Per ragioni che non posso rivelare – e anche se vi raccontassi l’intera storia non ci credereste, certi giorni faccio fatica a crederci io stessa – mi trovo nella necessità di leggere la saga di Harry Potter. Ho da poco iniziato il quarto volume, Harry Potter e il calice di fuoco.
Dato che spesso mi è stato chiesto un parere su questa saga, voglio spendere due o tre parole sui primi tre volumi. Magari aggiornerò l’articolo o ne scriverò un altro dopo aver letto gli ultimi quattro.
Sono perplessa.
Avevo letto il primo volume di Harry Potter anni fa, quando ero piccina, e l’avevo trovato tra il bruttino e l’insignificante. Riletto oggi è una schifezza. Lo stile è tanto sciatto e dilettantesco da essere al limite dell’illeggibile, la trama è evanescente, i personaggi insipidi. Certo, se si paragona Harry Potter e la pietra filosofale al tipico fantasy elfico, Harry Potter sembra un trionfo del fantastico, ma in assoluto non c’è niente di particolarmente originale o fantasioso. Senza andare lontano, ho trovato il primo volume di Percy Jackson scritto meglio, più divertente e più ricco di trovate.
Devo ammettere che il secondo volume della saga, Harry Potter e la camera dei segreti, è scritto molto meglio del primo. Forse la Rowling ha imparato, o forse, visto il successo, la casa editrice ha deciso di investire una manciata di sterline in un editor. Intendiamoci: è ancora uno stile da vergognarsi, ma almeno non si ha l’istinto di tirare il volume fuori dalla finestra.
Gli altri difetti rimangono, con l’aggiunta di deus ex machina piccoli e grandi, fino alla farsa della fenice con spada & cappello. Stendiamo un velo pietoso.
Nel terzo volume, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, lo stile continua a migliorare e a tratti raggiunge la decenza, ma non mancano alcuni strafalcioni atroci. Ne cito uno:
Harry non aveva idea di come fosse riuscito a tornare nella cantina di Mielandia, nel tunnel e infine al castello. Sapeva solo che il viaggio di ritorno gli era parso rapidissimo, e che si era a stento reso conto di quello che faceva, perché nella sua testa rimbombava ancora la conversazione che aveva appena ascoltato.
Già, come ha fatto Harry Potter a tornare nel retrobottega di Mielandia? Per uscirne ha avuto bisogno di un colpo di fortuna (tanto per cambiare), ma entrare a occhio è molto più arduo. Così arduo che la Rowling si stringe nelle spalle e fa in modo che neanche il personaggio punto di vista sappia quello che è succeso. Roba a livello di Strazzu & Troisi. Spazzatura indegna di qualunque romanzo pubblicato, che abbia venduto milioni di copie o no. Nota: per le ragioni che non posso riferire citate all’inizio sto leggendo in italiano; so che ci sono dei problemi di traduzione, ma sono andata a controllare con l’originale ed è lo stesso.
A parte le cadute di stile, abbiamo una trama ancora più sfilacciata e campata per aria dei volumi precedenti, con buchi logici da far spavento e la ciliegina sulla torta di una macchina del tempo per forzare il lieto fine. Mai vista una trovata tanto idiota e gestita male, trovata che rende irrilevanti le centinaia di pagine già lette dei primi volumi.
E anche ammettendo che con la GiraTempo non si possa tornare più indietro di 24 ore e non abbia potere ricorsivo (per altro sono mie ipotesi, la Rowling non lo dice), qualcuno mi spiega perché la McGranitt non l’ha usata per acchiappare Sirius Black le prime due volte che è entrato al castello? Bastava tornare indietro di qualche ora e appostarsi in corridoio.
Ed Hermione, che dovrebbe essere quella “intelligente”, ci tiene tanto a sottolineare che possono solo fare quello previsto e modificare solo di poco gli avvenimenti: è troppo alto il rischio di sbagliare! Hermione, tesoruccio della mamma, se qualcosa va storto non devi fare altro che tornare indietro un’altra volta. Non ci vuole un genio.
A proposito di geni: qualcuno mi spiega perché Lupin, uno degli autori della Mappa del Malandrino, e dunque a conoscenza di tutti i passaggi segreti per entrare e uscire dal castello, non avverte chi di dovere del passaggio nella statua della strega orba? E perché deve prendere una pozione per evitare di trasformarsi? Non basta che rimanga chiuso in casa? Perché la Luna c’era già quando era alla Stamberga Strillante e quando ha percorso il tunnel sotterraneo, ma lui si è trasformato solo quando l’ha vista al diradarsi delle nuvole. Si bendava, finito il problema.
E la vicenda incresciosa del grifone? Una creatura così intelligente da capire gli insulti in linguaggio umano ma alla quale non si può spiegare di muovere il culo e volare via perché se no rischia la decapitazione.
E tutti quegli Expelliarmus! a destra e a manca che lasciano maghi che dovrebbero essere espertissimi disarmati? Ma legarsi la bacchetta al polso con una catenella? No, eh? Spezzare le bacchette magiche altrui una volta che le hai in mano? Girare con una pistola? Ché si fa molto prima a sparare che a parlare.
Che boiata repellente!, con un livello di attenzione ai dettagli degno del fantasy italiano.
La trama di Azkaban fa acqua anche perché la storia manca di tensione: Harry Potter è uno stupidotto viziato a cui va sempre tutto bene, senza alcuno sforzo o quasi.
Emblematico è l’inizio: Harry gonfia la zia e fugge da casa; è solo, di notte, senza soldi, senza più una casa tra i babbani (i “normali” esseri umani privi di poteri magici) e siccome ha usato la magia essendo minorenne sarà espulso da Hogwarts. Sono buone premesse, fanno venir voglia di continuare a leggere, ci si domanda come farà il nostro eroe a cavarsela. Vediamo il grande Harry Potter cosa si inventa! Niente.
Senza che muova un dito l’autobus magico lo raccoglie; senza che muova un dito il Ministro della Magia lo perdona e in sovrappiù gli offre vitto e alloggio. E tutto nel giro di poche pagine.
Appena Harry Potter è in difficoltà il mondo corre ad aiutarlo, si piegano per lui persino le leggi della fisica (vedi macchina del tempo). D’altra parte Harry Potter è l’unico che fin da neonato ha resistito agli incantesimi di Voldemort (perché il mago più malvagio di tutti i tempi non poteva prendere un coltello da cucina e sgozzarlo – e per piacere non tiriamo in ballo che si tratta di un romanzo per bambini, ché anche “Cappuccetto Rosso” è per bambini), è il più giovane giocatore di Quidditch della storia di Hogwarts (il Quidditch, gioco dalle regole cretine pensate solo per dare sempre un ruolo decisivo a Harry), è pieno di soldi (che non guasta mai, eh!), e per gli altri il regolamento della scuola si applica, per lui si interpreta.
E forse questa è la chiave del successo della Rowling. Vedo molta vicinanza tra Harry Potter, Bella (la svampita protagonista di Twilight) e per rimanere dalle nostre parti i personaggi dei romanzi di Moccia e di Licia.
«Grande Sennar! Fantastico! Siamo una coppia di vincenti! Non siamo ancora adulti e abbiamo già realizzato i nostri sogni!»
Esclama Nihal in Nihal della Terra del Vento.
Io ho l’impressione che un’ampia fascia di pubblico non voglia (più?) storie costruite in maniera “tradizionale” e basate sul conflitto, ma cerchi solo un personaggio con cui identificarsi e attraverso il quale vivere i propri sogni senza ostacoli. Niente di male. Il mio problema però è che trovo questo tipo di narrativa noiosa. È come giocare con un videogioco in cui non puoi mai morire: senza sfida che divertimento c’è? A quanto pare un sacco, viste le vendite della Rowling e della Meyer.
Ripeto: sono perplessa. Ho letto da molte parti che la saga di Harry Potter dovrebbe poter piacere anche agli adulti, ma lo trovo davvero difficile da credere. Se qualcuno si è sciroppato questi libri non a dodici anni, ma a venti o più, potrebbe spiegarmi come ha fatto a sopportarli?
E per piacere, mantenete la discussione in termini più tecnici possibile. Si parla di stile, personaggi, ambientazione, trama, ecc. Le considerazioni morali non mi interessano. Per essere ancora più esplicita, visto anche un recente flame a proposito: se davvero Harry Potter spingesse i bambini al satanismo sarebbe una delle poche qualità di questi libri; la presenza di una certa vena razzista di molti maghi nei confronti dei babbani non mi fa né caldo né freddo.
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Titolo originale: Vampire Kisses
Autore: Ellen Schreiber
Anno: 2003
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Editore: HarperTeen
Genere: Rosa con gnokki
Pagine: 253
Ho letto le prime pagine di Vampire Kisses pensando: “chissà che incredibile stupidaggine, magari se è abbastanza demente posso cavarne un articolo per il blog. E in più potrei dileggiare l’autrice. E offendere le fan.” Del resto parto sempre con questo atteggiamento, essendo stata infettata da piccola con il morbo della kattiveria. Invece Vampire Kisses pur non essendo un capolavoro, e in verità neanche un bel romanzo, si è però rilevata una lettura interessante.
La storia è la seguente: Raven ha da poco compiuto sedici anni e non è felice. Abita in una piccola cittadina, da lei ribattezzata “Dullsville”, e oltre che macerarsi nella noia deve sopportare il fatto che nessuno le voglia bene. Perché Raven è una goth girl e nessuno la capisce. Nessuno capisce perché lei debba vestirsi sempre di nero, essere ossessionata dai film dell’orrore e dai romanzi di Anne Rice, adorare le tenebre e le vecchie case diroccate. Nessuno poi vuole darle retta quando spiega che da grande lei sogna di diventare un vampiro. Un bel giorno una nuova famiglia si trasferisce nelle magione di Benson Hill, una villa abbandonata da anni. I nuovi arrivati sono una ricca famiglia europea; hanno abitudini particolari e non si fanno mai vedere alla luce del Sole. Raven scopre che fa parte della famiglia anche un ragazzo diciassettenne, tale Alexander. Di Alexander basti dire che “His eyes were dark, deep, lovely, lonely, adoringly intelligent, dreamy. A gateway into his dark soul.” Come ovvio Raven s’innamora subito di Alexander, e lui di lei, ma c’è un grosso problema: lui è uno gnokko o in terminologia pre-Meyer un vampiro.
Lo gnokko Alexander. Non so se sia più gnokko dello gnokko Edward, ma almeno non sta ripetendo per la quindicesima volta il Liceo: è già qualcosa
Come si vede la trama è in pratica quella di Twilight: ragazzina sola nella piccola cittadina ostile e vampiro adolescente. Peccato che Ellen Schreiber abbia scritto Vampire Kisses due anni prima di Twilight. Perciò ai “meriti” della signora Meyer si può aggiungere anche quello di aver scopiazzato senza ritegno (anche se poi è chiaro che sia la Schreiber sia la Meyer hanno attinto a una serie di idee che già circolavano da tempo, da Buffy a The Vampire Diaries). A essere sincera, mentre leggevo Vampire Kisses ho varie volte sghignazzato perché credevo che la Schreiber stesse prendendo varie scene da Twilight e le stesse riscrivendo in chiave ironica, invece era il contrario! È la Meyer che ha rubato le scene e le ha riproposte senza neppure un briciolo dell’umorismo di partenza. Lo stesso vale per lo stile. La Schreiber è molto brava: se si escludono un paio di passaggi a vuoto il testo scorre in maniera impeccabile. È uno stile solo in apparenza elementare, in realtà scrivere così è difficile: non sono rimasta sorpresa nello scoprire che questo Vampire Kisses è il quarto romanzo che l’autrice pubblica. La mia affermazione può suonare strana se si è appena letta la descrizione degli occhi di Alexander, infatti l’uso indiscriminato di aggettivi e avverbi è una delle stigmate dello scrittore dilettante. Ma qui è l’ironia: in una scrittura sempre molto trasparente e controllata la Schreiber si sbrodola solo quando descrive il suo gnokko, e questo ne comunica un’immagine così sopra le righe da suscitare un sorriso. Dove la Meyer descrivendo Edward come bello quanto un Dio greco vuol essere seria, la Schreiber sta giocando con il cliché del vampiro bello e tenebroso. Uguale per la protagonista, Raven. La Schreiber ne fa una caricatura della goth girl, insistendo apposta ad associarle l’aggettivo black appena possibile:
Somehow I made it through the day. Cutting and gluing black paper on black paper, finger painting Barbie’s lips black, and telling the assistant teacher ghost stories [...] I dragged myself out of bed and put on a black, cotton sleeveless dress and black hiking boots, and outlined my full lips with black lipstick. [...] They all looked at me—at my black lipstick, black nail polish, blackened hair, black spandex dress, and clunky black plastic bracelets. [...] I was wearing matte black lipstick instead of gloss, black turtleneck, black jeans, and a tiny black backpack with a flashlight and disposable camera. [...] I was wearing my Saturday-night best: a black spandex sleeveless mini-dress with a black lacy undertop that peeked through, black tights, unscuffed combat boots, black lipstick, and silver-and-onyx earrings.
