempo. Ma se si sommano i guadagni di discografici, editori, produttori cinematografici e di videogiochi, nel complesso sono stabili o in crescita. In particolare i videogiochi hanno avuto un boom in questi ultimi anni, raggiungendo in America gli introiti di musica e cinema. Eppure ogni singolo gioco lo posso scaricare, senza difficoltà.
Perciò il piagnisteo dell’artista dovrebbe essere questo: “Ecco, 10 anni fa c’erano 1.000 artisti professionisti, e io avrei potuto essere uno di questi, ma ho preferito giocare a ping-pong, adesso ci sono 2.000 artisti professionisti, e dunque le possibilità sono aumentate, però se non ci fossero i piratoni bastardi, forse ci sarebbero 3.000 artisti professionisti! Ecco, i piratoni mi hanno rubato 1.000 possibilità di successo! Ho deciso: non scriverò mai più una riga!” Dobbiamo davvero rispondere a questo frignone? Non credo.
Anche qui partendo dall’ipotesi più negativa, cioè che la libera diffusione delle opere abbia intaccato i possibili guadagni globali riducendo la crescita. È vero? Non ci possono essere riposte certe, ma con ogni probabilità no.

Signora che gioca a ping-pong
Avrebbe potuto essere una scrittrice fantasy di successo, invece ha scelto di dedicare la vita al ping-pong

Studi empirici hanno dimostrato che la disponibilità gratuita di un’opera artistica non incide sulle vendite, e quando questo avviene è un’incidenza positiva. Per rimanere in campo editoriale, come avevo già ricordato in un articolo di qualche mese fa, può far testo l’esperimento svolto dal signor O’Reilly, che ha provato a misurare l’andamento delle vendite di un libro da lui pubblicato in presenza della contemporanea distribuzione gratuita del testo. In breve, le vendite sono state in linea con le previsioni, la libera disponibilità del libro non ha avuto alcuna influenza negativa. Però 180.000 persone hanno potuto leggere tale libro, la società nel suo complesso è stata arricchita.
Lo stesso Doctorow racconta come all’inizio Tor Books (il suo editore – uno dei più grandi editori di fantasy e fantascienza del mondo) fosse un po’ scettico riguardo quest’idea balzana di offrire online gratis i libri, ma dopo i primi tentativi, adesso è l’editore stesso a spingere perché gli scrittori adottino questa tattica. E per una semplice ragione: perché così si vendono più libri!
Si vendono più libri perché la disponibilità libera del testo genera pubblicità, rende conosciuto il nome dell’autore. Infatti in un celebre articolo ancora il signor O’Reilly spiega che per un artista il problema numero uno non è certo la pirateria, bensì l’anonimato. La gente non compra il romanzo del tal scrittore perché può leggerlo a sbafo o perché non piace il genere o per le critiche negative, non compra perché non sa neanche che lo scrittore e il suo libro esistono! La distribuzione gratuita online può far molto per ovviare al problema.

Qui i miscredenti fanno notare che il “trucco” funzionerà finché saranno pochi gli autori ad adottare questa tattica, quando tutti o quasi distribuiranno liberamente, sparirà la novità e la gran parte degli artisti torneranno nell’anonimato. Forse, ma nel frattempo i rapporti di forze potrebbero cambiare. Un mondo di opere libere significa che se io scrivo una recensione negativa di un romanzo della signora Troisi, ognuno può verificare, e se viceversa la Mondadori intasa di pubblicità la Rete, ognuno può controllare se le affermazioni entusiastiche corrispondono alla realtà. Credo che la possibilità di accedere alle fonti senza pagare possa cambiare il rapporto con la pubblicità tradizionale. Se prende piede l’abitudine di prima leggere e poi pagare, può essere che si crei un nuovo ambiente, dove la selezione naturale favorisca i più bravi e non i più ricchi.
Sourceforge.net è uno dei più frequentati siti di Internet. Raccoglie progetti software open source e gratuiti. Allo stato attuale ci sono 133.256 progetti, eppure se si controlla la pagina con i progetti più scaricati, si può notare come molti di questi siano di qualità eccelsa. I migliori sono stati premiati. eMule è il notissimo programma di filesharing, programma che uso regolarmente, Azureus è un client BitTorrent (non il migliore, il migliore è uTorrent, anch’esso gratuito – ma comunque Azureus è buon secondo), VirtualDub è un programma di editing video che, in un centesimo dell’occupazione di memoria di mastodonti come Adobe Premiere, svolge una marea di funzioni (è il programma che uso per tagliare, montare, e correggere i colori dei video che metto qui sul blog), guliverkli racchiude vari sottoprogetti tra i quali il Media Player Classic, il miglior player multimediale per Windows.
In TV o sui giornali non si è mai visto uno spot per Azureus o VirtualDub, e nonostante questo i download si contano a decine di milioni.
Non vedo perché con la letteratura non possano attivarsi gli stessi meccanismi, facendo emergere le opere più meritevoli.

VirtualDub
Uno screenshot di VirtualDub. Maggiori informazioni al sito ufficiale

Riassumendo, i vantaggi di un’abolizione delle attuali norme sul copyright – o anche solo un ritorno alla punibilità per il solo lucro, il che renderebbe legale la distribuzione gratuita via Internet da parte di chiunque:

  • Costo zero per chi vuole usufruire dell’arte, con aumento della diffusione, a beneficio di tutta la società.
  • Maggiori vendite per gli artisti coinvolti, perché la distribuzione in Rete garantisce pubblicità.
  • Ulteriore incentivo per i nuovi artisti, dato che le possibilità di guadagno sono aumentate.

E gli svantaggi? Nessuno.
Qui ci sono analogie con il Proibizionismo e la “Guerra alla Droga”. Liberalizzare le droghe significa privare la Mafia e le altre organizzazioni criminali di enormi guadagni, significa far sparire tutti i reati connessi ai prezzi artificialmente alti delle sostanze, significa poter fornire prodotti più controllati e meno dannosi per la salute. Non lo si fa perché sarebbe immorale.
Con il copyright è uguale: stringi stringi la motivazione di chi vuole mantenere o inasprire il presente stato di cose è che è immorale usufruire di un servizio senza pagare.
Nei due campi c’è chi parla così sapendo di mentire (la già citata Mafia nel caso della droga, e la MAFIAA nel caso del copyright): costoro si mascherano da difensori della moralità solo per coprire ben più concreti interessi economici. Per gli altri, quelli sul serio convinti che sia un problema morale, non ho risposte, perché questi sono in pratica quelli che citavo a inizio articolo, quelli che non pensano che la diffusione dell’arte sia in assoluto un beneficio per la società.
Ben inteso, il fatto che non possieda i mezzi retorici o di coercizione fisica per convincere i “moralisti” non implica che la mia posizione e la loro siano sullo stesso piano. Ripeto: io ho ragione. Punto.

Concludo raccomandando di leggere Doctorow, perché gli argomenti sono interessanti, la prosa brillante e nel primo articolo scrive persino come Capitan Gambero, facendo il pirata! Arrrrr! (sic)

Edit del 12 Gennaio 2009: Content è disponibile anche in lingua italiana. Vedi relativa segnalazione.

* * *

note:
 [1] ^ Prendiamo YouTube, il famoso sito di condivisione di video. YouTube spende da 1 a 6 milioni di dollari al mese per acquistare la banda necessaria a fornire il servizio. E i video su YouTube hanno qualità infima. Se un’azienda volesse vendere film in formato HD (tipo Blu-Ray) usando Internet come mezzo di distribuzione avrebbe spese enormi in termini di banda da acquistare. Tali costi sarebbero ugualmente inferiori a quelli di un trasporto del disco fisico fino ai negozi, ma non sarebbero certo prossimi a zero. Lo zero si raggiunge solo quando si ha l’attiva collaborazione di migliaia e più nodi, come avviene nei sistemi peer-to-peer (P2P). Ognuno dei nodi deve sostenere una spesa infinitesimale e nel complesso il sistema sposta quantità enormi di dati. Ma questo significa che molteplici copie devono esistere in diversi nodi, violando così il copyright.
L’unica eccezione può essere l’editoria: i libri sono piccolissimi e a differenza dei film o dei videogiochi non è prevedibile che crescano in grandezza con il passare del tempo (riguardo ai film si parla già di Ultra HD). In altre parole un editore, pur mantenendo un solo punto di distribuzione, può lo stesso diffondere i suoi libri via Internet a un costo prossimo allo zero.
EDIT: YouTube ha cominciato a “trasmettere” anche in HD, ma ha aggiunto la pubblicità…

