On Fairy Stories
Non ho una gran stima per Il Signore degli Anelli, l’ho trovato un romanzo noioso e con una storia banale. Però è forse il singolo romanzo fantasy che ha avuto più influenza sul genere. Perciò ho voluto approfondire da quali idee sia partito Tolkien per scrivere la sua opera.
Lo stesso Tolkien illustra alcune di queste idee nel saggio On Fairy Stories. Pubblicato per la prima volta nel 1947 insieme ad altri saggi nel volume Essays presented to Charles Williams, è stato poi ristampato nel 1966 insieme al racconto Leaf by Niggle nel volume Tree and Leaf (titolo italiano: Albero e Foglia).
Copertina di Albero e Foglia
Il saggio di Tolkien si può dividere in tre parti. È spiegato cosa Tolkien intenda per “fairy stories”, è tracciata una breve storia delle stesse, e infine Tolkien spiega quelle che per lui sono le caratteristiche fondamentali delle fairy stories.
Cosa si intende per fairy stories (o fairy tales)? Il significato letterale sarebbe di storie, racconti che parlino di fate. Già al tempo della stesura del saggio, il significato di ‘fata’ era simile a quello che gli viene attribuito comunemente oggigiorno: creaturina dotata di poteri magici, poteri che possono essere usati per scopi malvagi o benigni. Tuttavia Tolkien contesta questa definizione, per Tolkien una fairy story è tale non tanto per la presenza o meno di fate, ma piuttosto per l’ambientazione della storia stessa.
[...] for fairy-stories are not in normal English usage stories about fairies or elves, but stories about Fairy, that is Faerie, the realm or state in which fairies have their being. Faerie contains many things besides elves and fays, and besides dwarfs, witches, trolls, giants, or dragons: it holds the seas, the sun, the moon, the sky; and the earth, and all things that are in it: tree and bird, water and stone, wine and bread, and ourselves, mortal men, when we are enchanted.
Perciò una fairy story è un racconto, una narrazione, che si svolge nel “regno fatato”, Faerie; tale regno può avere tra i suoi abitanti anche quelle che noi intendiamo come fate, ma non è la presenza o l’assenza di fate a designare una fairy story.
Piccola digressione. Non molti anni prima di Tolkien, un altro celeberrimo scrittore, probabilmente anche più famoso dello stesso Tolkien, si era occupato di fairy stories. Sto parlando di Sir Arthur Conan Doyle, l’autore delle storie di Sherlock Holmes e del professor Challenger. Solo che Doyle si era convinto che le fairy stories non fossero fiabe, bensì resoconti basati su fatti realmente accaduti. Dopo aver preso visione di alcune foto scattate nel 1917 presso il villaggio di Cottingley, Doyle si era convinto che fate e gnomi esistessero davvero. Nel 1922 scrisse anche un saggio sull’argomento The Coming of the Fairies, nel quale appunto è sostenuta la tesi della reale esistenza del Piccolo Popolo.
Le foto sono da considerarsi fotomontaggi e la critica è concorde nel ritenere che la deriva di Doyle verso spiritualismo e teosofia sia in buona parte dovuta alla depressione seguita alla morte, nel giro di pochi anni, di moglie, figlio, fratello, due cognati e due nipoti(!). Ciò nonostante fa uno strano effetto pensare che il “papà” di Sherlock Holmes possa farsi ingannare da foto tanto palesemente false. O forse Doyle sapeva qualcosa che noi non sappiamo…
The Coming of the Fairies rimane una lettura consigliata per tutti gli amanti del fantasy, se non altro per il gran numero di fatti, particolari e aneddoti strani che contiene. |
Non tutti i regni che sembrano fatati però lo sono: Tolkien in particolare sottolinea due elementi che rendono Faerie tale.
Prima elemento. Faerie non può essere fisicamente raggiungibile. È un regno del tutto al di fuori dalla percezione umana, esiste in una dimensione esterna al mondo che conosciamo e ci si può arrivare solo mediante l’immaginazione, guidata dal racconto. Un romanzo di viaggi può portare i protagonisti agli angoli più remoti e inesplorati del mondo, a contatto con creature e bizzarrie che possono ricordare Faerie, ma finché il viaggio è presentato come possibile, “concreto”, la destinazione non può mai essere Faerie.
I viaggi di Gulliver: niente Faerie, circolare!