…e così via. La faccenda funziona perché tutta questa oscurità è in contrasto con il carattere di Raven. Raven è spigliata, a tratti coraggiosa, intelligente, qualche volta un po’ carogna ma anche generosa, spiritosa, spesso persino allegra (niente a che spartire con quella larva di Bella). È lo stesso meccanismo per cui Shrek che è un orco ma si comporta da brava persona suscita simpatia. Raven ha l’aspetto di una goth girl ma si potrebbe dire che ha un carattere solare. Raven non è certo il mio personaggio femminile preferito, ma mi ha fatto piacere che la Schreiber, pur mirando a quel pubblico che io chiamo di ragazzine cerebrolese, non abbia rinunciato a proporre una protagonista con un quoziente d’intelligenza superiore alla singola cifra.
Una cosplayer addobbata da Raven. Qui un suo filmato
La Schreiber è anche più verosimile della Meyer: i suoi gnokki si fanno vedere poco (e mai di giorno), viaggiano spesso e Alexander non frequenta il locale Liceo. È home-schooled, ovvero sono gli insegnanti a venire a casa sua. In America è una pratica più diffusa che non in Europa, e una soluzione molto più credibile che non frequentare una scuola per cent’anni di fila. Inoltre la Schreiber non dice quanti anni abbia lo gnokko, potrebbe sul serio averne diciassette ed essere appena entrato nella gnokkaggine. Tra l’altro, in pratica fino all’ultima pagina, non si può neanche affermare con sicurezza che si è trattato di gnokki: se Alexander e genitori fossero solo dei ricconi eccentrici la storia funzionerebbe lo stesso senza il minimo intoppo. Per questo Vampire Kisses non lo posso far rientrare nel fantasy, neppure nel sottogenere romantico di Twilight. E d’altra parte non è neanche un vero romanzo rosa perché… mostra il finale ▼
…perché non rispetta uno dei canoni del genere: non c’è lieto fine. Il finale è un ottimo finale, che ho apprezzato molto, perché è coerente con lo svolgersi della storia e l’ambientazione, ma non puoi terminare un romanzo rosa con lui che invece di sposare lei prende e se ne va.
Da sottolineare infine due aspetti marginali ma che mi sono piaciuti: alcuni dialoghi deliziosamente dementi fra Raven e la sua amica del cuore, e il titolo stesso del romanzo: Vampire Kisses. Senza giri di parole, dritto al punto: gnokki e baci!
Vampire Kisses pur non ottenendo lo stesso successo di Twilight ha avuto comunque un notevole successo. La Schreiber ha pubblicato già cinque romanzi nella serie (dei quali non voglio sapere niente: mi spiacerebbe veder rovinato l’inappuntabile finale del primo volume), e altri tre sono previsti per il 2009-2010. In più dai romanzi è stato tratto un manga, Vampire Kisses: Blood Relatives, e secondo il sito dell’autrice la sceneggiatura per il film è in corso d’opera. In Italia è da poco disponibile sia il primo volume della serie di romanzi sia il primo volume del manga. Per entrambi l’editore è Renoir Comics. Onestamente non so se valga i 12 euro richiesti, io ho letto l’edizione inglese presa da emule, e prima di spendere soldi consiglio di fare altrettanto (può essere un buon modo per cominciare a leggere in inglese, dato che qui stile e lessico sono molto semplici).
Copertina del primo volume del manga
Questa recensione è senza gamberi. Come detto Vampire Kissesnon è un romanzo fantasy, è al 99% un romanzo rosa. Io ho letto la mia quota di romanzi romantici, ma non conosco abbastanza il genere per esprimere un giudizio sensato. Penso possa piacere a chi cerca una storia d’amore leggera e divertente. Però bisogna aver ben presente che i temi trattati sono del tipo: cosa mi metto al ballo della scuola? oddio, se papà scopre che gli ho rubato la racchetta fortunata mi metterà in punizione! Alexander mi ama, ma quanto mi ama? Perché non mi ha ancora baciata??? e così via… per quanto possa apprezzare l’abilità tecnica della Schreiber, questo non è esattamente il genere di storia che mi entusiasma. Ovviamente il romanzo è consigliatissimo per le fan della Meyer: stessa storia, scritta meglio, cosa volete di più? Attente però: per apprezzare certi passaggi è richiesta una ghiandola dell’ironia funzionante…
Nel 1845 il Capitano Sir John Franklin partì dall’Inghilterra con 128 uomini e due navi equipaggiate di tutto punto per la navigazione in acque polari. Il suo scopo era trovare il Passaggio a Nordovest, ovvero tracciare una rotta che portasse dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico passando lungo la costa settentrionale del Canada, tra i ghiacci dell’Oceano Artico. Nei tre anni successivi le due navi, la HMS Erebus e la HMS Terror, tenteranno invano di aprirsi una via. Intrappolate nel pack artico, saranno abbandonate dagli equipaggi. I marinai di Franklin proveranno a tornare alla civiltà marciando a piedi per centinaia di chilometri di desolazione: non sopravvivrà nessuno.
La HMS Terror intrappolata nei ghiacci artici durante una precedente spedizione (1836- 1837), da un disegno del Capitano George Back
Quel che sia davvero successo alla spedizione non è mai stato accertato. È opinione comune che a uccidere Franklin e i suoi uomini sia stata una combinazione di scorbuto, polmonite, tubercolosi, avvelenamento da piombo dovuto al cibo inscatolato e cannibalismo. Tuttavia le cose potrebbero anche essersi svolte in maniera diversa…
Nel suo ultimo romanzo, The Terror (titolo italiano: La Scomparsa dell’Erebus), Dan Simmons suggerisce che oltre alle delizie già elencate, gli equipaggi siano stati vittime di una misteriosa creatura, dotata di forza e abilità sovrannaturali. Due navi bloccate dai ghiacci nel circolo polare artico, isolate e senza possibilità di ricevere aiuto, e in più assalite da una bestia maligna: se la trama non suona originale è perché è una rielaborazione di un classico della fantascienza, ovvero Who Goes There? (titolo italiano: La “cosa” da un altro mondo), romanzo breve di John W. Campbell Jr. Dalla “cosa” sono state anche tratte due versioni cinematografiche, forse più famose del romanzo stesso: The Thing from Another World (La Cosa da un Altro Mondo) del 1951 e The Thing (La Cosa) del 1982 per la regia di John Carpenter.
Il romanzo di Campbell è del 1938. Penso sia interessante osservare come una stessa storia sia stata interpretata in maniera diversa nel 1938, 1951, 1982 e 2007. Devo però avvertire che non ci sarà molto modo di esercitare il sarcasmo né riuscirò a insultare nessuno, anche se Simmons mi è un po’ antipatico!
Titolo originale: Who Goes There?
Titolo italiano: La “cosa” da un altro mondo
Autore: John W. Campbell Jr.
Anno: 1938
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Genere: Fantascienza
Pagine: 137
Campbell scrive Who Goes There? nel 1938, usando lo pseudonimo di Don A. Stuart. Campbell era già famoso come autore di space opera avventurosa, piena d’invenzioni mirabolanti e avvenimenti catastrofici – ed era molto bravo: un romanzo come The Mightiest Machine (titolo italiano: I Figli di Mu) se letto ai giorni nostri può a tratti risultare ingenuo e inforigurgitoso, ma rimane lo stesso divertentissimo. Io mi sono divertita! – tuttavia all’epoca era considerata narrativa di serie B, e così per le sue storie più “serie” Campbell usava uno pseudonimo.
Copertina de I Figli di Mu
In Who Goes There?, una spedizione scientifica al Polo Sud trova una nave spaziale sepolta da milioni di anni nel ghiaccio. Nel tentativo di liberarla, gli scopritori compiono la scelta sbagliata, pensando bene di sciogliere il ghiaccio usando bombe incendiarie! La nave spaziale viene così accidentalmente distrutta. Ma non tutto è perduto: a poca distanza dal relitto, in un blocco di ghiaccio, è rimasta surgelata un’inquietante creatura, evidentemente uno dei passeggeri dell’UFO. Gli scienziati riportano il blocco alla loro base. Dopo un’accanita discussione su cosa fare del mostro, si decide di sciogliere il blocco e iniziare a studiare la carcassa della creatura. Purtroppo per loro la creatura non è proprio morta…
La “cosa” scoperta tra le nevi del Polo Sud vista dall’illustratore George Barr sulla base della descrizione di Campbell
Who Goes There? inizia con la discussione di cui sopra, nella quale sono anche riassunti i fatti relativi alla scoperta della nave spaziale. Una volta presa la decisione di procedere con l’autopsia della “cosa”, il romanzo si muove a ritmo velocissimo, senza più pause fino al termine. È per molti versi uno scorrere fin troppo frenetico, che lascia un po’ l’amaro in bocca, perché certe situazioni meriterebbero maggior approfondimento. Ma dal mio punto di vista è da apprezzare come Campbell mantenga sempre l’attenzione sugli aspetti essenziali della storia che sta narrando, senza mai perdersi in quisquiglie.
Uno degli aspetti essenziali è la “cosa” stessa. La “cosa” è una creatura intelligentissima, con poteri telepatici e malvagia fino al midollo. La “cosa” inoltre è in grado di “assorbire” qualunque essere che venga in contatto con lei. Una volta contaminato dalla “cosa” un uomo o un animale si trova le proprie cellule sostituite da quelle della “cosa” e in poco tempo non è più lui ma un’altra “cosa”, che però rimane ancora parte della “cosa” originaria.
«Che cosa aveva intenzione di fare?» Barclay fissò il telo cerato. Blair sogghignò, sgradevolmente. L’aureola ondeggiante di capelli sottili che gli cingeva la testa calva fremette in un soffio d’aria. «Impadronirsi del mondo, immagino.» «Impadronirsi del mondo? Così, da solo?» ansimò Connant. «Diventare un dittatore solitario?» «No.» Blair scosse il capo. Il bisturi con il quale stava giocherellando cadde; si chinò a raccoglierlo, e il suo volto rimase nascosto, mentre parlava. «Sarebbe diventato la popolazione del mondo.» «Diventato… avrebbe popolato il mondo? Si riproduce asessualmente?» Blair scosse ancora il capo e deglutì. «Non… non ne ha bisogno. Pesava quaranta chili. Charnauk [qui si sta parlando dei cani da slitta, prime vittime della "cosa"] ne pesava circa quarantatre. Sarebbe diventato Charnauk, e gli sarebbero rimasti ancora quaranta chili per diventare… oh, Jack, per esempio, o Chinook. Può imitare qualunque cosa… cioè, può diventare qualunque cosa. Se avesse raggiunto l’oceano antartico, sarebbe diventato una foca, o magari due foche. E le foche avrebbero potuto aggredire un’orca, e diventare orche, oppure un branco di foche. O forse avrebbe catturato un albatros, una procellaria, e sarebbe arrivato a volo nell’America meridionale.» Norris bestemmiò sottovoce. «E ogni volta che avesse digerito qualcosa e l’avesse imitata…» «Avrebbe avuto a disposizione la sua massa originaria, per ricominciare,» terminò Blair. «Niente potrebbe ucciderlo. Non ha nemici naturali, perché diventa quello che vuole diventare. Se una orca l’avesse aggredito, sarebbe diventato un’orca. Se fosse stato un albatros, e un’aquila l’avesse attaccato, sarebbe diventato un’aquila. Dio, poteva diventare un’aquila femmina, tornare indietro, fare un nido e deporre le uova!» «Sei sicuro che quella cosa infernale sia morta?» chiese sottovoce il dottor Copper. «Si, grazie al cielo,» ansimò il piccolo biologo. [ma non è vero, la "cosa" non è morta!!!]