 [2] ^ Per fortuna dopo un paio d’anni di tira e molla le richieste della MLB sono state respinte: non è possibile pretendere di avere il copyright sui fatti. Ma non dubito ci riproveranno e magari la prossima volta troveranno giudici e politici più “malleabili”…


Approfondimenti:

bandiera EN Content su Amazon.com
bandiera EN Il sito di Content da cui è possibile scaricare il testo completo

bandiera EN Il sito della Electronic Frontier Foundation in prima linea nella difesa delle libertà digitali
bandiera EN TorrentFreak, uno dei siti più aggiornati per le notizie riguardanti il P2P
bandiera EN Freedom to Tinker, noto blog che si occupa degli argomenti trattati nell’articolo

bandiera EN Il sito ufficiale di Puzzle Quest

 

Scritto da GamberolinkCommenti (184)Lascia un Commento » feed bianco Feed dei commenti a questo articolo Questo articolo in versione stampabile Questo articolo in versione stampabile • Donazioni

Cose da un altro mondo

Nel 1845 il Capitano Sir John Franklin partì dall’Inghilterra con 128 uomini e due navi equipaggiate di tutto punto per la navigazione in acque polari. Il suo scopo era trovare il Passaggio a Nordovest, ovvero tracciare una rotta che portasse dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico passando lungo la costa settentrionale del Canada, tra i ghiacci dell’Oceano Artico.
Nei tre anni successivi le due navi, la HMS Erebus e la HMS Terror, tenteranno invano di aprirsi una via. Intrappolate nel pack artico, saranno abbandonate dagli equipaggi. I marinai di Franklin proveranno a tornare alla civiltà marciando a piedi per centinaia di chilometri di desolazione: non sopravvivrà nessuno.

HMS Terror
La HMS Terror intrappolata nei ghiacci artici durante una precedente spedizione (1836- 1837), da un disegno del Capitano George Back

Quel che sia davvero successo alla spedizione non è mai stato accertato. È opinione comune che a uccidere Franklin e i suoi uomini sia stata una combinazione di scorbuto, polmonite, tubercolosi, avvelenamento da piombo dovuto al cibo inscatolato e cannibalismo. Tuttavia le cose potrebbero anche essersi svolte in maniera diversa…

Nel suo ultimo romanzo, The Terror (titolo italiano: La Scomparsa dell’Erebus), Dan Simmons suggerisce che oltre alle delizie già elencate, gli equipaggi siano stati vittime di una misteriosa creatura, dotata di forza e abilità sovrannaturali.
Due navi bloccate dai ghiacci nel circolo polare artico, isolate e senza possibilità di ricevere aiuto, e in più assalite da una bestia maligna: se la trama non suona originale è perché è una rielaborazione di un classico della fantascienza, ovvero Who Goes There? (titolo italiano: La “cosa” da un altro mondo), romanzo breve di John W. Campbell Jr.
Dalla “cosa” sono state anche tratte due versioni cinematografiche, forse più famose del romanzo stesso: The Thing from Another World (La Cosa da un Altro Mondo) del 1951 e The Thing (La Cosa) del 1982 per la regia di John Carpenter.

Il romanzo di Campbell è del 1938. Penso sia interessante osservare come una stessa storia sia stata interpretata in maniera diversa nel 1938, 1951, 1982 e 2007. Devo però avvertire che non ci sarà molto modo di esercitare il sarcasmo né riuscirò a insultare nessuno, anche se Simmons mi è un po’ antipatico!


Copertina di Who Goes There? Titolo originale: Who Goes There?
Titolo italiano: La “cosa” da un altro mondo
Autore: John W. Campbell Jr.

Anno: 1938
Nazione: USA
Lingua: Inglese

Genere: Fantascienza
Pagine: 137

Campbell scrive Who Goes There? nel 1938, usando lo pseudonimo di Don A. Stuart. Campbell era già famoso come autore di space opera avventurosa, piena d’invenzioni mirabolanti e avvenimenti catastrofici – ed era molto bravo: un romanzo come The Mightiest Machine (titolo italiano: I Figli di Mu) se letto ai giorni nostri può a tratti risultare ingenuo e inforigurgitoso, ma rimane lo stesso divertentissimo. Io mi sono divertita! – tuttavia all’epoca era considerata narrativa di serie B, e così per le sue storie più “serie” Campbell usava uno pseudonimo.

Copertina de I Figli di Mu
Copertina de I Figli di Mu

In Who Goes There?, una spedizione scientifica al Polo Sud trova una nave spaziale sepolta da milioni di anni nel ghiaccio. Nel tentativo di liberarla, gli scopritori compiono la scelta sbagliata, pensando bene di sciogliere il ghiaccio usando bombe incendiarie! La nave spaziale viene così accidentalmente distrutta. Ma non tutto è perduto: a poca distanza dal relitto, in un blocco di ghiaccio, è rimasta surgelata un’inquietante creatura, evidentemente uno dei passeggeri dell’UFO. Gli scienziati riportano il blocco alla loro base.
Dopo un’accanita discussione su cosa fare del mostro, si decide di sciogliere il blocco e iniziare a studiare la carcassa della creatura. Purtroppo per loro la creatura non è proprio morta…

La cosa di Campbell
La “cosa” scoperta tra le nevi del Polo Sud vista dall’illustratore George Barr sulla base della descrizione di Campbell

Who Goes There? inizia con la discussione di cui sopra, nella quale sono anche riassunti i fatti relativi alla scoperta della nave spaziale. Una volta presa la decisione di procedere con l’autopsia della “cosa”, il romanzo si muove a ritmo velocissimo, senza più pause fino al termine. È per molti versi uno scorrere fin troppo frenetico, che lascia un po’ l’amaro in bocca, perché certe situazioni meriterebbero maggior approfondimento. Ma dal mio punto di vista è da apprezzare come Campbell mantenga sempre l’attenzione sugli aspetti essenziali della storia che sta narrando, senza mai perdersi in quisquiglie.

Uno degli aspetti essenziali è la “cosa” stessa. La “cosa” è una creatura intelligentissima, con poteri telepatici e malvagia fino al midollo. La “cosa” inoltre è in grado di “assorbire” qualunque essere che venga in contatto con lei. Una volta contaminato dalla “cosa” un uomo o un animale si trova le proprie cellule sostituite da quelle della “cosa” e in poco tempo non è più lui ma un’altra “cosa”, che però rimane ancora parte della “cosa” originaria.

«Che cosa aveva intenzione di fare?» Barclay fissò il telo cerato.
Blair sogghignò, sgradevolmente. L’aureola ondeggiante di capelli sottili che gli cingeva la testa calva fremette in un soffio d’aria.
«Impadronirsi del mondo, immagino.»
«Impadronirsi del mondo? Così, da solo?» ansimò Connant. «Diventare un dittatore solitario?»
«No.» Blair scosse il capo. Il bisturi con il quale stava giocherellando cadde; si chinò a raccoglierlo, e il suo volto rimase nascosto, mentre parlava. «Sarebbe diventato la popolazione del mondo.»
«Diventato… avrebbe popolato il mondo? Si riproduce asessualmente?»
Blair scosse ancora il capo e deglutì.
«Non… non ne ha bisogno. Pesava quaranta chili. Charnauk [qui si sta parlando dei cani da slitta, prime vittime della "cosa"] ne pesava circa quarantatre. Sarebbe diventato Charnauk, e gli sarebbero rimasti ancora quaranta chili per diventare… oh, Jack, per esempio, o Chinook. Può imitare qualunque cosa… cioè, può diventare qualunque cosa. Se avesse raggiunto l’oceano antartico, sarebbe diventato una foca, o magari due foche. E le foche avrebbero potuto aggredire un’orca, e diventare orche, oppure un branco di foche. O forse avrebbe catturato un albatros, una procellaria, e sarebbe arrivato a volo nell’America meridionale.»
Norris bestemmiò sottovoce.
«E ogni volta che avesse digerito qualcosa e l’avesse imitata…»
«Avrebbe avuto a disposizione la sua massa originaria, per ricominciare,» terminò Blair. «Niente potrebbe ucciderlo. Non ha nemici naturali, perché diventa quello che vuole diventare. Se una orca l’avesse aggredito, sarebbe diventato un’orca. Se fosse stato un albatros, e un’aquila l’avesse attaccato, sarebbe diventato un’aquila. Dio, poteva diventare un’aquila femmina, tornare indietro, fare un nido e deporre le uova!»
«Sei sicuro che quella cosa infernale sia morta?» chiese sottovoce il dottor Copper.
«Si, grazie al cielo,» ansimò il piccolo biologo. [ma non è vero, la "cosa" non è morta!!!]

La proprietà della “cosa” di essere al contempo una e molti, verrà sfruttata per scoprire chi tra gli scienziati non è più lui ma solo un’imitazione, nella famosa scena dell’esame del sangue, scena che diventerà un momento chiave anche nel film di Carpenter.