Secondo elemento. Faerie, benché irraggiungibile, dev’essere non di meno assolutamente reale. Tolkien chiarisce che per esempio i mondi raggiunti in sogno, pur potendo apparire esternamente come Faerie, non lo sono, proprio perché non reali. Il Paese delle Meraviglie di Alice nel Paese delle Meraviglie, non èFaerie.
Alice nel Paese delle Meraviglie: niente Faerie, neanche qui!
È da notare però che il secondo elemento nasce dal fatto che Tolkien attribuisce un ben preciso scopo alle fairy stories. Per questo, perché devono servire a uno scopo devono apparire al lettore come “vere”, se il lettore le potesse considerare solo mera illusione o appunto sogno, potrebbe anche considerare tale il messaggio, il significato che vogliono esprimere. Implicitamente qui Tolkien nega anche che uno scenario “onirico” o un’ambientazione particolarmente strana possa essere resa verosimile.
Perciò, il primo passo per un autore che voglia scrivere fairy stories (o per usare il termine moderno, “fantasy”) è creare Faerie, creare il regno fatato che sarà l’ambientazione. Non esiste fantasy senza Faerie per Tolkien e questo (disgraziato) concetto è rimasto in fin troppi autori. In particolare è rimasto molto il primo elemento, l’idea che il fantasy possa essere solo ambientato in un qualche luogo lontano del tutto esterno e separato dal nostro mondo.
Invece la “parte buona” del secondo elemento è spesso trascurata dagli stessi emuli di Tolkien. La “parte buona” è appunto la verosimiglianza. La creazione di Faerie (o Sub-creazione di un Mondo Secondario, nei termini di Tolkien) deve obbedire alla logica e alla ragione. Ogni “meraviglia” presente in Faerie, deve essere puntellata da abbastanza elementi “reali” da rendere il complesso verosimile. Tolkien arriva a dire che se il lettore deve ricorrere alla “sospensione volontaria dell’incredulità”, il narratore ha sbagliato. Il lettore dev’essere così immerso nel Mondo Secondario, dev’essere così verosimile tale Mondo, da poter essere ritenuto credibile senza alcun atto volontario di sospensione.
Anyone inheriting the fantastic device of human language can say the green sun. Many can then imagine or picture it. But that is not enough—though it may already be a more potent thing than many a “thumbnail sketch” or “transcript of life” that receives literary praise.
To make a Secondary World inside which the green sun will be credible, commanding Secondary Belief, will probably require labour and thought, and will certainly demand a special skill, a kind of elvish craft. Few attempt such difficult tasks. But when they are attempted and in any degree accomplished then we have a rare achievement of Art: indeed narrative art, story-making in its primary and most potent mode.
Tutti sono capaci di parlare del sole verde, ma renderlo verosimile è lavoro lungo e difficilissimo. O in termini più “terra terra”: tutti sono capaci di scrivere ogni qualunque sciocchezza che passi per la capoccia, ma renderla credibile, degna di una fairy story, di un fantasy, è compito arduo (e che richiede talento non comune).
Tra l’altro Lovecraft, pur partendo da premesse diversissime, arriva a conclusioni simili nelle Notes on Writing Weird Fiction. Scrivere fantasy sembra facile, perché una certa dose di fantasia o di capacità di giocare con le parole è comune a tutti, ma quello è solo l’inizio, lo scopo è rendere tali fantasie credibili, verosimili. Talmente credibili che appunto non ci sia neanche bisogno della sospensione volontaria dell’incredulità. Altro che alzate di spalle davanti a incongruenze ed errori, con la scusa che “tanto è fantasy”!
Non dite più: “tanto è fantasy!!!” o lo Shoggoth s’imbizzarisce!
Un punto che mi ha lascito perplessa, constata questa ricerca di Tolkien della verosimiglianza, è la sua insistenza con il primo elemento, ovvero l’estraneità spazio-temporale di Faerie. Tolkien appare così convinto di questa proprietà di Faerie da non rendersi conto che non è così per altri autori o critici. Per esempio viene in un paio di punti citato il romanzo di H.G. Wells La Macchina del Tempo. Secondo Tolkien la Terra dell’anno 802.701 con i suoi Eloi e Morlock è così lontana (“far away in an abyss of time so deep”) da poter volendo essere considerata Faerie, ma:
This enchantment of distance, especially of distant time, is weakened only by the preposterous and incredible Time Machine itself.