La proprietà della “cosa” di essere al contempo una e molti, verrà sfruttata per scoprire chi tra gli scienziati non è più lui ma solo un’imitazione, nella famosa scena dell’esame del sangue, scena che diventerà un momento chiave anche nel film di Carpenter.
Il punto saliente della lotta alla “cosa” nel romanzo di Campbell è la razionalità dei personaggi coinvolti. Tutto il “cast”, “cosa” in testa, si comporta sempre in maniera lucida, con freddezza e determinazione. Non c’è gente che gira da sola negli angoli bui della base, né tizi che danno fuori di testa, o altre scene ormai presenti in ogni tipo di film/romanzo simile. Qui abbiamo degli scienziati, persone considerate intelligenti, e come tali si comportano. Dall’altra parte la “cosa” proviene da una civiltà in grado di viaggiare tra le stelle, perciò una creatura evoluta, e dimostrerà di esserlo. Ho apprezzato molto. Come invece non apprezzo la diffusa tendenza a giustificare personaggi che si comportino in maniera irrazionale in situazioni di stress, anzi, in qualche maniera tale comportamento viene considerato più “realistico”. In realtà più spesso che non è l’autore a non saper come cavarsi fuori dagli impicci se non riducendo artificialmente il quoziente intellettivo delle persone coinvolte. Campbell ha rispetto per i suoi personaggi e per i lettori, e nessuno si comporterà da idiota. È probabile influisca anche una visione di fondo nei riguardi della scienza: in Campbell gli scienziati in quanto tali sono personaggi positivi, appunto razionali e intelligenti, mentre già nel film del ’51 saranno considerati dei bambini troppo cresciuti, che si baloccano con giocattoli che sarebbe meglio lasciar perdere. Nel ’51 non ci si può più fidare degli scienziati; come spiegherà un personaggio: è la stessa gentaglia che ha inventato la bomba atomica! Bastardi!
Il 30 Ottobre 1961 i sovietici fecero detonare tra i ghiacci del Circolo Polare Artico il più potente ordigno mai costruito: la Tsar Bomba. Una bomba atomica della potenza di 50 megaton (50 milioni di tonnellate di tritolo). L’esplosione produsse una sfera di fuoco (nell’immagine) del raggio di quattro chilometri, visibile a più di mille chilometri di distanza. Il susseguente “fungo” si alzò per 60 chilometri nel cielo, con un diametro di 40 chilometri. L’onda d’urto fu tale da infrangere le finestre di molti palazzi in Finlandia e Norvegia, a centinaia di chilometri di distanza dall’epicentro del cataclisma
Un altro punto da notare è come i personaggi di Campbell non abbiano nessuna particolare caratterizzazione. Escluso qualche tratto fisico, sono in buona parte intercambiabili. Non so in che misura sia stata una scelta ponderata – Campbell non è che sia famoso per la complessità psicologica dei suoi personaggi – però può anche essere che abbia voluto accentuare il clima di paranoia che si crea alla base quando si scoprono i poteri della “cosa”. Così come gli scienziati non sanno più chi sia umano e chi sia “cosa”, anche il lettore ha difficoltà a distinguere questo da quello. Si crea una particolare atmosfera d’inquietudine, che tra l’altro fa sorgere la domanda: e se tutto il mondo fosse già una “cosa”? In The Body Snatchers (L’Invasione degli Ultracorpi), gli esseri umani che ormai di umano mantengono solo l’aspetto, sono distinguibili dai veri esseri umani. Gli alieni non hanno problemi a dichiararsi tali, rivendicano la loro superiorità sui terrestri. La “cosa” imita in maniera totale. Certo, data la situazione tattica, una perfetta imitazione è quello che le serve, ma si ha la netta impressione che anche quando la “cosa” avesse conquistato il mondo, all’apparenza non cambierebbe niente. E se all’apparenza non è cambiato niente, come possiamo dire che non ci sono più esseri umani? In fondo nessuno può spiare l’”anima” del prossimo, possiamo stabilire che una persona è un essere umano solo se si comporta come tale.
Un particolare dell’apparecchiatura necessaria per svolgere il test Voight-Kampff, in grado di discriminare gli esseri umani dai Replicanti. La “cosa” supererebbe il test senza difficoltà
Campbell segue il precetto di narrare solo l’essenziale anche riguardo l’ambientazione. Pochissimi paragrafi sono spesi per il gelo del Polo Sud, ma è sottolineato con maestria il punto chiave delle condizioni del tempo. All’inizio la base è isolata, senza possibilità di ricevere aiuto dall’esterno, e questo acuisce il senso di pericolo e paura; più avanti il tempo migliora e invece di allentarsi la tensione aumenta, perché significa che la “cosa” ha la possibilità di allontanarsi e forse di contaminare altri insediamenti, divenendo impossibile da fermare. È un ottimo esempio di gestione della narrazione. Il cuore della storia di Campbell è la lotta fra “cosa” e scienziati, il resto ha valore solo fin quando contribuisce alla causa.
Il romanzo termina con un lieto fine. In qualche misura fin troppo lieto date le premesse: non solo gli scienziati riescono a distruggere la “cosa”, ma s’impossessano anche dell’affare antigravitazionale che la “cosa” stessa stava costruendo per fuggire dalla base. Non è un finale forzato, però non ha l’impatto emotivo che avrebbe potuto avere un finale con la “cosa” libera di conquistare il mondo.
Una curiosità: secondo il critico Sam Moskowitz, Campbell avrebbe tratto ispirazione da episodi della sua infanzia per scrivere il romanzo. Infatti la madre di Campbell aveva una sorella gemella, e pare che le due spesso si scambiassero ruolo di nascosto, allo scopo di tirare brutti scherzi al povero bambino…
Titolo originale: The Thing from Another World
Titolo italiano: La Cosa da un Altro Mondo
Regia: Christian Nyby
Anno: 1951
Nazione: USA
Studio: Winchester Pictures Corporation
Genere: Fantascienza con vegetali molesti
Durata: 1 ora e 27 minuti
Lingua: Inglese
Tredici anni dopo la pubblicazione del romanzo di Campbell, Howard Hawks (famoso regista tra gli altri di Scarface, Sergeant York, Red River, Rio Lobo), decide di trarne un film. Ufficialmente la regia è del suo aiutante Christian Nyby, ma secondo gli stessi attori, era Hawks a dirigere.
The Thing from Another World ha solo alcuni punti di contatto con la storia originale. Alcune differenze sono spiegabili con il diverso clima politico e tecnologico seguito alla Seconda Guerra Mondiale, ma altre non hanno giustificazione se non un tentativo di rendere il materiale più accessibile alla “massa”, riducendo la complessità della vicenda. Alla fine ne esce tutto sommato un film decente, che però lascia deluso chi si aspettava una trasposizione fedele.
La differenza più grande riguarda la “cosa” stessa: sparita è la capacità di imitare altri esseri viventi, sparita è la telepatia, sparita è anche l’intelligenza. Rimane un mostro che somiglia vagamente alla creatura del dottor Frankenstein, e che vagola per la base ad ammazzare chi gli capiti a tiro. Quando sarà organizzata una trappola per questa “cosa”, lei ci cascherà come una rapa. E ho detto rapa non per caso, perché nel film è stabilito che la “cosa” è in realtà un vegetale!
Scott [Il tipo alto e con la pelata a sinistra]: «Ma è come se… come se steste descrivendo una specie di… super-carota» Carrington [lo scienziato al centro]: «Avete quasi indovinato. Questa… carota, come voi la chiamate, ha costruito un apparecchio capace di volare per milioni di chilometri attraverso lo spazio, sospinto da una forza che a noi è sconosciuta» Scott: «Una carota di genio… mi gira la testa!» [e sì, questo dialogo nel film è da intendersi serio!]
Il rinunciare al potere più inquietante della “cosa”, significa che il terrore può essere comunicato solo dall’aspetto esteriore dell’essere. Lee Greenway, che si occupava del makeup della “cosa”, preparò non meno di 18 modelli diversi prima che Hawks fosse soddisfatto. Ma è difficile giudicare a priori la reazione della gente, così l’attore James Arness fu costretto a conciarsi da “cosa” e venne spedito in giro per Los Angeles. Si ripeté l’esperimento con vari makeup, finché le persone per strada non cominciarono a spaventarsi sul serio. James Arness non la prese bene: dichiarò che travestito da “cosa” si sentiva una carota gigante ed era uno dei ruoli più imbarazzanti della sua carriera. Non si presentò neanche alla “prima” del film. Dopo tanta fatica, minuti e minuti di girato con primi piani della “cosa” vennero eliminati in fase di montaggio: vista da vicino la creatura faceva solo ridere…
James Arness nei panni della “cosa”, in tutto il suo… ehm, terrificante splendore?
Un’altra differenza tra romanzo e film del ’51 riguarda gli scienziati e il ruolo della scienza. Tanto per iniziare la base non è più di esclusiva proprietà delle teste d’uovo. A comandare sono i militari, personaggi simpatici, sicuri di sé, che sanno sempre quel che è giusto fare. Con loro anche un giornalista, che però non ha il ruolo di “denuncia” che così spesso è attribuito alla categoria nei film odierni. Il giornalista è lì per testimoniare gli eventi, ma sempre nell’ottica del superiore interesse dell’America. Quando non arriva il permesso di riferire certe notizie, il giornalista patriotticamente si adegua. Gli scienziati sono dei bambocci. Non si capisce che esperimenti svolgano, e non ha grande importanza, tanto la ricerca scientifica è fuffa, e se non è fuffa, è roba dannosa che riguarda l’energia atomica.
Quando il dottor Carrington implora i militari di aiutarlo per tentare di comunicare con la creatura – ché chissà quali conoscenze possiede e lo scopo dell’uomo è la ricerca della conoscenza – il patetico scienziato è ridicolizzato. Se proprio si vuol parlare alla “cosa” bisogna usare un solo linguaggio: quello delle fucilate! Qui più di un critico ha inteso la “cosa” come metafora del pericolo comunista (chiave interpretativa di una bella fetta della fantascienza cinematografica anni ’50), dato che ai comunisti spari e basta. Per me è una faccenda più profonda: è proprio un atteggiamento generale riguardo l’ignoto. Che sia alieno, indiano o comunista poco cambia: di fronte allo strano, allo sconosciuto, al difficilmente comprensibile, al problematico, la scelta corretta dev’essere usare la violenza. La violenza è stata ed è la principale soluzione a ogni tipo di problema, come spiega il professor Dubois in Fanteria dello Spazio (1959) di R.A. Heinlein:
Una nostra compagna gli disse a bruciapelo: — Mia madre sostiene che la violenza non ha mai risolto niente. — Ah, sì? — Il signor Dubois la guardò come se non la vedesse. — Sicuramente i cartaginesi sarebbero lieti di saperlo. Perché tua madre non va a dirglielo? O perché non lo fai tu? Non era la prima volta che litigavano, visto che nella sua materia non si poteva essere bocciati non c’era bisogno di tenersi buono il signor Dubois. — Mi sta prendendo in giro? — ribatté lei, irritata. — Lo sanno tutti che Cartagine è stata distrutta migliaia di anni fa. — Mi era sembrato che fossi tu a non saperlo — disse lui con aria cupa. — Ma, dal momento che lo sai, non sembra anche a te che la violenza abbia deciso il destino di quella città in maniera alquanto definitiva? In ogni caso, non stavo prendendo in giro te personalmente, stavo deridendo una teoria decisamente assurda, abitudine alla quale non rinuncerò mai. A chiunque si attenga alla dottrina storicamente inesatta, e completamente immorale, che la violenza non ha mai risolto niente, vorrei consigliare di evocare i fantasmi di Napoleone Bonaparte e del duca di Wellington, e lasciare che discutano la cosa tra loro. Il fantasma di Hitler potrebbe fare da arbitro e la giuria potrebbe essere formata dal dodo, dall’alca impenne e dal piccione viaggiatore. La violenza e la forza bruta nella storia hanno risolto più situazioni di qualsiasi altro elemento, e chiunque pensa il contrario è un illuso. Le specie intelligenti che hanno dimenticato questa verità fondamentale hanno regolarmente pagato l’errore con la vita e la libertà.
Sul ruolo e la moralità della violenza si può discutere, ma dal punto di vista narrativo è indubbio che partire dal presupposto dello “sparare a vista” dona all’opera in questione un ritmo invidiabile. Senza pastoie etiche la lotta tra uomini e “cosa” si sviluppa veloce e divertente, con discrete scene d’azione. Tra l’altro ciò si sposa bene con una caratteristica dei film di Hawks, ovvero il dialogo fitto, realistico, con più voci che si sovrappongono.