Il punto saliente della lotta alla “cosa” nel romanzo di Campbell è la razionalità dei personaggi coinvolti. Tutto il “cast”, “cosa” in testa, si comporta sempre in maniera lucida, con freddezza e determinazione. Non c’è gente che gira da sola negli angoli bui della base, né tizi che danno fuori di testa, o altre scene ormai presenti in ogni tipo di film/romanzo simile. Qui abbiamo degli scienziati, persone considerate intelligenti, e come tali si comportano. Dall’altra parte la “cosa” proviene da una civiltà in grado di viaggiare tra le stelle, perciò una creatura evoluta, e dimostrerà di esserlo.
Ho apprezzato molto. Come invece non apprezzo la diffusa tendenza a giustificare personaggi che si comportino in maniera irrazionale in situazioni di stress, anzi, in qualche maniera tale comportamento viene considerato più “realistico”. In realtà più spesso che non è l’autore a non saper come cavarsi fuori dagli impicci se non riducendo artificialmente il quoziente intellettivo delle persone coinvolte. Campbell ha rispetto per i suoi personaggi e per i lettori, e nessuno si comporterà da idiota.
È probabile influisca anche una visione di fondo nei riguardi della scienza: in Campbell gli scienziati in quanto tali sono personaggi positivi, appunto razionali e intelligenti, mentre già nel film del ’51 saranno considerati dei bambini troppo cresciuti, che si baloccano con giocattoli che sarebbe meglio lasciar perdere. Nel ’51 non ci si può più fidare degli scienziati; come spiegherà un personaggio: è la stessa gentaglia che ha inventato la bomba atomica! Bastardi!

Tsar Bomba
Il 30 Ottobre 1961 i sovietici fecero detonare tra i ghiacci del Circolo Polare Artico il più potente ordigno mai costruito: la Tsar Bomba. Una bomba atomica della potenza di 50 megaton (50 milioni di tonnellate di tritolo). L’esplosione produsse una sfera di fuoco (nell’immagine) del raggio di quattro chilometri, visibile a più di mille chilometri di distanza. Il susseguente “fungo” si alzò per 60 chilometri nel cielo, con un diametro di 40 chilometri. L’onda d’urto fu tale da infrangere le finestre di molti palazzi in Finlandia e Norvegia, a centinaia di chilometri di distanza dall’epicentro del cataclisma

Un altro punto da notare è come i personaggi di Campbell non abbiano nessuna particolare caratterizzazione. Escluso qualche tratto fisico, sono in buona parte intercambiabili. Non so in che misura sia stata una scelta ponderata – Campbell non è che sia famoso per la complessità psicologica dei suoi personaggi – però può anche essere che abbia voluto accentuare il clima di paranoia che si crea alla base quando si scoprono i poteri della “cosa”. Così come gli scienziati non sanno più chi sia umano e chi sia “cosa”, anche il lettore ha difficoltà a distinguere questo da quello. Si crea una particolare atmosfera d’inquietudine, che tra l’altro fa sorgere la domanda: e se tutto il mondo fosse già una “cosa”?
In The Body Snatchers (L’Invasione degli Ultracorpi), gli esseri umani che ormai di umano mantengono solo l’aspetto, sono distinguibili dai veri esseri umani. Gli alieni non hanno problemi a dichiararsi tali, rivendicano la loro superiorità sui terrestri. La “cosa” imita in maniera totale. Certo, data la situazione tattica, una perfetta imitazione è quello che le serve, ma si ha la netta impressione che anche quando la “cosa” avesse conquistato il mondo, all’apparenza non cambierebbe niente. E se all’apparenza non è cambiato niente, come possiamo dire che non ci sono più esseri umani? In fondo nessuno può spiare l’”anima” del prossimo, possiamo stabilire che una persona è un essere umano solo se si comporta come tale.

Macchinario per il Voight-Kampff
Un particolare dell’apparecchiatura necessaria per svolgere il test Voight-Kampff, in grado di discriminare gli esseri umani dai Replicanti. La “cosa” supererebbe il test senza difficoltà

Campbell segue il precetto di narrare solo l’essenziale anche riguardo l’ambientazione. Pochissimi paragrafi sono spesi per il gelo del Polo Sud, ma è sottolineato con maestria il punto chiave delle condizioni del tempo. All’inizio la base è isolata, senza possibilità di ricevere aiuto dall’esterno, e questo acuisce il senso di pericolo e paura; più avanti il tempo migliora e invece di allentarsi la tensione aumenta, perché significa che la “cosa” ha la possibilità di allontanarsi e forse di contaminare altri insediamenti, divenendo impossibile da fermare.
È un ottimo esempio di gestione della narrazione. Il cuore della storia di Campbell è la lotta fra “cosa” e scienziati, il resto ha valore solo fin quando contribuisce alla causa.

Il romanzo termina con un lieto fine. In qualche misura fin troppo lieto date le premesse: non solo gli scienziati riescono a distruggere la “cosa”, ma s’impossessano anche dell’affare antigravitazionale che la “cosa” stessa stava costruendo per fuggire dalla base. Non è un finale forzato, però non ha l’impatto emotivo che avrebbe potuto avere un finale con la “cosa” libera di conquistare il mondo.

Una curiosità: secondo il critico Sam Moskowitz, Campbell avrebbe tratto ispirazione da episodi della sua infanzia per scrivere il romanzo. Infatti la madre di Campbell aveva una sorella gemella, e pare che le due spesso si scambiassero ruolo di nascosto, allo scopo di tirare brutti scherzi al povero bambino…


Locandina di The Thing from Another World Titolo originale: The Thing from Another World
Titolo italiano: La Cosa da un Altro Mondo
Regia: Christian Nyby

Anno: 1951
Nazione: USA
Studio: Winchester Pictures Corporation
Genere: Fantascienza con vegetali molesti
Durata: 1 ora e 27 minuti

Lingua: Inglese

Tredici anni dopo la pubblicazione del romanzo di Campbell, Howard Hawks (famoso regista tra gli altri di Scarface, Sergeant York, Red River, Rio Lobo), decide di trarne un film. Ufficialmente la regia è del suo aiutante Christian Nyby, ma secondo gli stessi attori, era Hawks a dirigere.

The Thing from Another World ha solo alcuni punti di contatto con la storia originale. Alcune differenze sono spiegabili con il diverso clima politico e tecnologico seguito alla Seconda Guerra Mondiale, ma altre non hanno giustificazione se non un tentativo di rendere il materiale più accessibile alla “massa”, riducendo la complessità della vicenda.
Alla fine ne esce tutto sommato un film decente, che però lascia deluso chi si aspettava una trasposizione fedele.

Trailer di The Thing from Another World

La differenza più grande riguarda la “cosa” stessa: sparita è la capacità di imitare altri esseri viventi, sparita è la telepatia, sparita è anche l’intelligenza. Rimane un mostro che somiglia vagamente alla creatura del dottor Frankenstein, e che vagola per la base ad ammazzare chi gli capiti a tiro. Quando sarà organizzata una trappola per questa “cosa”, lei ci cascherà come una rapa. E ho detto rapa non per caso, perché nel film è stabilito che la “cosa” è in realtà un vegetale!

Un fotogramma da The Thing from Another World
Scott [Il tipo alto e con la pelata a sinistra]: «Ma è come se… come se steste descrivendo una specie di… super-carota»
Carrington [lo scienziato al centro]: «Avete quasi indovinato. Questa… carota, come voi la chiamate, ha costruito un apparecchio capace di volare per milioni di chilometri attraverso lo spazio, sospinto da una forza che a noi è sconosciuta»
Scott: «Una carota di genio… mi gira la testa!» [e sì, questo dialogo nel film è da intendersi serio!]

Il rinunciare al potere più inquietante della “cosa”, significa che il terrore può essere comunicato solo dall’aspetto esteriore dell’essere. Lee Greenway, che si occupava del makeup della “cosa”, preparò non meno di 18 modelli diversi prima che Hawks fosse soddisfatto. Ma è difficile giudicare a priori la reazione della gente, così l’attore James Arness fu costretto a conciarsi da “cosa” e venne spedito in giro per Los Angeles. Si ripeté l’esperimento con vari makeup, finché le persone per strada non cominciarono a spaventarsi sul serio.
James Arness non la prese bene: dichiarò che travestito da “cosa” si sentiva una carota gigante ed era uno dei ruoli più imbarazzanti della sua carriera. Non si presentò neanche alla “prima” del film.
Dopo tanta fatica, minuti e minuti di girato con primi piani della “cosa” vennero eliminati in fase di montaggio: vista da vicino la creatura faceva solo ridere…

James Arness
James Arness nei panni della “cosa”, in tutto il suo… ehm, terrificante splendore?