Tolkien non pare cogliere che il Mondo Secondario di Wells non è la Terra nel 1895, nel 802.701 o 30 milioni di anni nel futuro (alla fine del romanzo), ma un Mondo nel quale il Tempo è considerato come dimensione razionalmente gestibile, quali lo sono le tre spaziali. E questo Mondo Secondario, con la sua “incredibile” Macchina del Tempo, è tanto verosimile da essere vero!
Copertina di un’edizione de La Macchina del Tempo
Allo stesso modo, Lovecraft consiglia di far filtrare pian piano il “fantastico” nel nostro di mondo, proprio per cercare di rendere il complesso il più verosimile possibile. Eppure Tolkien non pare tollerare questa “mescolanza” di mondi: il Mondo Secondario dev’essere reale, ma separato.
E qui credo finisca la parte interessante (e anche utile) del saggio. Quando Tolkien comincia a cianciare degli scopi del fantasy l’influenza delle sue credenze religiose e dei suoi pregiudizi ottenebrano qualunque idea sensata.
Tolkien non solo era un fervente cattolico, ma uno strenuo oppositore dell’industrializzazione, al punto, per esempio, da spostarsi sempre e solo in bicicletta e disdegnare le automobili. E da qui forse nasce l’esigenza di Faerie di essere così lontana: non c’è niente di buono nel mondo moderno, e nelle sue creazioni.
The electric street-lamp may indeed be ignored, simply because it is so insignificant and transient. Fairy-stories, at any rate, have many more permanent and fundamental things to talk about. Lightning, for example.
È questa è stata una tragedia per il fantasy! Perché nella mente offuscata di Tolkien può essere che nei lampi ci sia qualcosa di permanente e fondamentale, che le “meraviglie” della Natura siano davvero meraviglie, ma non lo sono! È un ripiegarsi della fantasia su se stessa, il rifiutare l’immaginazione, non è creazione. Tolkien parla tanto di creare, ma il suo è un desiderio di distruggere, se lo augura persino, per quanto lui stesso creda sia improbabile: “[il lettore] he might rouse men to pull down the street-lamps.”(!)
E dopo aver abbattuto i lampioni, si prenderanno a martellate i telai!
Infatti Faerie non può essere Trantor, ma Faerie può non avere niente di “fatato” ed essere il trionfo dell’arcaismo(sic).
I do not think that the reader or the maker of fairy-stories need even be ashamed of the “escape” of archaism: of preferring not dragons but horses, castles, sailing-ships, bows and arrows; not only elves, but knights and kings and priests. For it is after all possible for a rational man, after reflection (quite unconnected with fairy-story or romance), to arrive at the condemnation, implicit at least in the mere silence of “escapist” literature, of progressive things like factories, or the machine-guns and bombs that appear to be their most natural and inevitable, dare we say “inexorable,” products. [...] The maddest castle that ever came out of a giant’s bag in a wild Gaelic story is not only much less ugly than a robot-factory, it is also (to use a very modern phrase) “in a very real sense” a great deal more real. Why should we not escape from or condemn the “grim Assyrian” absurdity of top-hats, or the Morlockian horror of factories?
Anche il sentimento che traspare al termine della citazione è rimasto in molto del fantasy attuale, nei lettori e negli scrittori: l’orrore di qualunque particolare tecnologico o industriale nell’ambientazione (anche a dispetto del fatto che più spesso che no tali particolari potrebbero giovare alla verosimiglianza).
* * *
These prophets [gli scrittori di fantascienza] often foretell (and many seem to yearn for) a world like one big glass-roofed railway-station. But from them it is as a rule very hard to gather what men in such a world-town will do.
Cosa faranno mai gli uomini del futuro in una città protetta da una cupola di acciaio e vetro? Be’, magari passeranno il tempo libero a scrivere un articolo su Tolkien, articolo che potrà essere a disposizione di decine di milioni di persone grazie alle meraviglie della tecnologia…
It was in fairy-stories that I first divined the potency of the words, and the wonder of the things, such as stone, and wood, and iron; tree and grass; house and fire; bread and wine.
Le meraviglie (wonder) delle pietre, del legno, del ferro, degli alberi e dell’erba… per piacere, no! Non sono meraviglie, sul serio, sono meraviglie solo per un luddista che gira in bicicletta! Appello agli scrittori o aspiranti tali: non scrivete di pietre, erba e alberi, è la strada maestra per la Noia! Grazie.
Un sasso… che meraviglia!