Nell’analizzare The Thing from Another World si deve poi tener conto del fenomeno dischi volanti. Il 24 Giugno 1947 Kenneth Arnold fu uno dei primi ad avvistare un gruppo di UFO che se ne andava a zonzo nel cielo sopra lo stato di Washington. Da quel giorno gli avvistamenti si susseguirono e il 7 luglio un disco volante cadrà nei pressi di Roswell nel New Mexico, anche se la notizia trapelerà solo l’anno successivo. Non è perciò un caso se una delle scene più memorabili del film è quella che dimostra come la nave spaziale della “cosa” sia in effetti un UFO.
L’astronave della “cosa” è un disco volante! La colonna sonora di The Thing from Another World è stata composta da Dimitri Tiomkin usando strumenti inconsueti, come il theramin
La paranoia riguardo i dischi volanti è anche alla base della tirata finale del giornalista.
Scott: «[...] lancio a voi un monito: tutti voi che ascoltate la mia voce, dite al mondo, ditelo a tutti dovunque si trovino: attenzione al cielo; dovunque scrutate il cielo…!»
Come dargli torto? Il pericolo era, anzi è reale! Basta guardare Earth vs. the Flying Saucers (1956).
Dunque, come già detto, un film passabile. Non però a livello di altra fantascienza cinematografica anni ’50, tipo The War of the Worlds (1953), Forbidden Planet (1956) o Invasion of the Body Snatchers (1956). Un ulteriore punto di merito per l’unico personaggio femminile, Nikki, che invece di essere la consueta damigella in pericolo, è un personaggio forte e risoluto.
Locandina italiana. Come spesso capita i distributori nostrani non hanno idea di quel che distribuiscono, per loro a invadere la Terra sono “i ciclopi di Marte”… “i ciclopi di Marte”!!! No comment
Titolo originale: The Thing
Titolo italiano: La Cosa
Regia: John Carpenter
Anno: 1982
Nazione: USA
Studio: Universal Pictures
Genere: Fantascienza
Durata: 1 ora e 49 minuti
Lingua: Inglese
John Carpenter aveva apprezzato il film del ’51 – nel suo Halloween (1978) c’è una scena con un televisore che trasmette The Thing from Another World – ma per fortuna nel realizzare il remake è stato molto più fedele al romanzo di Campbell che non all’opera di Hawks.
La “cosa” riprende le sue capacità mimetiche e la propria intelligenza inumana anche se rimane ancora priva dei poteri telepatici. Carpenter insiste sugli aspetti più strettamente d’orrore della vicenda, e la sua “cosa” è un incubo biologico degno del Lovecraft di At the Mountains of Madness (Alle Montagne della Follia) – forse non proprio a caso, dato che Carpenter è un noto appassionato del solitario di Providence. Gli effetti speciali sono notevoli. La “cosa” ha una concretezza, una (viscida) presenza fisica che è raro vedere nelle creature CG che hanno fatto furore negli ultimi anni.
Quattro visioni della “cosa”
Militari, donne e giornalisti scompaiono e la base polare torna nelle mani degli scienziati. Forse. In realtà che mestiere facciano i personaggi nel film di Carpenter non è che sia molto chiaro. Vediamo i nostri eroi ubriacarsi, drogarsi, guardare vecchi spettacoli in TV o giocare a biliardo. Non c’è traccia di mezzo esperimento. In più hanno a disposizione un lanciafiamme, cosa avrebbero dovuto farsene? Se sono scienziati, dal ’38 all’82 l’Università in America ha preso una brutta piega!
Nel film di Carpenter torna la paranoia presente nel romanzo. Ognuno può essere la “cosa” in incognito e i sospetti reciproci aumentano il nervosismo. La scena vitale dell’esame del sangue è un degno adattamento, anche se, per quanto possa sembrare strano, Campbell è persino più feroce. Purtroppo Carpenter non segue l’esempio di Campbell per quanto riguarda la furbizia dei personaggi: scoperto che la “cosa” può assumere l’aspetto di chiunque, nel romanzo gli scienziati si organizzano per muoversi sempre in gruppo, i tizi nel film, seguendo i peggiori cliché dell’horror, continuano a girare da soli.
Come nel film del ’51, l’unica risposta alla “cosa” è la violenza. Ma mentre nel ’51 era una scelta, nell’82 è l’unica alternativa possibile. A nessuno viene in mente che si possa comunicare con la “cosa”, non viene neanche posto il problema. Le reazioni dei personaggi ’82 sono molto più “animalesche”, dettate dall’istinto, non frutto di valutazioni etiche o filosofiche. L’unica considerazione che la faccenda mi suscita è ancora: “Ma che razza di scienziati sono questi?!” Sempre se scienziati sono.
La ‘action figure’ di Kurt Russel che nel film interpreta il pilota di elicotteri MacReady
Nel film di Carpenter non c’è lieto fine. Anche nell’ipotesi (improbabile) che la “cosa” sia stata distrutta, gli ultimi sopravvissuti moriranno di freddo. E se, com’è più realistico, la “cosa” è ancora viva, quando arriveranno gli aiuti potrà forse riuscire a fuggire dalle lande ghiacciate del Polo e conquistare il mondo. Mi è piaciuto molto, trovo sia il finale più calzante, migliore di quello zuccheroso di Campbell.
The Thing è un ottimo film. L’atmosfera è cupa, carica di tensione, e c’è una virata decisa dalla fantascienza all’orrore. Non c’è dubbio che nell’insieme sia un passo avanti rispetto al film del ’51, sebbene per molti versi il romanzo del ’38 appaia lo stesso più “moderno”.
Titolo originale: The Terror
Titolo italiano: La Scomparsa dell’Erebus
Autore: Dan Simmons
Anno: 2007
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Traduzione in lingua italiana: G.L. Staffilano
Editore: Mondadori (2008)
Genere: Romanzo storico d’avventura con mostro
Pagine: 757
Dan Simmons dedica il suo romanzo al cast del film del ’51, tuttavia i legami tra La Scomparsa dell’Erebus e La “cosa” sono meno stretti di quanto la trama e la dedica potrebbero far pensare. Il che è anche il problema di fondo del romanzo. Dan Simmons rimane a metà guado. Da un lato il romanzo storico, con la disperata odissea della spedizione Franklin, dall’altro un romanzo di fantasy/fantascienza con la spedizione costretta a combattere contro la creatura “aliena”. Simmons si piazza in mezzo e secondo me non è una scelta felice. Letto come romanzo storico il sopraggiungere del sovrannaturale fa storcere il naso, mentre letto come romanzo fantastico ci si trova di fronte a un’opera dove più che la “cosa” contano le scorte di cibo, le malattie, il freddo artico, gli ufficiali incapaci, i subordinati riottosi e così via. Siamo all’opposto di Campbell: Campbell ha scritto un romanzo mantenendo sempre fissa l’attenzione su quello che voleva raccontare, Simmons naviga a vista, spinto ora da un vento ora da un altro. Alla fine Campbell scrive intorno alle 100 pagine, senza mezza parola di troppo, Simmons di pagine ne scrive quasi 800 della quali almeno un terzo si potrebbero buttare senza pensarci due volte. Campbell, come già ricordato, ha bisogno di pochi paragrafi per delineare l’ambientazione e il ruolo che questa ha nella storia, Simmons dedica una marea di pagine alla neve, al ghiaccio, alle creste di pressione, ai seracchi, al pack e agli iceberg. L’unico risultato è che a un certo punto ho esclamato (ma non a voce alta!): “L’ho capito che al Polo Nord fa freddo! Grazie!”
Dopo accurate ricerche e approfonditi studi, sono confidente nell’affermare che al Polo Nord la temperatura è bassa
Dal punto di vista della “cosa”, Simmons si affida alla mitologia esquimese e dunque la sua creatura ha solo marginali punti di contatto con le “cose” già viste. La “cosa” di Simmons pare possedere una certa capacità di mutare forma, anche se di solito appare simile a un gigantesco orso o talpa, però non è in grado di imitare altri esseri viventi. È dotata di telepatia ma solo verso persone ricettive. In compenso, nonostante dovrebbe essere intelligente, il suo comportamento è incomprensibile (a essere buoni, a essere cattivi si comporta così solo perché così serve alla trama). Mostra spoiler riguardo la creatura ▼
La “cosa” di Simmons è una sorta di demone esquimese, il Tuunbaq, o Il Dio Che Cammina Come Un Uomo. In quanto entità divina, la creatura è in pratica invincibile. Il che vuol dire che a pagina 1 potrebbe uccidere tutti gli uomini della spedizione Franklin senza alcun problema. Non lo fa, perché? E non basta: molto più avanti nel romanzo la creatura inizia a massacrare gli orsi polari, e lo scopo è privare di carne fresca gli affamati marinai. Se la creatura volesse i marinai morti potrebbe ammazzarli direttamente, se li volesse torturare potrebbe rapirli e torturarli. Perché la pantomima con gli orsi? Perché è fantasy!!! Come si vede anche autori per altri versi molto bravi spesso ci cascano.
Dove i personaggi di Campbell erano quasi indistinti, Simmons presenta una moltitudine di punti di vista, spesso con stile di scrittura diverso a seconda del personaggio che presenta gli avvenimenti. Nessun personaggio mi ha colpita particolarmente e forse per questo ho apprezzato l’alternarsi dei punti di vista. Se tutto il romanzo fosse stato narrato dal Capitano Crozier o dal dottor Goodsir sarebbe stato molto noioso. È un peccato poi che la scelta del punto di vista non includa mai o quasi mai Lady Silence (la misteriosa giovane esquimese senza lingua), il gigante idiota Manson o il perfido Hickey.
Il vero Capitano Francis Rawdon Moira Crozier
I personaggi di Campbell rimanevano sempre lucidi, quelli di Simmons spesso prendono le decisioni sbagliate. Purtroppo non sempre queste decisioni sbagliate possono essere giustificate, più di una volta i personaggi, come già visto con la creatura, agiscono solo in base a mere esigenze di trama. Mostra uno spoiler su Hickey ▼
All’inizio il progetto di Hickey di uccidere il terzo Tenente Irving poteva avere un senso, ma mesi dopo questo senso è scomparso. Se Irving non ha parlato fin a quel momento è ovvio che non lo farà più. Inoltre Hickey organizza l’omicidio in maniera dilettantesca, abbandonando la prudenza che fino a quel momento aveva contraddistinto il personaggio. Non è Hickey a uccidere Irving, ma Simmons in persona, per sterzare la trama nella direzione da lui voluta. Penoso.
Il ritmo del romanzo è lento, segnato dai periodici attacchi della creatura, che dopo un po’ diventano prevedibili (tranne che per i poveri personaggi, che senza problemi continuano a farsi massacrare commettendo sempre gli stessi errori – sì sto parlando della versione 1845 dell’aggirarsi da soli per gli angoli bui della base). Alcuni passaggi poi sono tediosi oltre ogni dire, per esempio la ventina di pagine con le farneticazioni di Crozier in crisi d’astinenza da alcolici. Fra l’altro queste farneticazioni svelano il finale del romanzo! Roba che quando ho letto non ci volevo credere, invece è proprio così. Qui Simmons e il suo editor dormivano, non c’è altra spiegazione. Nonostante ciò, nel complesso è un romanzo che si legge volentieri. Simmons dimostra di conoscere a menadito l’ambientazione scelta. Ogni particolare riguardo navi, vestiario, cibi, organizzazione, ecc. suona verosimile. L’effetto globale è la sensazione di trovarsi lì, tra i ghiacci dell’Artico, e il desiderio di sapere se si riuscirà a salvarsi o no spinge a leggere fino alla fine.
Alcuni oggetti appartenuti a uno dei marinai della spedizione Franklin, oggetti ritrovati nel corso di una delle tante missioni di salvataggio
Finale che però è un altro dei punti deboli del romanzo. La moltitudine dei punti di vista si riduce a uno solo e sono lasciate in sospeso almeno due sottotrame importanti. Inoltre Simmons decide di tagliar corto nei riguardi della creatura con un lungo “spiegone” tutto raccontato. E non entro neanche nel merito della “morale” della storia: una versione del mito ormai trito e defunto del buon selvaggio.