Un’altra differenza tra romanzo e film del ’51 riguarda gli scienziati e il ruolo della scienza. Tanto per iniziare la base non è più di esclusiva proprietà delle teste d’uovo. A comandare sono i militari, personaggi simpatici, sicuri di sé, che sanno sempre quel che è giusto fare. Con loro anche un giornalista, che però non ha il ruolo di “denuncia” che così spesso è attribuito alla categoria nei film odierni. Il giornalista è lì per testimoniare gli eventi, ma sempre nell’ottica del superiore interesse dell’America. Quando non arriva il permesso di riferire certe notizie, il giornalista patriotticamente si adegua.
Gli scienziati sono dei bambocci. Non si capisce che esperimenti svolgano, e non ha grande importanza, tanto la ricerca scientifica è fuffa, e se non è fuffa, è roba dannosa che riguarda l’energia atomica.
Quando il dottor Carrington implora i militari di aiutarlo per tentare di comunicare con la creatura – ché chissà quali conoscenze possiede e lo scopo dell’uomo è la ricerca della conoscenza – il patetico scienziato è ridicolizzato. Se proprio si vuol parlare alla “cosa” bisogna usare un solo linguaggio: quello delle fucilate!
Qui più di un critico ha inteso la “cosa” come metafora del pericolo comunista (chiave interpretativa di una bella fetta della fantascienza cinematografica anni ’50), dato che ai comunisti spari e basta. Per me è una faccenda più profonda: è proprio un atteggiamento generale riguardo l’ignoto. Che sia alieno, indiano o comunista poco cambia: di fronte allo strano, allo sconosciuto, al difficilmente comprensibile, al problematico, la scelta corretta dev’essere usare la violenza.
La violenza è stata ed è la principale soluzione a ogni tipo di problema, come spiega il professor Dubois in Fanteria dello Spazio (1959) di R.A. Heinlein:

Una nostra compagna gli disse a bruciapelo: — Mia madre sostiene che la violenza non ha mai risolto niente.
— Ah, sì? — Il signor Dubois la guardò come se non la vedesse. — Sicuramente i cartaginesi sarebbero lieti di saperlo. Perché tua madre non va a dirglielo? O perché non lo fai tu?
Non era la prima volta che litigavano, visto che nella sua materia non si poteva essere bocciati non c’era bisogno di tenersi buono il signor Dubois.
— Mi sta prendendo in giro? — ribatté lei, irritata. — Lo sanno tutti che Cartagine è stata distrutta migliaia di anni fa.
— Mi era sembrato che fossi tu a non saperlo — disse lui con aria cupa. — Ma, dal momento che lo sai, non sembra anche a te che la violenza abbia deciso il destino di quella città in maniera alquanto definitiva? In ogni caso, non stavo prendendo in giro te personalmente, stavo deridendo una teoria decisamente assurda, abitudine alla quale non rinuncerò mai. A chiunque si attenga alla dottrina storicamente inesatta, e completamente immorale, che la violenza non ha mai risolto niente, vorrei consigliare di evocare i fantasmi di Napoleone Bonaparte e del duca di Wellington, e lasciare che discutano la cosa tra loro. Il fantasma di Hitler potrebbe fare da arbitro e la giuria potrebbe essere formata dal dodo, dall’alca impenne e dal piccione viaggiatore. La violenza e la forza bruta nella storia hanno risolto più situazioni di qualsiasi altro elemento, e chiunque pensa il contrario è un illuso. Le specie intelligenti che hanno dimenticato questa verità fondamentale hanno regolarmente pagato l’errore con la vita e la libertà.

Sul ruolo e la moralità della violenza si può discutere, ma dal punto di vista narrativo è indubbio che partire dal presupposto dello “sparare a vista” dona all’opera in questione un ritmo invidiabile. Senza pastoie etiche la lotta tra uomini e “cosa” si sviluppa veloce e divertente, con discrete scene d’azione. Tra l’altro ciò si sposa bene con una caratteristica dei film di Hawks, ovvero il dialogo fitto, realistico, con più voci che si sovrappongono.

Nell’analizzare The Thing from Another World si deve poi tener conto del fenomeno dischi volanti. Il 24 Giugno 1947 Kenneth Arnold fu uno dei primi ad avvistare un gruppo di UFO che se ne andava a zonzo nel cielo sopra lo stato di Washington. Da quel giorno gli avvistamenti si susseguirono e il 7 luglio un disco volante cadrà nei pressi di Roswell nel New Mexico, anche se la notizia trapelerà solo l’anno successivo.
Non è perciò un caso se una delle scene più memorabili del film è quella che dimostra come la nave spaziale della “cosa” sia in effetti un UFO.

L’astronave della “cosa” è un disco volante! La colonna sonora di The Thing from Another World è stata composta da Dimitri Tiomkin usando strumenti inconsueti, come il theramin

La paranoia riguardo i dischi volanti è anche alla base della tirata finale del giornalista.

Scott: «[...] lancio a voi un monito: tutti voi che ascoltate la mia voce, dite al mondo, ditelo a tutti dovunque si trovino: attenzione al cielo; dovunque scrutate il cielo…!»

Come dargli torto? Il pericolo era, anzi è reale! Basta guardare Earth vs. the Flying Saucers (1956).

Trailer di Earth vs. the Flying Saucers

Dunque, come già detto, un film passabile. Non però a livello di altra fantascienza cinematografica anni ’50, tipo The War of the Worlds (1953), Forbidden Planet (1956) o Invasion of the Body Snatchers (1956).
Un ulteriore punto di merito per l’unico personaggio femminile, Nikki, che invece di essere la consueta damigella in pericolo, è un personaggio forte e risoluto.

Locandina italiana
Locandina italiana. Come spesso capita i distributori nostrani non hanno idea di quel che distribuiscono, per loro a invadere la Terra sono “i ciclopi di Marte”… “i ciclopi di Marte”!!! No comment


Locandina di The Thing Titolo originale: The Thing
Titolo italiano: La Cosa
Regia: John Carpenter

Anno: 1982
Nazione: USA
Studio: Universal Pictures
Genere: Fantascienza
Durata: 1 ora e 49 minuti

Lingua: Inglese

John Carpenter aveva apprezzato il film del ’51 – nel suo Halloween (1978) c’è una scena con un televisore che trasmette The Thing from Another World – ma per fortuna nel realizzare il remake è stato molto più fedele al romanzo di Campbell che non all’opera di Hawks.

Trailer di The Thing

La “cosa” riprende le sue capacità mimetiche e la propria intelligenza inumana anche se rimane ancora priva dei poteri telepatici. Carpenter insiste sugli aspetti più strettamente d’orrore della vicenda, e la sua “cosa” è un incubo biologico degno del Lovecraft di At the Mountains of Madness (Alle Montagne della Follia) – forse non proprio a caso, dato che Carpenter è un noto appassionato del solitario di Providence.
Gli effetti speciali sono notevoli. La “cosa” ha una concretezza, una (viscida) presenza fisica che è raro vedere nelle creature CG che hanno fatto furore negli ultimi anni.

Un fotogramma da The Thing (1)

Un fotogramma da The Thing (2)

Un fotogramma da The Thing (3)

Un fotogramma da The Thing (4)
Quattro visioni della “cosa”

Militari, donne e giornalisti scompaiono e la base polare torna nelle mani degli scienziati. Forse. In realtà che mestiere facciano i personaggi nel film di Carpenter non è che sia molto chiaro. Vediamo i nostri eroi ubriacarsi, drogarsi, guardare vecchi spettacoli in TV o giocare a biliardo. Non c’è traccia di mezzo esperimento. In più hanno a disposizione un lanciafiamme, cosa avrebbero dovuto farsene?
Se sono scienziati, dal ’38 all’82 l’Università in America ha preso una brutta piega!

Nel film di Carpenter torna la paranoia presente nel romanzo. Ognuno può essere la “cosa” in incognito e i sospetti reciproci aumentano il nervosismo. La scena vitale dell’esame del sangue è un degno adattamento, anche se, per quanto possa sembrare strano, Campbell è persino più feroce.
Purtroppo Carpenter non segue l’esempio di Campbell per quanto riguarda la furbizia dei personaggi: scoperto che la “cosa” può assumere l’aspetto di chiunque, nel romanzo gli scienziati si organizzano per muoversi sempre in gruppo, i tizi nel film, seguendo i peggiori cliché dell’horror, continuano a girare da soli.