The Terror è un romanzo che penso possa piacere a chi cerca una storia d’avventura dai toni crudi (anche qui Simmons rimane a metà del guado: le scene di cannibalismo e violenza sono forse un filo esagerate per un romanzo d’avventura, ma troppo “morbide” per una storia d’orrore), specie se si ha interesse per il periodo storico. Facendo finta che la creatura sia davvero solo un grosso orso. Altrimenti è un’occasione sprecata: Simmons è un bravo scrittore, la sua ambientazione è ben ricercata, le premesse sono ottime ma la storia non sa neanche lei dove voglia andare a parare.
Gamberi
Più che scrivere vere recensioni ero interessata a seguire l’evoluzione della “cosa”, ma per avere un’idea, i Gamberi sarebbero questi:
Who Goes There? Un classico della fantascienza a ragione. Tre Gamberi freschi meritati.
The Thing from Another World Film divertente. Però si poteva fare molto di più. Stivale.
The Thing Carpenter ha reso giustizia a Campbell e ci ha messo del suo (nel bene e nel male). Due Gamberi freschi.
The Terror Pregi e difetti si bilanciano. Stivale.
Ricordo infine che tutte le opere citate sono disponibili in formato elettronico via eMule, sia in lingua originale sia in italiano.
Anno: 2008
Nazione: Italia
Lingua: Italiano
Editore: Marsilio
Genere: Urban Fantasy
Pagine: 461
Misteriosi e bizzarri fenomeni accadono a Roma, ai giorni nostri. Annunciano che il Dio Pan sta per tornare e per concludere la secolare lotta contro un altro Dio che ha deciso di stabilirsi in città: Greyface. Presa in mezzo nella rissa tra i due Dei, la famiglia Cavaterra. Alla fine saranno proprio i Cavaterra a dirimere la questione tra le divinità.
Pan è un romanzo urban fantasy, che ricorda opere come American Gods di Gaiman, oppure Our Lady of Darkness (titolo italiano: Nostra Signora delle Tenebre) di Leiber o ancora The Cosmic Puppets (La Città Sostituita) di Philip K. Dick. Ma anche se certi riferimenti sono abbastanza chiari – gli spiriti che abitano Roma e in generale la rappresentazione della città come “viva” devono molto a Megapolisomancy: A New Science of Cities del De Castries – Dimitri non ha “scopiazzato” nessuno. Il romanzo ha molte fonti d’ispirazione ma mantiene una sua precisa personalità e originalità. Fra l’altro lo stile di scrittura è più brillante di quello di Leiber e la trama scorre meglio che nel romanzo di Gaiman.
Letture Consigliate
Le quattro opere citate sono tutte e quattro abbastanza famose, e letture consigliate. Esclusa l’ultima, si trovano facilmente su emule:
American Gods di Neil Gaiman
Shadow si è fatto tre anni dentro. Sta per uscire ma proprio il giorno prima di tornare in libertà lo informano che sua moglie e il suo migliore amico sono morti in un misterioso incidente. Sull’aereo che lo riporta a casa, Shadow fa conoscenza con un enigmatico Mister Wednesday che gli offre di lavorare per lui. Shadow finisce per accettare: un lavoro gli risolve il problema di cosa fare della sua vita, anche se gli arriva da un vecchio bevitore di Jack Daniel’s dall’aria poco raccomandabile. Il contratto con il losco Mr Wednesday viene annaffiato da una bevuta di idromele, ma Shadow ci metterà ancora qualche tempo per capire chi siano in realtà il suo boss, i suoi compagni in affari, i suoi concorrenti, e ancora più tempo per capire in che gioco sia finito. Il vecchio baro corpulento, l’improbabile seduttore di ragazzine, il gran mangiatore e bevitore, l’uomo dall’eloquio torrenziale e dalla risata tonitruante è Odino, Votan, Grimnir, il Padre di ogni cosa, la somma divinità del pantheon nordico, arrivato in America secoli e secoli fa con una nave di vichinghi.
Nostra Signora delle Tenebre è una agghiacciante fantasy urbana, ambientata nella metropoli di San Francisco. Ma anche la modernissima San Francisco, con le sue colline, la sua baia assolata e i suoi grattacieli altissimi e rilucenti, può diventare il regno del terrore quando strane ombre cominciano ad aggirarsi furtive tra i caseggiati. Per Franz Westen, vedovo, scrittore di racconti del soprannaturale per la televisione, l’incubo comincia all’improvviso, quando, una notte, si affaccia alla finestra del suo appartamento per scrutare con il binocolo le luci della città ed è testimone di una scena inquietante: là, sulla cima di Corona Heights, la solitaria ed erta collinetta che si leva proprio nel cuore di San Francisco, c’è una strana figura dal colorito brunastro che si agita e si muove in maniera sinistra, come se fosse impegnata in qualche misterioso rituale o danza magica. Ha così inizio una terribile persecuzione, cui Franz tenterà invano di sottrarsi e che forse è collegata in qualche modo con un vecchio volume affascinante e sibillino, pieno di misteriose citazioni e di strani discorsi sulle moderne città e sulle arcane entità che le infestano.
Millgate, la piccola città della Virginia, dove Ted Barton è nato trent’anni prima, sembra, a guardarla, immutata: è sempre al centro della conca chiusa tra le montagne, col suo campanile, i suoi alberi, il suo torrente. Ma una volta entrato nella cittadina, Ted Barton si accorge che qualcosa non è come dovrebbe essere: il parco col vecchio cannone della guerra civile è scomparso, al posto della valigeria di Doyle c’è ora una drogheria, e Central Street non esiste più, è cambiata, e si chiama Jefferson Street. Nel tentativo di scoprire che cos’è successo alla “vera” Millgate, Barton, e il vecchio Christopher che lo aiuta nelle sue indagini, si troveranno coinvolti nella battaglia delle titaniche forze cosmiche che dividono Millgate, e l’universo, nei due regni della luce e delle tenebre.
Megapolisomancy: A New Science of Cities di Thibaut De Castries
Purtroppo questo interessante saggio non è mai stato tradotto in italiano, né è disponibile in rete. Il De Castries (personaggio bislacco che ha vissuto mille avventure, da ragazzo è stato persino agli ordini di Giuseppe Garibaldi) sostiene la tesi che quando le città crescono troppo, quando certi tipi di materiali si accumulano in maniera indiscriminata, provocano il nascere o il sopraggiungere dall’esterno di particolari spiriti, detti paramentali. I paramentali sono spiriti ostili e molto pericolosi per l’uomo, tanto che il De Castries non ha scrupoli nel paragonare le moderne megalopoli ai complessi tombali egizi. Gli uomini in pratica vivono già nella loro tomba. Nondimeno, è possibile riuscire a manipolare questi spiriti delle città, questi paramentali, in modo non solo da prevedere il futuro, ma da alterarlo. Non è infine esclusa la possibilità che gli uomini stessi possano tramutarsi in paramentali, acquisendo così l’immortalità.
Copertina di Megapolisomancy: A New Science of Cities
Ambientazione
Come detto, la storia è ambientata a Roma, ai giorni nostri. Tuttavia questo è solo un Aspetto della realtà. Dimitri immagina che la realtà abbia tre Aspetti distinti: la Carne, l’Incanto e il Sogno. La Carne è il mondo fisico, al quale ognuno è abituato; l’Incanto è una sorta di mondo dell’immaginario, dove sono allentate le restrizioni imposte dalla Carne, e dove non c’è alcuna inibizione; infine il Sogno è un mondo surreale dove Carne e immaginazione coincidono. I tre Aspetti sono distinti, tanto che è possibile passare da uno all’altro, ma ugualmente coesistono sempre nello stesso momento. Uno stesso luogo o istante esiste contemporaneamente sia nella Carne, sia nell’Incanto, sia nel Sogno. Questa è però solo un’approssimazione di quanto illustrato nel romanzo, perché Dimitri non spiega mai in maniera esaustiva come stiano le cose. Nonostante ciò, direi che funziona. Al lettore è trasmessa in maniera chiara la sensazione che la realtà ideata da Dimitri non sia campata per aria, né tantomeno asservita alla trama di un qualche romanzo, bensì sia una realtà che obbedisce a precise regole, anche se non si è in grado di afferrarle tutte. D’altra parte è lo stesso con la “nostra” di realtà: “I think I can safely say that nobody understands quantum mechanics.” [Penso di poter affermare in maniera sicura che nessuno capisce la meccanica quantistica] parola del celebre fisico Richard Feynman.
La Roma nell’Aspetto dell’Incanto è l’Isolachenonc’è, la stessa del Peter Pan di J.M. Barrie. Per non rovinare la sorpresa non starò a spiegare il perché di questa bizzarria, basti dire che anche qui Barrie non è scopiazzato, è solo fonte d’ispirazione.
Nel complesso è un’ottima ambientazione. L’idea di presentare un mondo diverso a seconda di quale Aspetto si prenda in considerazione, mantenendo però la realtà unica, è resa molto bene. Siamo a Roma ma anche in un mondo di spiriti, fate, Dei, sirene e bambini volanti. La quotidianità si fonde con il fantastico formando un tessuto continuo, senza strappi. O quasi. Ci sono dei momenti, per altro molto divertenti, dove accenni fin troppo precisi alla nostra realtà rompono un po’ l’incantesimo:
Uno dei due, quello che si faceva chiamare Maximilian, il mese precedente aveva legato un lucchetto come pegno d’amore attorno a un lampione su Milvio, un altro Ponte. L’usanza si era diffusa da qualche anno. Gli spiriti della città la odiavano, perché era un rito senza Incanto, un gesto meccanico, privo di bellezza.
Qui è difficile non sorridere pensando a Moccia e ai suoi lucchetti dementi, d’altra parte pensare a Moccia vuol dire affossare l’Incanto all’istante…
Un gruppo di conservatori ha organizzato un rogo di libri, tra cui un abominevole manuale che parla di come diventare cattivi, un paio di versioni del Necronomicon in vendita da Feltrinelli, Magick di Aleister Crowley, l’ultimo Harry Potter, alcuni testi wiccan e roba a caso di Stephen King.
L’abominevole manuale è Il manuale del cattivo. Cattivi si nasce. Bastardi si diventa scritto dallo stesso Dimitri (Castelvecchi, 2006). Anche qui si sorride, ma si esce un po’ dalla storia. Di questi momenti ce ne sono diversi, tutti spiritosi, ma forse un po’ sopra le righe.
Copertina de Il Manuale del Cattivo
Personaggi
Le due divinità Pan (Peter Pan) da una parte e Greyface (Capitan Uncino) dall’altra, sono tutto sommato personaggi secondari. I veri protagonisti sono i fratelli Cavaterra e i loro amici. Sono tutti caratterizzati molto bene, in particolare Angela Cavaterra, aspirante illusionista col nome di Meravigliosa Wendy, e il fauno Temidoro. La Meravigliosa Wendy e Temidoro mi sono piaciuti tantissimo, al punto di avere la tentazione di saltare avanti per leggere prima le pagine a loro dedicate. Anche gli altri però non sono da meno, forse l’unico un po’ piatto è Giovanni Cavaterra: svolge il suo onesto lavoro nell’ambito della storia, ma non entusiasma. Invece da incorniciare la vicenda di Michele e Greta… mostra uno spoiler su Michele e Greta ▼
Michele Cavaterra è il più giovane dei tre fratelli Cavaterra (gli altri sono Angela e Giovanni) ed è innamorato della compagna di classe Greta. Quando giunge l’emergenza, non è difficile immaginare la reazione di Greta (e questo è sintomo di buona caratterizzazione, si veda la regola dell’arte letteraria numero 11 secondo Mark Twain), è così quando lei tradisce Michele me l’aspettavo. Mi aspettavo anche una reazione violenta da parte di Michele, eppure in quanti romanzi l’autore non ha il coraggio di portare alle proprie logiche conseguenze la caratterizzazione dei personaggi? Invece Dimitri ha tirato dritto e ha fatto agire Michele com’era ragionevole che facesse (uccidere Greta), seppur con una nota ironica. Inoltre, almeno per me, l’ha reso un personaggio più simpatico, perché io adoro i personaggi furbi e cinici.
Non ci sono Buoni e Cattivi nel senso tradizionale del termine. Entrambi gli schieramenti si comportano in maniera sostanzialmente amorale, e anzi è Greyface quello che più di tutti s’impone di rispettare certi “principi”. Personalmente non ho avuto problemi con questo tipo d’impostazione, ma potrebbe non piacere a chi preferisce la visione manichea presente in così tanti fantasy, con i Buoni senza macchia e senza paura e i Cattivi malvagi per contratto.
Stile
Lo stile è diretto e chiaro, con un buon grado di “trasparenza”. In particolare Dimitri è molto bravo con i dialoghi, assolutamente brillanti. Anche quando i personaggi chiacchierano forse più del dovuto, le pagine scorrono via che è una bellezza. Ne sono esempio le pagine dell’incontro fra Temidoro e… un altro personaggio che non nomino. Sono pagine piene di dialogo fitto e oggettivamente anche inforigurgitoso, tuttavia non solo tali pagine non paiono forzate, ma anzi sono un vero piacere da leggere. Notevole. Ho riscontrato nell’intero romanzo un solo dialogo un po’ innaturale, quando all’inizio Giovanni spiega alcune questioni riguardanti Peter Pan alla fidanzata Luisa.
«Già. DuQuette sostiene che l’Isola sia una specie di archetipo alla Jung, ma per qualche motivo fa presa solo sui bambini.» Giovanni fa una pausa. «Posso pensare un po’ ad alta voce?» chiede poi. «Mi schiarisce le idee.» Luisa gli fa una linguaccia. «Sai che odio starti a sentire.» Si siede sul divano accanto a lui e gli posa la testa sulle ginocchia. «Allora. [...]
Come ovvio il voler pensare ad alta voce di Giovanni e la volontà di starlo a sentire di Luisa sono lì solo perché il lettore possa essere ragguagliato su vari concetti che saranno poi ripresi nella storia. Qui l’autore poteva far di meglio per mascherare l’inforigurgito. Ma vorrei sottolineare, questo non è un esempio, non è un errore preso a rappresentarne altri, questo è l’unico dialogo un po’ forzato nell’intero romanzo. Potrei viceversa riportare una marea di dialoghi fantastici, non lo faccio perché sarebbe come mangiarsi le guarnizioni sulla torta prima ancora che inizi la cena!
La storia è narrata in terza persona e normalmente ogni capitolo/scena adotta il punto di vista di uno dei personaggi. Ogni tanto fa capolino il Narratore, specie nella prima parte del romanzo. Gli interventi sono lievi, tipo “[il tal personaggio] Dubita che avrà mai più paura di qualcosa. Sbaglia, ma non è questo il momento in cui lo capirà.” oppure “E qui noi li lasciamo da soli, padre e figlio, perché questo momento è il loro, e non è giusto che ci sia qualcuno che ascolta e spia.” o anche “Angela non dice niente, come niente dicono Giovanni e Michele. Ciascuno chiuso nel proprio mondo, ciascuno prigioniero di se stesso. Avranno tempo per pentirsene.” e così via. Niente di che, ma io avrei evitato.
Non è un romanzo per bambini. C’è una notevole quantità di sesso e violenza, anche se tutto sommato niente di davvero perverso. In più spesso una buona dose d’ironia addolcisce certe situazioni:
La verità è nei bambini. Letteralmente. Augusto Dal Mare ne ha già aperti due, ma ha bisogno del terzo per ottenere le risposte che cerca. Mette in fila i corpi per leggerne le interiora, benedicendo la sapienza degli antichi aruspici. La carne pallida è una pergamena, i tracciati al suo interno, parole. oggi parlano di guerra e vendetta. Era inevitabile, da anni previsto. Un tempo nuovo sta giungendo, la tempesta chiede di lui.
Non solo i bambini sono sbudellati, ma in altre occasioni saranno i dolci angioletti a sbudellare a loro volta. Senza contare che Campanellino (Tinkerbell) invece di una graziosa fatina in stile Disney è una sorta di ermafrodito.
Campanellino. Come si può essere tanto depravati da sporcare una così soave e innocente immagine con fantasie degne del più lurido bordello?
Se il famigerato Moige (MOvimento Italiano GEnitori) – una delle cause per cui la televisione in Italia fa così schifo – si accorgesse di questo romanzo, sono sicura che ne chiederebbe la vendita solo se incellofanato e dietro presentazione di un documento da parte dell’acquirente. Come dice il “Cattivo” nel romanzo:
Ed è il momento che la letteratura si liberi delle brutture accumulate negli anni! Perché mai i nostri figli dovrebbero rovinarsi il cervello con storie violente e piene di fantasia perversa, quando siamo patria di tanti scrittori impegnati? I libri continueranno a essere venduti liberamente, però partiranno campagne stampa che informeranno i giovani su cosa sia bene comprare e cosa no. I libri migliori saranno distribuiti nelle scuole. La pubblicità dei peggiori, tutte le brutture horror per esempio, sarà proibita sui giornali, in televisione e nelle affissioni murarie. Piena libertà di vendita, non certo di imposizione! Questa sì, sarà una boccata d’aria fresca.
Sono d’accordo! Dovrebbe essere illegale pubblicizzare certi romanzacci con protagoniste ragazzine dai capelli blu che ammazzano a destra e a manca. Pensiamo ai bambini!
La storia
Per non rovinare la lettura non starò ad approfondire la trama. È una vicenda interessante, non complicatissima, ma con il suo buon numero di svolte e sorprese. Il ritmo è sempre alto e non ci si annoia mai. Le scene d’azione sono appassionanti a sufficienza e verosimili, e come già ricordato i dialoghi sono splendidi. È uno di quei romanzi che si leggono d’un fiato.
Quello che non mi è piaciuto
Ho trovato il finale affrettato e deboluccio. Lo sviluppo del romanzo porta a presagire un qualche sorta di colpo di scena che però non avviene. La storia si conclude in maniera “standard” e anzi con un discreto grado di banalità. mostra il finale ▼
In poche parole i “Buoni” riempiono di botte i “Cattivi”, peggio, riescono a farlo solo perché il Cattivo decide di affrontare il Buono alle condizioni di quest’ultimo. Il più classico degli errori che un aspirante Evil Overlord possa commettere. “Don’t fight like a man. Fight like an Evil Overlord.” [Non combattere da uomo, combatti come farebbe un Signore del Male.] È vero che la scelta del Cattivo ha delle giustificazioni nell’ambito della storia, sono però giustificazioni buone per un romanzo “normale”, non per un romanzo a tratti geniale come Pan.
Un altro punto poco chiaro riguarda l’uso delle armi da fuoco. Pan, Greyface e i loro adepti si affrontano solo con armi bianche. Questo porta a scontri molto viscerali e sanguinolenti, come forse non sarebbe possibile con pistole e fucili, però la spiegazione fornita dall’autore per mettere al bando la polvere da sparo mi è parsa pretestuosa. L’impressione che ho avuto è che l’autore prima abbia scritto certe scene e poi si sia preoccupato di trovare una “regola” per giustificarle, invece di partire dalla regola e agire di conseguenza. Insomma la logica della storia è stata un po’ sacrificata all’impatto artistico.
Una questione simile riguarda i poteri dei due Dei. L’autore specifica che Pan (perciò credo anche Greyface): “Non è solo una tipica “creatura-molto-potente-considerata-un-dio” da fantasy. È proprio un dio.” Ma questa definizione può andar bene per il Dio Pazzo Azathoth o il Grande Cthulhu, non è molto calzante rispetto ai due personaggi del romanzo, senza troppi giri di parole, due fessi. Senza contare che… mostra piccolo spoiler su Greyface ▼
Durante la presentazione in libreria andata storta, Greyface è ferito da Dagon (no, non il capoccia degli uomini-pesce, è solo un caso di omonimia). Si riprende subito, ma soffre ed è distratto, non proprio quello che ci si aspetterebbe da un Dio colpito da un misero essere umano.
Se Pan e Greyface fossero davvero Dei nel senso più profondo del termine, molto di quanto raccontato avrebbe poco senso.
Una divinità seria
Per inciso, è curioso notare come il “programma” di Pan, con l’esaltazione della lussuria, dell’istinto, dell’agire al di là della morale, della libertà sfrenata non sia lontano da quello che ci aspetta quando Cthulhu tornerà dalla città sommersa di R’lyeh:
[...] dopodiché i cripto-sacerdoti avrebbero sottratto il grande Cthulhu alla tomba ed Egli avrebbe risvegliato i Suoi sudditi e ripreso il dominio della terra. Sarebbe stato facile riconoscere quel tempo, poiché per allora l’umanità si sarebbe comportata come i Grandi Antichi: libera e senza freni, al di là del bene e del male, con leggi e morale gettate da parte, avrebbe passato il suo tempo a bestemmiare, uccidere e ad abbandonarsi al piacere. I Grandi Antichi, liberati, avrebbero insegnato all’uomo nuove bestemmie, nuovi modi di uccidere e di provare piacere, e tutta la terra sarebbe bruciata in un olocausto di estasi e di licenza.
H.P. Lovecraft, Il Richiamo di Cthulhu, 1926
Non è un caso infatti che l’etimologia della parola panico venga proprio dal nome del Dio Pan. Il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, descrive Pan come “divinità boschereccia dalle corna e dai piedi di capro, che col suono della sua zampogna incuteva improvviso e pazzo spavento.” Improvviso e pazzo spavento, direi la stessa reazione che ci si aspetterebbe di fronte a un Grande Antico!
In conclusione
Spesso, volendo dare un giudizio sintetico, mi vedo costretta a usare espressioni poco lusinghiere, tipo che il romanzo in questione “fa schifo”. Stavolta, volendo riassumere la recensione in due parole, sarebbero: “bel romanzo”. Pan è un bel romanzo, divertente – in effetti una delle letture più piacevoli degli ultimi mesi – con una discreta dose di originalità, scritto in maniera ottima, ricco di personaggi azzeccati e dialoghi spassosi. Sarebbe potuto essere ancora più bello, ma già così mi sento di consigliarlo a tutti, anche a chi non è appassionato di fantasy. È un bel romanzo in assoluto, al di là del genere o del confronto con altre opere italiane e straniere.
EDIT: il romanzo è apparso su emule, per chi fosse interessato a leggerlo senza spendere. Vedere relativa segnalazione.
C’è un bambino ch’è piccino Come uva nella vigna C’è un bambino ch’è carino Come un teschio che sogghigna.
Sulle gote ha un bel rossore Sopra gli occhi stelle more Ha manine da baciare Con artigli per squarciare.
Tutto pieno di stupore Va pel mondo, questo amore Cerca altri come lui Per condurli in luoghi bui…
Su nel cielo può volare E anche te può trasportare Su nel ciel, sempre più su Per poi farti cader giù
E tu piombi sul selciato E capisci che ora muori Ed il sangue che hai versato Traccia in terra ghirigori
E poi il diavolo ti piglia Con le ossa tutte rotte Nelle nebbie della notte Peter Pan è Meraviglia!
Titolo originale: Little Brother
Autore: Cory Doctorow
Anno: 2008
Nazione: USA
Lingua: Inglese
Editore: Tor Teen
Genere: Thriller, Fantascienza
Pagine: 384
Più volte mi è stato chiesto di recensire romanzi che mi siano piaciuti, ci siamo quasi! Infatti Little Brother è un buon romanzo, non mi ha entusiasmata, però non è male. Diversi difetti, ma molti pregi. In più è un romanzo appassionante. L’ho letto in due giorni, il secondo giorno rimanendo sveglia fino a tarda notte, e non mi capitava da parecchio che un romanzo riuscisse a suscitarmi tanto interesse.
Young Adult
Little Brother è l’ultimo romanzo dello scrittore di fantascienza Cory Doctorow. È il suo primo romanzo etichettato per “ragazzi” (young adult), è stato pubblicato da Tor Teen ed è nella categoria “Junior High School and Up” (in termini di età più o meno dai 12 anni in su). La faccenda, appena l’ho saputa, non mi ha fatto piacere. Doctorow non aveva mai scritto romanzi per ragazzi e subito ho sospettato una bieca operazione commerciale. E forse lo è! Ma come nel caso di Barker con Abarat, anche se di operazione commerciale si è trattato, non si nota.
Little Brother dovrebbero leggerlo tutti i nostrani aspiranti scrittori per ragazzi, e in generale tutti coloro i quali pensano che “per ragazzi” indichi argomenti semplicisti, abolizione di sesso & violenza, storie prive di originalità e ambientazioni scontate. Doctorow affronta una vicenda tutt’altro che facile da trattare e lo fa senza (quasi) mai essere semplicistico. Così come, pur glissando qualche volta sui particolari più brutali, non rinuncia alla verosimiglianza: per esempio, quando a inizio romanzo il protagonista è arrestato, viene pestato, legato, bendato, lasciato senza cibo, costretto a pisciarsi addosso, minacciato di morte, ecc. mostra piccolo spoiler ▼
e nel finale del romanzo è anche torturato.