Come nel film del ’51, l’unica risposta alla “cosa” è la violenza. Ma mentre nel ’51 era una scelta, nell’82 è l’unica alternativa possibile. A nessuno viene in mente che si possa comunicare con la “cosa”, non viene neanche posto il problema. Le reazioni dei personaggi ’82 sono molto più “animalesche”, dettate dall’istinto, non frutto di valutazioni etiche o filosofiche. L’unica considerazione che la faccenda mi suscita è ancora: “Ma che razza di scienziati sono questi?!” Sempre se scienziati sono.

Action figure di Kurt Russel
La ‘action figure’ di Kurt Russel che nel film interpreta il pilota di elicotteri MacReady

Nel film di Carpenter non c’è lieto fine. Anche nell’ipotesi (improbabile) che la “cosa” sia stata distrutta, gli ultimi sopravvissuti moriranno di freddo. E se, com’è più realistico, la “cosa” è ancora viva, quando arriveranno gli aiuti potrà forse riuscire a fuggire dalle lande ghiacciate del Polo e conquistare il mondo. Mi è piaciuto molto, trovo sia il finale più calzante, migliore di quello zuccheroso di Campbell.

The Thing è un ottimo film. L’atmosfera è cupa, carica di tensione, e c’è una virata decisa dalla fantascienza all’orrore. Non c’è dubbio che nell’insieme sia un passo avanti rispetto al film del ’51, sebbene per molti versi il romanzo del ’38 appaia lo stesso più “moderno”.


Copertina di The Terror Titolo originale: The Terror
Titolo italiano: La Scomparsa dell’Erebus
Autore: Dan Simmons

Anno: 2007
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Traduzione in lingua italiana: G.L. Staffilano
Editore: Mondadori (2008)

Genere: Romanzo storico d’avventura con mostro
Pagine: 757

Dan Simmons dedica il suo romanzo al cast del film del ’51, tuttavia i legami tra La Scomparsa dell’Erebus e La “cosa” sono meno stretti di quanto la trama e la dedica potrebbero far pensare. Il che è anche il problema di fondo del romanzo.
Dan Simmons rimane a metà guado. Da un lato il romanzo storico, con la disperata odissea della spedizione Franklin, dall’altro un romanzo di fantasy/fantascienza con la spedizione costretta a combattere contro la creatura “aliena”. Simmons si piazza in mezzo e secondo me non è una scelta felice. Letto come romanzo storico il sopraggiungere del sovrannaturale fa storcere il naso, mentre letto come romanzo fantastico ci si trova di fronte a un’opera dove più che la “cosa” contano le scorte di cibo, le malattie, il freddo artico, gli ufficiali incapaci, i subordinati riottosi e così via.
Siamo all’opposto di Campbell: Campbell ha scritto un romanzo mantenendo sempre fissa l’attenzione su quello che voleva raccontare, Simmons naviga a vista, spinto ora da un vento ora da un altro. Alla fine Campbell scrive intorno alle 100 pagine, senza mezza parola di troppo, Simmons di pagine ne scrive quasi 800 della quali almeno un terzo si potrebbero buttare senza pensarci due volte.
Campbell, come già ricordato, ha bisogno di pochi paragrafi per delineare l’ambientazione e il ruolo che questa ha nella storia, Simmons dedica una marea di pagine alla neve, al ghiaccio, alle creste di pressione, ai seracchi, al pack e agli iceberg. L’unico risultato è che a un certo punto ho esclamato (ma non a voce alta!): “L’ho capito che al Polo Nord fa freddo! Grazie!”

Che freddo!
Dopo accurate ricerche e approfonditi studi, sono confidente nell’affermare che al Polo Nord la temperatura è bassa

Dal punto di vista della “cosa”, Simmons si affida alla mitologia esquimese e dunque la sua creatura ha solo marginali punti di contatto con le “cose” già viste. La “cosa” di Simmons pare possedere una certa capacità di mutare forma, anche se di solito appare simile a un gigantesco orso o talpa, però non è in grado di imitare altri esseri viventi. È dotata di telepatia ma solo verso persone ricettive. In compenso, nonostante dovrebbe essere intelligente, il suo comportamento è incomprensibile (a essere buoni, a essere cattivi si comporta così solo perché così serve alla trama).
Mostra spoiler riguardo la creatura ▼

Dove i personaggi di Campbell erano quasi indistinti, Simmons presenta una moltitudine di punti di vista, spesso con stile di scrittura diverso a seconda del personaggio che presenta gli avvenimenti. Nessun personaggio mi ha colpita particolarmente e forse per questo ho apprezzato l’alternarsi dei punti di vista. Se tutto il romanzo fosse stato narrato dal Capitano Crozier o dal dottor Goodsir sarebbe stato molto noioso. È un peccato poi che la scelta del punto di vista non includa mai o quasi mai Lady Silence (la misteriosa giovane esquimese senza lingua), il gigante idiota Manson o il perfido Hickey.

Il Capitano Crozier
Il vero Capitano Francis Rawdon Moira Crozier

I personaggi di Campbell rimanevano sempre lucidi, quelli di Simmons spesso prendono le decisioni sbagliate. Purtroppo non sempre queste decisioni sbagliate possono essere giustificate, più di una volta i personaggi, come già visto con la creatura, agiscono solo in base a mere esigenze di trama.
Mostra uno spoiler su Hickey ▼

Il ritmo del romanzo è lento, segnato dai periodici attacchi della creatura, che dopo un po’ diventano prevedibili (tranne che per i poveri personaggi, che senza problemi continuano a farsi massacrare commettendo sempre gli stessi errori – sì sto parlando della versione 1845 dell’aggirarsi da soli per gli angoli bui della base). Alcuni passaggi poi sono tediosi oltre ogni dire, per esempio la ventina di pagine con le farneticazioni di Crozier in crisi d’astinenza da alcolici. Fra l’altro queste farneticazioni svelano il finale del romanzo! Roba che quando ho letto non ci volevo credere, invece è proprio così. Qui Simmons e il suo editor dormivano, non c’è altra spiegazione.
Nonostante ciò, nel complesso è un romanzo che si legge volentieri. Simmons dimostra di conoscere a menadito l’ambientazione scelta. Ogni particolare riguardo navi, vestiario, cibi, organizzazione, ecc. suona verosimile. L’effetto globale è la sensazione di trovarsi lì, tra i ghiacci dell’Artico, e il desiderio di sapere se si riuscirà a salvarsi o no spinge a leggere fino alla fine.

Oggetti ritrovati
Alcuni oggetti appartenuti a uno dei marinai della spedizione Franklin, oggetti ritrovati nel corso di una delle tante missioni di salvataggio

Finale che però è un altro dei punti deboli del romanzo. La moltitudine dei punti di vista si riduce a uno solo e sono lasciate in sospeso almeno due sottotrame importanti. Inoltre Simmons decide di tagliar corto nei riguardi della creatura con un lungo “spiegone” tutto raccontato. E non entro neanche nel merito della “morale” della storia: una versione del mito ormai trito e defunto del buon selvaggio.

The Terror è un romanzo che penso possa piacere a chi cerca una storia d’avventura dai toni crudi (anche qui Simmons rimane a metà del guado: le scene di cannibalismo e violenza sono forse un filo esagerate per un romanzo d’avventura, ma troppo “morbide” per una storia d’orrore), specie se si ha interesse per il periodo storico. Facendo finta che la creatura sia davvero solo un grosso orso.
Altrimenti è un’occasione sprecata: Simmons è un bravo scrittore, la sua ambientazione è ben ricercata, le premesse sono ottime ma la storia non sa neanche lei dove voglia andare a parare.


Gamberi

Più che scrivere vere recensioni ero interessata a seguire l’evoluzione della “cosa”, ma per avere un’idea, i Gamberi sarebbero questi:

Who Goes There? Un classico della fantascienza a ragione. Tre Gamberi freschi meritati.
Tre Gamberi Freschi: clicca per maggiori informazioni sui voti

The Thing from Another World Film divertente. Però si poteva fare molto di più. Stivale.
Stivale: clicca per maggiori informazioni sui voti

The Thing Carpenter ha reso giustizia a Campbell e ci ha messo del suo (nel bene e nel male). Due Gamberi freschi.
Due Gamberi Freschi: clicca per maggiori informazioni sui voti

The Terror Pregi e difetti si bilanciano. Stivale.
Stivale: clicca per maggiori informazioni sui voti

Ricordo infine che tutte le opere citate sono disponibili in formato elettronico via eMule, sia in lingua originale sia in italiano.