Così pure, il futuro vicino immaginato da Doctorow, incentrato sui progressi informatici, è descritto senza timore di scendere in particolari tecnici (in realtà il problema è che scende troppo in particolari tecnici): tunneling protocol, crittografia a chiave pubblica, RFID e matematica bayesiana sono alcuni degli argomenti trattati.
RFID è l’acronimo di Radio-Frequency IDentification. Un tag RFID, un circuito integrato in grado di ricevere e inviare dati, è spesso incorporato nei prodotti, per tenerne traccia prima e dopo l’acquisto. Ovviamente può essere anche impiantato sottopelle per sorvegliare un essere umano. L’immagine è della mano sinistra di Amal Graafstra: nel suo caso è stata una scelta consapevole
Nel complesso è netta la sensazione che Doctorow stia trattando il lettore con rispetto. Il fatto che tale lettore possa avere solo 12 anni non spinge Doctorow verso facili scorciatoie. C’è un abisso tra un romanzo così e il fantasy per ragazzi delle nostre parti, dalla Troisi in giù. Se proprio si vuole scrivere per forza un romanzo per ragazzi, si prenda a modello Doctorow, evitando scimunite mezze elfe e mezze sceme o le avventure di Drago Pallino.
Creative Commons
Il romanzo di Doctorow, oltre a essere venduto in libreria, è disponibile per il download gratuito, con licenza Creative Commons. E non solo: oltre a poter essere distribuito senza limitazioni, la licenza CC adottata da Doctorow concede anche di creare opere derivate. Il che vuol dire che ho il diritto per esempio di tradurre Little Brother o di cambiargli il finale e potrei ridistribuire questo mio lavoro senza problemi legali. È un atteggiamento contro corrente rispetto alla visione attuale di molti autori, i quali ragionano solo in termini di mio! mio! è tutto mio! Ultimo, squallido caso, la denuncia di J.K. Rowling a un piccolo editore colpevole di voler pubblicare una sorta di enciclopedia del mondo di Harry Potter. Qui qualche informazione sulle vicenda, e qui l’opinione di Orson Scott Card.
Invece Doctorow non solo non denuncia il prossimo, ma è felice che le proprie opere siano distribuite a quanti più lettori possibile.
Voglio citare due passaggi dello stesso Doctorow, in prefazione al romanzo:
If I could loan out my physical books without giving up possession of them, I would. The fact that I can do so with digital files is not a bug, it’s a feature, and a damned fine one. It’s embarrassing to see all these writers and musicians and artists bemoaning the fact that art just got this wicked new feature: the ability to be shared without losing access to it in the first place. It’s like watching restaurant owners crying down their shirts about the new free lunch machine that’s feeding the world’s starving people because it’ll force them to reconsider their business-models. Yes, that’s gonna be tricky, but let’s not lose sight of the main attraction: free lunches!
Direi che c’è poco da aggiungere: è vero, può essere che artisti ed editori si debbano inventare un nuovo modello di business, se vogliono sopravvivere, ma questo è insignificante! Il fatto cruciale e bellissimo è che per la prima volta nella storia l’arte può essere riprodotta a un costo vicino allo zero e dunque essere davvero alla portata di tutti!
Now, onto the artistic case. It’s the twenty-first century. Copying stuff is never, ever going to get any harder than it is today (or if it does, it’ll be because civilization has collapsed, at which point we’ll have other problems). Hard drives aren’t going to get bulkier, more expensive, or less capacious. Networks won’t get slower or harder to access. If you’re not making art with the intention of having it copied, you’re not really making art for the twenty-first century. There’s something charming about making work you don’t want to be copied, in the same way that it’s nice to go to a Pioneer Village and see the olde-timey blacksmith shoeing a horse at his traditional forge. But it’s hardly, you know, contemporary. I’m a science fiction writer. It’s my job to write about the future (on a good day) or at least the present. Art that’s not supposed to be copied is from the past.
Su questo punto si può dissentire, ma se non sono gli scrittori di fantascienza i primi ad abbracciare il progresso e il cambiamento, a disegnare nuove prospettive, chi dovrebbe farlo?
Infine, tutti gli scrittori che hanno offerto gratuitamente le loro opere in formato digitale, hanno visto un aumento delle vendite del cartaceo. Perciò, almeno stante la congiuntura attuale, distribuire liberamente è anche un’azzeccata mossa commerciale.
For me — for pretty much every writer — the big problem isn’t piracy, it’s obscurity (thanks to Tim O’Reilly for this great aphorism).
Little Brother
Il diciassettenne Marcus Yallow, un passato da giocatore di ruolo dal vivo, ha passione per la tecnologia e per Harajuku Fun Madness, un ARG (Alternate Reality Game). Un brutto giorno, mentre sta giocando per le vie di San Francisco ad Harajuku con i suoi tre migliori amici, si ritrova a pochi passi dal luogo di un terribile attacco terroristico: misteriosi attentatori hanno fatto saltare il Bay Bridge, causando migliaia di morti. Come non bastasse, nella confusione che segue Marcus & compagnia sono arrestati, in pratica solo per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Bay Bridge
Presi in custodia dal famigerato DHS (Department of Homeland Security), l’agenzia governativa stile Gestapo organizzata da Bush dopo l’11 Settembre, sono tenuti prigionieri per giorni, e anche quando sono rilasciati, è intimato loro di tacere, o non saranno più trattati così “bene”, ma spediti in qualche prigione segreta in Medio Oriente. In più sono avvertiti di essere stati inseriti in una lista nera di sospetti: saranno per sempre sotto controllo, e alla prima mossa falsa di nuovo incarcerati. Ciliegina sulla torta, uno degli amici di Marcus non viene liberato, e forse è già stato trasferito fuori dai confini degli Stati Uniti…
Fantascienza? Non proprio, come potrebbe testimoniare Domenico Salerno, incarcerato per 10 giorni su ordine del DHS. La sua colpa? Essersi recato in America per trovare la fidanzata. Questo è l’articolo originale del New York Times che parla della vicenda. Qui una versione italiana, al sito de Il Messaggero.
Marcus, appena libero, giura di vendicarsi del DHS e di salvare l’amico ancora in mano ai cattivi. Non sarà facile, perché sulla scia della paura suscitata dall’attentato, il DHS ha preso il controllo dell’intera città, trasformandola in uno stato di polizia.
* * *
Mettiamo che foste voi al posto di Marcus, cosa fareste? Siete stati arrestati ingiustamente, minacciati e umiliati, il vostro amico è stato “vaporizzato”, e l’intera nazione pare essersi trasformata nell’Unione Sovietica al culmine della Guerra Fredda. Una parola inopportuna, cambiare troppi treni della metropolitana o fotografare luoghi pubblici: ognuna di queste azioni potrebbe portare al carcere o peggio. In segreto e senza processo. Ci sono solo tre opzioni:
Chinare la testa e fare come se nulla fosse.
Tentare di espatriare.
Combattere.
È triste, ma sospetto che la prima opzione sia la più realistica. Non di meno, non funziona granché bene per un romanzo: se Luke Skywalker invece di seguire Obi-Wan Kenobi a Mos Eisley decide che ne ha già avuto abbastanza, non c’è più film. La seconda opzione può portare a un bel romanzo, ma nel mondo immaginato da Doctorow sarebbe solo un palliativo: gli Stati Uniti sono all’avanguardia, ma metodi autoritari e illiberali si stanno diffondendo ovunque. Rimane solo una possibilità: combattere il sistema. Infatti il DHS non è isolato: ha l’appoggio del Presidente e degli organi politici da un lato, e quello delle altre forze militari e di polizia dall’altro. In più la gran parte della popolazione, pur storcendo il naso di fronte alla riduzione delle libertà, è pronta a sottomettersi in nome di un’effimera “sicurezza” (“Those who would give up Essential Liberty to purchase a little Temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety.” – attribuita a Benjamin Franklin).
Benjamin Franklin, inventore del parafulmine
Marcus dunque combatte. Purtroppo, come Doctorow fa combattere Marcus non mi è piaciuto per niente, e questo è il difetto più grande del romanzo (difetto che, a differenza di altre occasioni, è soggettivo, legato ai miei gusti, più che oggettivo). mostra il finale del romanzo ▼
Usando le parole di Angela, uno dei personaggi:
“This is perfect, Marcus. If you want to really screw the DHS, you have to embarrass them. It’s not like you’re going to be able to out-shoot them. Your only weapon is your ability to make them look like morons.”
E Marcus, grazie alle sue capacità informatiche, riuscirà a mettere più di una volta in imbarazzo il DHS. Ma che ci riuscisse o no in fondo non ha molta importanza, perché Doctorow per il suo finale si è attenuto a un cliché: Marcus confessa tutto alla mamma, la mamma ha un’amica giornalista d’assalto, Marcus fornisce le prove alla giornalista, la giornalista convince un reparto di poliziotti buoni che il DHS ha esagerato, i cattivi del DHS di San Francisco sono arrestati. Non mi piace questo finale per due motivi: il primo è che tale finale non è tecnologico. Durante l’intero romanzo è costantemente sottolineato come nel futuro prossimo l’informatica diventerà sempre più cruciale per la vita di ognuno, e come questo fatto possa portare benefici a una società consapevole (o come minimo a un gruppo d’individui esperti), ma alla resa dei conti la soluzione è affidata non a una rete di computer bensì alla classica “raccomandazione”. Se la mamma di Marcus non fosse stata amica della giornalista, Marcus, con tutto il suo agitarsi e la sua abilità di hacker, sarebbe finito a Guantanamo, e fine della storia. Il secondo motivo è che è un finale falso. Non è del tutto inverosimile, la catena degli avvenimenti ha una sua logica, la giornalista non è un Deus ex Machina, e tuttavia il finale stride terribilmente non l’atmosfera da 1984 che si respira in molte pagine. Non dico che Little Brother sarebbe dovuto finire male come 1984, ma certo il lieto fine, così come avviene, puzza non poco. Anche il racconto lungo After the Siege, secondo me uno degli scritti migliori di Doctorow, soffriva di questo problema, con un happy ending molto in contrasto con lo svolgimento precedente. C’è poi l’ipotesi “complottista”: solo in apparenza Little Brother sarebbe un romanzo “rivoluzionario”, con il suo appello alla lotta, in realtà sarebbe un’arma del Potere. Farebbe credere gli aspiranti sovversivi che si possono fidare di altri, che la mamma o il giornalista o il poliziotto “buono” possono aiutarli. Ma nello scenario dipinto da Doctorow – diretta evoluzione della situazione attuale – quasi sicuramente o la mamma o il giornalista o il poliziotto lavorano per il DHS! Non fidatevi di nessuno!
Oltre a tale difetto soggettivo, ci sono altri problemi, più oggettivi. Il primo è l’inforigurgito. Troppo spesso Marcus sfuma in secondo piano e la sua voce è sostituita da quella di Doctorow, intento a spiegare le meraviglie dell’informatica. Lo fa con entusiasmo e competenza, e il più delle volte scegliendo i momenti opportuni, tuttavia ci sono degli scivoloni davvero brutti. Mettersi a chiarire il perché e il percome del DNS (Domain Name System) nel bel mezzo di una delle scene più di tensione del romanzo è un errore da dilettante.
Un altro punto debole sono i personaggi. Il protagonista è caratterizzato in maniera incostante. Per un certo verso interpreta il ruolo stereotipato dell’hacker mezzo genio, però Doctorow deve aver pensato che un personaggio del genere sarebbe alla lunga risultato fastidioso e dunque il nostro eroe ha periodici cali del Quoziente Intellettivo. Può anche aver influito il desiderio di Doctorow di mostrare che le attività di Marcus non sono esclusive dei cervelloni, ma volendo sono alla portata di tutti. C’è una pagina apposita, questa, dedicata a illustrare in dettaglio alcune delle tecniche del romanzo (“w1n5t0n” – winston – chiaro riferimento a 1984, è il nick di Marcus).
Nel complesso Marcus non risulta tanto simpatico, però affascina abbastanza da voler scoprire quanto prima come si concluderà la sua storia.
Altri personaggi ben delineati non ve ne sono. Il maggior numero di pagine è dedicato ad Angela (Ange), l’amore italo-americano di Marcus. Ange è la classica figura femminile dei film d’azione hollywoodiani: ha solo uno scopo decorativo.
I “cattivi”, anche quando vengono chiamati per nome, rimangono nel generico. Il che però è accettabile, dato che il vero nemico non è il singolo agente di polizia o insegnante o collaboratore del Presidente, ma il “sistema” e la mentalità che incarna.
Lo stile di Doctorow è molto semplice, alle volte piatto (contando che la storia è narrata in prima persona e perciò dovrebbe essere sempre “filtrata” dagli occhi di Marcus), però non è mai noioso e le scene movimentate sono rese al meglio. A parte i termini tecnici (per altro spiegati fin troppo), è un inglese senza fronzoli, quasi elementare. Da quando ho cominciato a leggere in lingua originale è forse questo il romanzo di più facile lettura che ho incontrato. Lo consiglierei a chi voglia cominciare con la narrativa di genere in inglese.
Finora ho elencato solo difetti, più o meno gravi. È il caso di ribadire i pregi: appassionante, si legge tutto d’un fiato; verosimile (a parte quanto detto nello spoiler sul combattimento), scenario futuristico, sue implicazioni, e l’agire dei personaggi è credibile; interessante, Doctorow è bravo a suscitare curiosità riguardo a temi che a prima vista appaiono noiosi; infine è una storia intelligente.
Non è un capolavoro come 1984 e neanche un 1984 per ragazzi, ma almeno è qualcosa di più sofisticato rispetto a Marta che deve rubare il ciondolo magico dell’Orco Filiberto per salvare il Reame di Zuppolandia.
Strategia del Colpo di Stato
Dicevamo, siete un diciassettenne che ha deciso di rovesciare le istituzioni dello Stato, come procedere? Il primo passo è documentarsi (esatto, sia per organizzare rivoluzioni, sia per scrivere romanzi fantasy, per prima cosa è bene documentarsi). Una rapida ricerca su Internet permette di scoprire che sono appena un paio i testi fondamentali in questo ambito: Technique du coup d’état (1931) di Curzio Malaparte e Coup d’État: A Practical Handbook (1968) di Edward Luttwak.
Copertina di Tecnica del colpo di Stato
Copertina di Coup d’État: A Practical Handbook
Il saggio di Malaparte è stato tradotto in italiano nel 1948 con il titolo Tecnica del colpo di stato. È stato di recente (2002) ripubblicato da Mondadori. Il libro di Luttwak è stato tradotto nel 1983 ed è uscito per Rizzoli con il titolo: Strategia del colpo di Stato. Manuale Pratico. Questa edizione italiana si basa però non sul testo del 1968 ma su quello riveduto e corretto del 1979. Se per caso strano non si dovessero già possedere tali classici, emule e biblioteche possono facilmente sopperire alla mancanza.
* * *
Innanzi tutto, perché il colpo di Stato? Lascio la parola alla prefazione della prima edizione inglese di Coup d’État:
As the events in France of May 1968 have shown yet again, insurrection, the classic vehicle of revolution, is obsolete. The security apparatus of the modern state, with its professional personnel, with its diversified means of transport and communications, and with its extensive sources of information, cannot be defeated by civilian agitation, however intense and prolonged. Any attempt on the part of civilians to use direct violence with improvised means will always be neutralized by the efficiency of modern automatic weapons; a general strike, on the other hand, can temporarily swamp the system, but cannot permanently damage it, since in a modern economic setting, the civilians will run out of food and fuel well before the military, the police, and allied organizations. The modern state is therefore practically invulnerable to a direct assault. Two alternatives remain: guerrilla warfare and the coup d’état.
Questo è un punto fondamentale, che già faceva notare anche Malaparte. Se davvero si hanno tendenze estremiste, tali che l’unica soluzione ai problemi della Nazione appare una svolta radicale (non importa di che colore politico), scendere in piazza a sfasciare vetrine non serve a niente. Rimangono solo due alternative: la guerriglia e il colpo di Stato. La guerriglia è faccenda molto lunga e sanguinosa, e richiede perciò risorse che difficilmente avremo. Invece il colpo di Stato è alla portata di tutti! Infatti il colpo di Stato sfrutta le infrastrutture e le forze di sicurezza dello Stato stesso per la sua attuazione (infrastrutture e forze di sicurezza che potremo in seguito smantellare o modellare a nostro piacimento, una volta preso il potere). Il colpo di Stato prevede il reclutamento di un numero molto limitato d’individui (di solito un certo numero di ufficiali dell’esercito) e si basa sulla sorpresa, la rapidità e la decisione d’intervento. Per molti versi è una sorta di bluff: con la nostra azione repentina daremo l’impressione di avere sotto controllo la situazione, faremo credere che lo Stato è stato sovvertito e che siamo i nuovi, legittimi padroni. Se riusciremo in questo intento, la buona parte delle istituzioni passerà da sola dalla nostra parte, piuttosto che cercare di combatterci (e avere facile vittoria, ma non lo sanno!) Si sono realizzati colpi di Stato in ogni angolo del globo con forze esigue e senza colpo ferire! Infatti se la nostra dimostrazione di forza sarà abbastanza “spettacolare”, potremo prendere il potere senza alcun spargimento di sangue. Questo anche perché le moderne forze armate sono efficaci ma fragili: un cacciabombardiere ha una terribile potenza di fuoco, ma richiede tutta una serie d’infrastrutture perché tale potenza possa essere usata. Il che vuol dire che può bastare un solo nostro complice presso la torre di controllo di una base dell’aeronautica militare, per bloccare il decollo di tutti gli aerei lì stazionati. E non importa che tale opera di sabotaggio abbia solo effetti temporanei: noi abbiamo bisogno di appena poche ore, al termine delle quali saremo i nuovi (apparenti) padroni dello Stato. La gente ci pensa due volte prima di bombardare il Presidente!
Realizzare un colpo di Stato è semplice. Luttwak spiega in maniera chiara i passi necessari. Le varie fasi sono le seguenti:
Identificare gli obbiettivi. Elencare tutti i servizi e i punti vitali dello Stato che occorre occupare o neutralizzare. Aeroporti, stazioni, centrali elettriche, sedi di televisioni, radio, giornali, gli uffici centrali della polizia o di altri enti di sicurezza e ovviamente i centri del governo (con l’avvertenza che occorre concentrarsi sui reali centri di potere: il palazzo presidenziale può esserlo, ma forse è invece solo una struttura simbolica, che potremo conquistare in un secondo tempo).
Obbiettivo simbolico: Palazzo del Quirinale
Identificare chi potrebbe ostacolarci. Di sicuro le formazioni dell’esercito che stazionano presso gli obbiettivi, ma potrebbe entrare in gioco anche la polizia, se particolarmente addestrata e ben armata, o i sindacati o altre organizzazioni sociali o politiche. I nostri nemici, coloro che si oppongono a una nuova Nazione più Giusta e Gloriosa, possono essere tanti e diversi. Bisogna elencarli e ordinarli per pericolo immediato (questo è importantissimo: come si diceva il colpo di Stato è questione di ore, perciò i nemici più insidiosi non saranno tanto quelli meglio armati o numerosi, ma quelli che hanno più possibilità d’intervento rapido), quindi stabilire come possano essere neutralizzati. Come accennato, un singolo tecnico può mettere in crisi un’intera unità militare, un esponente politico particolarmente abile e in grado di coagulare intorno a sé una resistenza si può pensare di rapirlo, altre organizzazioni possono essere paralizzate dalla semplice interruzione delle telecomunicazioni.
Reclutare il personale necessario. Ora che sappiamo quel che dobbiamo fare, sappiamo anche di chi abbiamo bisogno. Quanti reparti dell’esercito devono schierarsi dalla nostra parte, quanti tecnici e personale specializzato sono richiesti, ecc. A seconda delle situazioni, questo può essere il secondo passo invece del terzo: possiamo in un primo momento pensare al reclutamento e poi regolarci in base ai risultati. Se la buona parte delle forze armate si rivelano felici di aiutarci, potremo cambiare i nostri piani di conseguenza. Però, altra regola vitale, è meglio rimanere in pochi, o meglio lo stretto necessario. Più i cospiratori aumentano, più è difficile mantenere la segretezza (la sorpresa è la nostra arma numero uno, non possiamo rinunciarvi in nessun caso), e più sorge il rischio di un colpo di Stato nel colpo di Stato: ufficiali ambiziosi potrebbero approfittare del caos creato dal nostro tentativo d’insurrezione per portare a termine il loro.
Preparare piani dettagliati. Uno dei vantaggi del colpo di Stato è che non richiede né comunicazione, né centro di comando. L’azione è così rapida che non è possibile cambiare tattica: o il piano riesce o non riesce. In nessun momento avremo bisogno di dare ordini o comunicare con le varie squadre assegnate agli obbiettivi: le squadre devono seguire i piani, se i piani si rivelano inadeguati falliremo, ma non c’è alternativa. Non c’è tempo per elaborare nuovi piani. Perciò il lavoro dev’essere accurato e minuzioso. Dev’essere posta particolare enfasi sulla coordinazione: una squadra che agisse con anticipo o con ritardo potrebbe mandare a monte l’intero progetto.
Agire! In una notte fatale i nostri uomini strapperanno lo Stato dalle mani di governanti imbelli e corrotti e avvieranno la Nazione verso una nuova era di splendore! La prima mossa, giunti al potere, è ovviamente imporre il coprifuoco, chiudere giornali e stazioni televisive non sotto il nostro diretto controllo, bloccare le comunicazioni mobili e l’accesso a Internet, occupare le sedi dei partiti, dei sindacati e altre organizzazioni analoghe. Seguirà comunicato nel quale chiariremo che siamo stati costretti all’azione, costretti dall’amore che proviamo per il nostro Paese e il suo popolo. Spiegheremo che la debole resistenza delle forze illiberali e reazionarie appoggiate da nemici esteri è già stata vinta e spergiureremo che al più presto indiremo nuove elezioni (o abbasseremo le tasse o qualcosa del genere. Ogni promessa o minaccia che ci faccia guadagnar tempo è buona).
Questo in linea generale, per istruzioni più dettagliate rimando all’ottimo libro di Luttwak. Da sottolineare che il colpo di Stato è affare prettamente tecnico-militare. Considerazioni ideologiche o filosofiche sono superflue. Si può essere di estrema sinistra, estrema destra o qualunque via di mezzo e le operazioni da svolgersi sono le medesime. Anzi, può diventare un ostacolo l’ideologia se per esempio ci fa credere che la collaborazione o anche solo l’appoggio delle masse popolari sia richiesto o desiderabile. Non è così. Dal punto di vista operativo la folla è inutile e anzi dannosa, perché una sollevazione popolare viola quei principi di segretezza e rapidità d’azione che sono alla base del nostro piano. Non è un concetto di Luttwak, né nuovo. Nel primo capitolo del suo bellissimo libro, Malaparte riporta un dialogo fittizio (ma basato su precisi documenti) fra Lenin e Trotsky alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre. Lenin ha una visione strategica dell’azione di là da venire, e ipotizza piani grandiosi con scioperi, scontri, insurrezioni, e cataclismi vari. Trotsky è scettico: per sovvertire lo Stato non c’è bisogno di niente di ciò, basta un migliaio di uomini ben addestrati e che abbiano chiari i loro obbiettivi. Trotsky sceglie e organizza tale contingente e i suoi piani sono attuati con pieno successo.
Trotsky arringa la neonata Armata Rossa
Non solo, per Trotsky in qualunque paese dell’Europa Occidentale si potrebbe portare a termine un colpo di Stato seguendo le sue tattiche, indipendentemente dall’appoggio della popolazione. Lo stesso vale per Mussolini: secondo Malaparte la presa del potere da parte del Duce non è tanto legata alla situazione sociale e politica italiana, quanto all’applicazione di una serie di principi e tattiche ben precisi, principi e tattiche che possono essere riutilizzati senza problemi anche in altri e diversi contesti. In sostanza, Malaparte e Luttwak concordano: sovvertire lo Stato (o difendere lo Stato) è un problema meramente tecnico, senza nessuna particolare colorazione politica o ideologica.
Torniamo adesso al romanzo di Doctorow. Alla luce dei saggi di Malaparte e Luttwak è credibile un colpo di Stato in America? Per me sì. Anzi, la dipendenza delle forze di sicurezza americane dagli apparati informatici rende tali forze un bersaglio particolarmente facile. Marcus ha solo bisogno di reclutare pochi uomini, il resto può neutralizzarlo a distanza via rete. Peccato non l’abbia fatto! Sarà per un prossimo romanzo…