Approfondimenti:

bandiera IT La Scomparsa dell’Erebus su iBS.it
bandiera EN The Terror su Amazon.com
bandiera EN Who Goes There? su gigapedia
bandiera IT La Cosa (DVD) su iBS.it
bandiera IT La Cosa da un altro Mondo (DVD) su DVD.it

bandiera IT John W. Campbell Jr. su Wikipedia
bandiera IT Howard Hawks su Wikipedia
bandiera IT John Carpenter su Wikipedia
bandiera IT Dan Simmons su Wikipedia
bandiera EN Who Goes There? su Wikipedia
bandiera EN The Thing su IMDb
bandiera EN thething.ca un sito dedicato alla “cosa”
bandiera EN The Thing from Another World su IMDb

bandiera EN La perduta spedizione Franklin su Wikipedia
bandiera IT Una copia de I Figli di Mu presso il Delos Store
bandiera EN Big Ivan o Tsar Bomba

 

Scritto da GamberolinkCommenti (20)Lascia un Commento » feed bianco Feed dei commenti a questo articolo Questo articolo in versione stampabile Questo articolo in versione stampabile • Donazioni

Scacchi e Scrittura

Nell’articolo Riassunto delle Puntate Precedenti, ho parlato di scrittura “trasparente” e ho fatto altre considerazioni riguardo la narrativa. Dai commenti mi sono resa conto che forse non mi sono spiegata abbastanza bene, perciò riprendo l’argomento con un paragone che mi pare significativo.

Scacchi

Penso che il gioco sia noto a tutti, comunque per lo scopo di quest’articolo non è necessario saper giocare (non che sia difficile, si può imparare il regolamento in un quarto d’ora).

Quadro di scacchi
Lajos Ludwig Bruck: The Chess Game

Gli scacchi sono un gioco di strategia a turni, il cui scopo è riuscire a disporre i propri pezzi in una particolare posizione rispetto ai pezzi avversari, tale posizione, detta “scacco matto”, assicura la vittoria al giocatore che la raggiunge per primo.
I giocatori di scacchi nel mondo sono decine di milioni, e le origini del gioco si perdono nella notte dei tempi. Se una delle attività umane più antiche e caratteristiche è la narrativa, gli scacchi non sono da meno. Un confronto tra giocare a scacchi e scrivere (e leggere) narrativa penso possa rivelarsi interessante.

Le origini leggendarie del gioco

Le origini del gioco degli scacchi sono ignote. Alcuni riferimenti in documenti antichissimi fanno ritenere che in India si giocasse una variante degli scacchi fin dal 3.000 a.C. Ci sono prove storiche del gioco a partire almeno dal 600 d.C.

Una celebre leggenda attribuisce l’invenzione degli scacchi a un misterioso personaggio chiamato Sissa (o Sessa).
C’era una volta un Re. Questo Re aveva appena perso l’unico figlio in battaglia, peggio, l’aveva sacrificato pur di vincere la battaglia.
Il Re è disperato, e ogni giorno non fa altro che ripensare alla battaglia. Si chiede se non avrebbe potuto salvare il figlio e lo stesso vincere. È sempre più depresso e abbattuto, finché non si presenta il signor Sissa, promettendo di svelare un metodo con il quale il Re potrà studiare la battaglia e chiarire l’atroce dubbio.
Sissa insegna al Re un gioco di sua invenzione: gli scacchi.
In un’altra versione della leggenda il Re è solo annoiato a morte e Sissa si presenta millantando questo nuovo gioco come il non plus ultra del divertimento.

Il signor Sissa
Il signor Sissa visto dall’artista brasiliano Thiago Cruz

Il Re impara a giocare a scacchi e ricostruita la battaglia si rende conto che in effetti non c’erano altre soluzioni: il figlio doveva proprio sacrificarlo. È ancora depresso, ma almeno ha l’animo in pace.
Nell’altra versione il Re impara a giocare e si diverte come un matto.

Comunque sia, il Re è più che soddisfatto del signor Sissa e pensa di premiarlo. Chiede al Sissa di dirgli cosa vuole, qualunque cosa, e gli sarà data. Donne, gioielli, potere, un viaggio a Disney World, l’opera omnia della Troisi rilegata in pelle umana, l’iPhone, qualunque cosa, il signor Sissa deve solo chiedere.
Il signor Sissa, che pare fosse un matematico, chiede al Re che gli venga consegnato del grano. Per la precisione lui vuole che sia posto un chicco di grano sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, quattro chicchi sulla terza, otto sulla quarta e così via, fino all’ultima casella, la sessantaquattresima (come noto gli scacchi si giocano su una scacchiera di 8 x 8 caselle).
Il Re ci pensa un po’ su, chiede ai suoi consiglieri quale sia il prezzo dell’iPhone e alla fine gli si illuminano gli occhi: se la caverà con una manciata di grano!

Si aprono i granai reali e si cominciano a disporre i chicchi. Ben presto appare chiaro che il Re ha clamorosamente sbagliato i conti: Sissa ha chiesto una quantità di grano astronomica. Infatti la cifra totale è 2 elevato alla 64 meno 1, ovvero: 18.446.744.073.709.551.615 chicchi di grano! Se l’intera Terra fosse ricoperta di campi di grano, ci vorrebbero 80 raccolti per mettere assieme quella quantità.

I granai reali si svuotano, e ancora le caselle da riempire sono tantissime, a questo punto…
I finali della leggenda sono molti. Un finale è particolarmente benigno: il Re, impressionato dalla furbizia del signor Sissa, lo nomina erede al trono, al posto del figlio schiattato. Qui Sissa è identificato come il Re persiano Sassa, che regnò dal 632 al 672.
In un’altra versione il Re si accorda con Sissa per il premio di consolazione e gli regala l’iPhone (lo nomina governatore di una provincia in testi più antichi).
Secondo altri autori il Re la prende meno bene: svuotati i granai decide di risolvere il problema alla radice, condannando a morte Sissa.
In un’altra versione ancora il Re si dimostra una vera carogna: obbliga Sissa a contare ogni singolo chicco di grano, perché non sia mai che qualcuno dubiti dell’onestà del Sovrano!

Come per il gioco stesso, è difficile individuare le origini della leggenda. Ne parlano autori arabi del XII e XIII secolo, ma facendo cenno a fonti più antiche. L’idea che la storia nasca con un vero Re persiano intorno al 600 d.C. si scontra con il fatto che la serie numerica in oggetto era già nota da secoli, e dunque appare inverosimile che Re e consiglieri sbaglino in maniera così grossolana i calcoli.
In ogni caso divenne una leggenda molto popolare nel medioevo, in Oriente ma anche in Europa:
«ed eran tante, che ‘l numero loro più che ‘l doppiar delli scacchi s’immilla» scrive Dante nel Paradiso, per indicare il numero di angeli nelle sfere celesti, e il richiamo è appunto la vicenda del signor Sissa.

In superficie

Quattro immagini:

Marostica
Marostica: partita con pezzi “viventi”

Videogioco
Uno screenshot da Chessmaster Grandmaster Edition

Scacchi d'oro
Pezzi in oro e diamanti

Trascrizione
Trascrizione di una partita

Le immagini rappresentano tutte e quattro una partita a scacchi. Abbiamo, dall’alto in basso: i famosi scacchi “viventi” di Marostica, dove ogni anno dal 1954 viene rievocata in questo modo folcloristico una famosa partita svoltasi 400 anni prima; lo screenshot di un videogioco dove i pezzi sono animati e hanno l’aspetto di coniglietti stralunati; pezzi e scacchiera d’oro e diamanti pensati per il piacere dei ricconi e infine la trascrizione di una partita, un giocatore con un minimo di esperienza non ha problemi a seguire le mosse indicate e a immaginarsi lo svolgersi del gioco senza nessuna scacchiera fisica davanti.
Quattro rappresentazioni diverse, sono sempre scacchi. Non cambia molto, in effetti non cambia niente se si usano pezzi d’oro o coniglietti o solo lettere e numeri. Il gioco è lo stesso, l’emozione è la stessa.
Mettiamo ora di conoscere una persona che si dichiara giocatore appassionato. La invitiamo a sedersi al nostro tavolo e le proponiamo una partita. La persona storce il naso e allontana da sé la scacchiera: «No, io non posso giocare con scacchi di plastica, se non ci sono coniglietti animati stralunati per me non c’è piacere negli scacchi!»
Siamo sicuri che continueremmo a considerare quella persona “scacchista appassionato”? O non penseremmo piuttosto che si comporta come un bambino capriccioso e un po’ stupido?
Potremmo concordare che anche noi preferiremmo invece degli scacchi di plastica da pochi euro i coniglietti animati stralunati, ma questo non ci impedisce di goderci il gioco.
Il paragone con i libri mi sembra ovvio: non cambia niente se una storia è stata miniata a mano su pergamena, stampata in digitale, riprodotta su schermo o letta ad alta voce. Ognuno avrà le proprie preferenze, ma è assurdo rifiutare una storia perché la cornice non si adatta ai propri capricci. Tanto assurdo che sorge il sospetto che forse si sta leggendo per tutte le ragioni sbagliate.
Non è che il presunto “piacere della carta” sia dovuto alle sostanze tossiche presenti nelle rilegature? Dietro la passione per la letteratura ci sarebbe solo il desiderio di sniffare colla…

Siamo seri!

Sopra un po’ scherzavo, la questione importate è più profonda:

Posizione faccina
Pezzi degli scacchi disposti a guisa di faccina sorridente :)

L'Immortale
Posizione finale della partita detta “L’Immortale”

Due posizioni sulla scacchiera. La prima è… be’ è una faccina sorridente, la seconda è la posizione finale di una celeberrima partita, giocata il 21 giugno 1851 a Londra fra Anderssen e Kieseritzky, partita detta L’Immortale.
Quale delle due posizioni, delle due “rappresentazioni” è più bella? emozionante? interessante? coinvolgente? Per chi sa giocare a scacchi non vi è dubbio la seconda; L’Immortale non ha questo nome a caso: è una partita piena di genio e brillantezza, un’opera d’arte. Ma per le persone che non sanno giocare? Be’, penso più di uno rivolgerebbe la propria attenzione alla faccina sorridente. In fondo quella è una faccina sorridente, è “carina”, sotto invece ci sono solo pezzi messi a caso.

Tuttavia le due valutazioni non sono sullo stesso piano. La faccina è appunto solo carina, lascia il tempo che trova, non può certo competere con un vero dipinto, non credo susciti alcuna particolare emozione. L’Immortale invece mette i brividi. L’Immortale è una storia, una narrazione, è come assistere allo scontro fra Napoleone e il Duca di Wellington a Waterloo. In altre parole la bellezza della seconda posizione non è nella disposizione dei pezzi in sé, ma in quello che significano.
Lo stesso, né più né meno vale per la scrittura. Il piacere che nasce dalla disposizione delle parole in sé, dal “bello stile”, è vacuo, effimero, non può assolutamente competere con l’emozione che scaturisce dal significato delle parole.
Avrei potuto forse disporre i pezzi della faccina in maniera diversa, migliore, più attenta, e la faccina sarebbe risultata un tantino più carina. Ma ne sarebbe valsa la pena? No. Per quanto possa rendere carina la faccina, rimane sempre e solo una stupida faccina, non riuscirà mai a trascendere oltre, perché non c’è nient’altro oltre, non c’è alcun significato.
Si possono limare e ricamare le parole finché si vuole, e non c’è dubbio che questo possa migliorare la qualità di uno scritto, ma è un miglioramento minimo, superficiale, non è lì l’emozione, non è lì il significato, non è quello lo scopo della narrativa.

Ma non si potrebbe combinare il bello stile con il significato? La faccina non potrebbe essere bella in sé e in più essere la posizione in una partita? E la risposta è NO. Certo, in linea del tutto teorica, una posizione potrebbe essere sia esteticamente bella sia significativa per il gioco, ma la probabilità è microscopica. Soprattutto, tale posizione sarebbe frutto del caso, perché nessun giocatore che muove in base a canoni estetici arriva molto in là nel gioco.
Quando diciamo che un giocatore gioca “bene” non ci riferiamo alla sua abilità nel creare diorami sulla scacchiera, bensì alla sua capacità di vincere le partite; “bene” vuol dire “efficace”. Così è quando parlo di “bene” riferito alla narrativa: è la capacità di riuscire a comunicare in maniera efficace una storia al lettore, indipendentemente dall’uso delle parole in sé.
Accostando gli scacchi alla narrativa credo appaia anche chiaro perché lo stile necessita di essere trasparente. Immaginiamo un giocatore che invece di cercare di vincere le partite a ogni mossa tenti un qualche accostamento “artistico”: mettere tutti i pedoni in diagonale, i cavalli vicini stretti agli alfieri, Re e Regina a braccetto… non sarebbe considerato un giocatore ma un buffone. Lo scrittore che attira sul suo stile l’attenzione, che trasforma il mezzo in un fine, è altrettanto buffone.

Avere uno stile “efficace”, ovvero “trasparente”, non significa non avere stile. Quello è l’obbiettivo. Negli scacchi, data una certa posizione, esiste per uno dei due giocatori almeno una sequenza definita di mosse che porta alla vittoria (o alla patta). Lo stile migliore è quello che sempre riesce a trovare questa sequenza. Ma questo stile ipotetico non è appunto uno stile, non è una scelta alla quale se ne può contrapporre un’altra, è il modo perfetto di giocare, è univoco.
Gli esseri umani non sono in grado di raggiungere tale stile, non hanno la necessaria capacità di calcolo. Perciò negli scacchi esistono molti stili diversi, ma nessuno di questi implica disegnare faccine, lo scopo è sempre approssimare lo stile perfetto.

BESM-6
Un BESM-6, un computer sovietico degli anni ’60. Su un antenato del BESM-6, nel 1958 venne sviluppato il primo programma in grado di giocare a scacchi. È possibile, sebbene appaia improbabile, che in un futuro prossimo i calcolatori riusciranno a raggiungere la perfezione nel gioco degli scacchi

Veniamo alla narrativa. Lo stile perfetto (o non stile) nella narrativa è quello totalmente trasparente. Uno scrittore è stato su Marte (davvero o con la fantasia), e decide di raccontare quest’esperienza al lettore: lo scopo è far sì che il lettore si trovi anche lui su Marte, che l’esperienza di autore e lettore coincida. Le parole devono sparire, e le menti delle due persone coinvolte devono sovrapporsi. Gli occhi dell’autore che ammirano il marziano devono essere gli stessi occhi del lettore.
Come nel caso degli scacchi, almeno finora non si è ancora giunti a capire come realizzare questo modo ideale di narrare. Per questo ci sono stili diversi nella narrativa, ma gli stili che disegnano faccine sono altrettanto assurdi e da buffoni.

Ma io non voglio imparare a giocare a scacchi! Mi accontento di guardare le faccine, mi diverto così… Questo è un atteggiamento legittimo, ma che io trovo molto triste. Come ricordato non ci vuole più di un quarto d’ora per imparare a giocare, e ci vuole ancor meno tempo per la narrativa. In effetti riguardo la lettura non si deve imparare niente, ci si deve solo mettere nella giusta predisposizione d’animo. La giusta predisposizione d’animo prevede il voler calarsi nella storia. Si deve voler andare su Marte!
Eppure tantissime persone, forse addirittura la maggior parte di chi ha l’hobby della lettura, si rifiutano. Posti davanti all’alternativa: andare su Marte o sentire qualcuno che ti racconta che è andato su Marte, scelgono la seconda.
E io chiedo a costoro: se non volete andare su Marte, cosa diavolo leggete narrativa a fare? È da bambini stupidotti pasticciare con i pezzi della scacchiera, l’emozione e il divertimento stanno nell’affrontare il gioco. Certo non sempre sarà divertente e le emozioni coinvolte non sempre saranno piacevoli, per esempio più spesso che non una sconfitta è condita con rabbia e frustrazione, tuttavia non credo ci sia paragone tra il giocare e il disegnare o “ammirare” faccine dal sorriso ebete.
Al lettore di literary fiction spesso piace darsi arie. Lui legge Letteratura con la L maiuscola, Arte con la A maiuscola, si compiace di perder tempo con Opere che mischiano in un unico pastrugno mezzo e fine, parole e loro significato. In realtà è come il tizio che non riesce ad andare oltre una faccina sorridente, non saprà mai quanto è molto più travolgente L’Immortale. Lo scrittore di literary fiction poi non lo prendo neanche in considerazione, è nient’altro che un buffone (so benissimo di aver appena dato del buffone a chissà quanti presunti Geni Riconosciuti della Letteratura, fatti loro!)

Lo specchio della Realtà

Ora vediamo quest’altra posizione:

Posizione nero
Nessuno vuole bene al pedone nero!

Qui non c’è né la carineria della faccina, né il significato di una posizione di gioco. Perciò sarebbe una composizione da buttare senza pensarci sopra due volte… ma se dicessi che questo non è ciò che sembra, bensì è una metafora, un’allegoria? Qui abbiamo, nero su bianco chikas_pink55.gif , un’allegoria del razzismo! Guardatelo lì il povero pedone nero, circondato dagli sprezzanti pezzi bianchi! Questa posizione è una posizione importante, dice qualcosa riguardo i problemi del nostro tempo, comunica un fondamentale messaggio!
Un’altra perversione è appunto questa: quella di considerare la narrativa secondaria alla Realtà, tanto che la narrativa stessa acquisirebbe importanza divenendo specchio, metafora, interpretazione della Realtà.
Ma non è così. La narrativa è ben più potente, la narrativa crea la Realtà!
Così come gli scacchi. Gli scacchi esistono da millenni e sono passati attraverso ogni genere di sconvolgimento sociale, tecnologico, filosofico, religioso e quant’altro. Questo perché una partita di scacchi non è una simulazione di guerra, una partita di scacchi è una “guerra” in sé. Gli scacchi non sono imitazione della Realtà, non sono la versione da salotto di una campagna militare, non hanno bisogno di appoggi, sono una Realtà, o almeno una scheggia di Realtà, per se stessi. Le idee alla base del gioco sono geniali in sé, non in relazione ad altro.
La storia di Ulisse che acceca Polifemo può essere interpretata in mille modi diversi, ma non deve il suo significato all’interpretazione, ma alla vicenda in sé. È eterna perché ha generato una Realtà a se stante, lontanissima da qualunque considerazione sui problemi del nostro tempo (di qualunque tempo).
Al massimo, ogni tanto, la Realtà riesce a tener dietro alla narrativa. Quando Verne ha scritto Dalla Terra alla Luna, in effetti avevamo già raggiunto la Luna, ben prima di Neil Armstrong. Se Verne avesse posseduto lo stile ideale di cui si parla sopra, l’esperienza sarebbe stata perfetta, identica al vero viaggio.

Copertina di Dalla Terra alla Luna
Copertina di Dalla Terra alla Luna

La narrativa non ha bisogno d’imitare la Realtà, può farlo, ma questo non è un merito, è un altro pasticciare da bambini stupidotti, è ancora un rifiuto del gioco per disegnare invece faccine carine. La narrativa deve ampliare la Realtà, generare nuove Realtà, allargare i confini dell’immaginazione della nostra specie.
Nessuno mi vieta di scrivere un saggio sul problema del razzismo nell’Europa del XXI secolo, e ne può venire un ottimo saggio, ma non sarà buona narrativa. La narrativa che si ferma a rielaborare la Realtà, senza andare oltre, senza aggiungere altro, è solo una perdita di tempo.
Ci sono autori che si compiacciono d’immergere le loro opere in un bagno di Angosciosi Problemi del Nostro Tempo; costoro credono che così facendo le loro opere di narrativa acquistino significato, invece succede l’opposto, ne vengono svilite. Questi autori rientrano anche loro nel calderone dei buffoni (e così avrò dato del buffone a qualche altro Genio, be’, peggio per lui!)

Errori da evitare parlando di scacchi

Mio padre è appassionato di scacchi, da giovane ha anche partecipato a varie competizioni, quando avevo otto anni mi ha insegnato a giocare. Me la cavo abbastanza, ho un po’ lasciato perdere quando ho capito che per migliorare ulteriormente avrei dovuto cominciare a studiare sul serio.
Infatti anche negli scacchi nessuno nasce “imparato”. Spesso si parla di bambini prodigio riguardo gli scacchi, e ancora più spesso se ne parla a vanvera. Per esempio è citato spessissimo il da poco scomparso Bobby Fischer, divenuto Campione di Scacchi degli Stati Uniti all’età di 14 anni. Quello che si trascura di raccontare è che Fischer si allenava dall’età di 6 anni, frequentava uno dei circoli scacchistici più prestigiosi del mondo e come istruttori ha avuto due Gran Maestri. E non basta. Se non si passano ore e ore e ore a imparare, per dirne una, le tecniche d’apertura, non c’è genio che tenga.

Bobby Fischer
Bobby Fischer (a destra) diventerà Campione del Mondo nel 1972, battendo il russo Boris Spassky

Dunque non sono una gran giocatrice, tuttavia ne capisco abbastanza da imbizzarrirmi quando scrittori e registi inseriscono scene di scacchi nelle loro opere, senza sapere di quel che stanno parlando.

Alcuni degli errori più comuni:

Icona scacchi Partite che terminano con lo “scacco matto”. Oh, bella! Ma non dovrebbe proprio finire così una partita di scacchi? Sì, in teoria, in pratica non è un finale così diffuso. Più spesso che non i giocatori, specie se esperti (e nei romanzi chi gioca a scacchi è sempre un intelligentone gran campione), abbandonano. Sarebbe solo una perdita di tempo andare avanti fino allo scacco matto. Di più, è estraneo alla moderna etica del gioco il voler combattere fino alla fine. La scelta dignitosa è, quando la situazione appare compromessa, abbandonare.
Decidere di continuare o abbandonare potrebbe perciò essere un’interessante scelta riguardo la caratterizzazione di un personaggio, se lo scrittore conoscesse l’argomento…

Icona scacchi Partite che terminano con lo “scacco matto” e il giocatore che perde è sorpreso. Assurdo. Anche principianti che hanno imparato da mezza giornata riescono a vedere con una o due mosse d’anticipo lo scacco matto. Al massimo saranno delusi o arrabbiati, non certo sorpresi. Questo vale anche quando invece dello scacco matto si parla della cattura di un pezzo importante. Nessuno rimane “sorpreso” di perdere la Regina. Inoltre se è una partita amichevole e uno dei due contendenti commette l’errore marchiano di lasciare la Regina in balia dell’avversario, l’avversario non si butta a pesce (a meno che non abbia 5 anni) bensì segnala lo sbaglio in modo che si possa rifare la mossa e la partita possa mantenersi interessante.

Icona scacchi Gente che grida “scacco!” come se stesse vincendo. Lo “scacco”è quando il Re avversario è minacciato da un nostro pezzo. Di per sé non indica una posizione di vantaggio né che la vittoria sia prossima. Ovviamente può essere un tal tipo di indicatore, ma come può esserlo una qualunque altra mossa. Scalmanarsi per uno “scacco” è un’assurdità.

Icona scacchi La cattura en passant, l’arrocco o la promozione come mosse geniali. Queste mosse sono normalissime, non sono mosse “segrete”(sic) né particolarmente brillanti in sé. Il fatto che magari non vengano insegnate nei primi 10 minuti di studio del gioco, non le rende mirabolanti…

Queste sono le brutture più comuni. Poi, a essere pignole, in un romanzo storico o d’ambientazione storica bisognerebbe tener conto che il regolamento è cambiato nel corso dei secoli; non solo, spesso questi cambiamenti non sono stati recepiti dovunque allo stesso tempo. La cosa è significativa riguardo l’Italia, perché in Italia fino al torneo nazionale di Milano del 1881 si è giocato con alcune regole autoctone ignorate nel resto del mondo.
Per rendersi conto della peculiarità italiana, basti ricordare la strenua lotta del Carrera contro l’arrocco da svolgersi in una sola mossa, da lui definito: «un mostro con due teste» (quest’ultima frase l’ho messa solo per guadagnare uno skill point in Citazioni Dotte Level Up!), oppure ancora la contrapposizione fra scuola italiana e scuola francese sempre riguardo l’arrocco, in particolare le possibili posizioni di Re e Torre.

Gamberetta, skusa se t’interrompo, ma nn vorrei aver kapito male: qui sembra quasi ke tu stia dicendo ke x skrivere 1 paginetta cn 2 ke giokano a skakki, io debba imparare a giokare?!?!!!
Esatto! Hai proprio colto il senso del mio discorso!

Ma è assurdo! Io nn voglio sapere niente d skakki, e armature e frecce, e spade e duelli e tattika e cavalleria e vita medievale, e biologia e botanika e metallurgia, io voglio skrivere fantasi!!!
. . .

Un’ultima curiosità per chi vuole scrivere fantasy, magari in maniera un po’ più seria rispetto alla mia misteriosa interlocutrice: gli scacchi fatati (fairy chess) esistono davvero! Sono quegli scacchi giocati su scacchiere non regolamentari e/o con pezzi eterodossi. Alcuni di questi pezzi sono per esempio l’Amazzone e il Grifone, il Dabbaba e l’Unicorno. Stranamente, non ci sono fate o fatine negli scacchi fatati.

Un quadro d'argomento scacchistico
David McKee: The Chess Match


Approfondimenti:

bandiera IT Gli Scacchi su Wikipedia
bandiera IT La leggenda sull’origine degli scacchi e Dante
bandiera IT Informazioni sulla partita di Marostica
bandiera EN L’Immortale
bandiera IT Dalla Terra alla Luna su Wikipedia
bandiera IT Bobby Fischer su Wikipedia
bandiera IT Pietro Carrera su wikipedia

 

Scritto da GamberolinkCommenti (76)Lascia un Commento » feed bianco Feed dei commenti a questo articolo Questo articolo in versione stampabile Questo articolo in versione stampabile • Donazioni

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