Perciò abbiamo già il primo scopo del fantasy per Tolkien: consentire un tuffo in un passato più o meno “fatato” che è “meraviglioso” per l’assenza di qualunque progresso tecnologico.
Il secondo scopo è la “consolazione”. Nel nostro mondo non sempre le storie hanno un lieto fine, non sempre, anzi molto spesso, non è la giustizia a trionfare. Ma in Faerie ?
Faerie è senza il rumore delle fabbriche, è senza automobili e senza bombe e senza mitragliatrici (e senza antibiotici, telefoni, stampa, ecc.); potrebbe essere anch’esso un mondo ingiusto? No! Deve risultare chiaro dal contrasto quanto il nostro mondo è corrotto. Per questa ragione uno scrittore deve mettere il lieto fine alle sue storie fantasy!
Far more important is the Consolation of the Happy Ending. Almost I would venture to assert that all complete fairy-stories must have it. At least I would say that Tragedy is the true form of Drama, its highest function; but the opposite is true of Fairy-story. Since we do not appear to possess a word that expresses this opposite—I will call it Eucatastrophe. The eucatastrophic tale is the true form of fairy-tale, and its highest function.
The consolation of fairy-stories, the joy of the happy ending: or more correctly of the good catastrophe, the sudden joyous “turn” (for there is no true end to any fairy-tale): this joy, which is one of the things which fairy-stories can produce supremely well, is not essentially “escapist,” nor “fugitive.” In its fairy-tale—or otherworld—setting, it is a sudden and miraculous grace: never to be counted on to recur. It does not deny the existence of dyscatastrophe, of sorrow and failure: the possibility of these is necessary to the joy of deliverance; it denies (in the face of much evidence, if you will) universal final defeat and in so far is evangelium, giving a fleeting glimpse of Joy, Joy beyond the walls of the world, poignant as grief.
Purtroppo c’è un enorme problema: se tutti i fantasy devono avere Happy Ending, ci saranno o fantasy con finale forzato, o fantasy banali. La Gioia (e non indago sulla maiuscola) non compensa per una storia forzata o banale!
Il “bello” è che questo ideale di fantasy quale rifugio in un passato felice era già oggetto di ridicolo ben prima di Tolkien. Un Americano alla Corte di Re Artù di Mark Twain, del 1889, già si prende gioco dell’idea tolkeniana della Cavalleria e del mondo pre-industriale visto come glorioso, nobile e giusto. Per non parlare del Don Chisciotte !
Credo che un passaggio dal Don Chisciotte illustri in maniera chiara i rischi di troppa letteratura fantasy in stile Tolkien, grondante illusori ideali cavallereschi:
Insomma, tanto s’impigliò nella cara sua lettura che gli passavano le notti dalle ultime alle prime luci e i giorni dall’albeggiare alla sera, a leggere. Cosicché per il poco dormire e per il molto leggere gli si prosciugò il cervello, in modo che venne a perdere il giudizio.
Don Chisciotte, rincitrullito dai libri di cavalleria, deciderà di farsi cavaliere errante, a Tolkien piacerebbe che i lettori di fantasy scendessero nelle strade a sradicare i lampioni: non vi riducete così, Don Chisciotte era pazzo!
Don Chisciotte nell’atto di prosciugarsi il cervello (illustrazione di Gustave Doré)
Al termine del saggio vi è un Epilogo nel quale Tolkien mette esplicitamente in relazione il fantasy e la religione cristiana. Forse tale relazione avrà senso per un credente, ma per me che non ho tale fede sono solo farneticazioni.
In conclusione, penso che le idee di Tolkien siano pessime idee. Se si esclude la ricerca della verosimiglianza, tutto il resto per me non ha alcun valore. Il fatto che un Mondo Secondario sia per forza discontinuo al nostro non m’interessa ed è solo un artificioso limitare la fantasia dello scrittore, così come l’esclusione dell’onirico, del surreale, dell’immaginario nell’immaginario; evitare come la peste industrializzazione e tecnologia è ancora un’altra limitazione forzata che non porta ad alcun vantaggio; far credere che il “meraviglioso” esista anche (o peggio soprattutto) nei sassi o nei fili d’erba è al limite del disonesto; imporre il lieto fine è folle.
Una piccola nota finale che mi ha divertita: Tolkien si dà un gran daffare a dimostrare la superiorità dello strumento letterario nella creazione di fairy stories, superiorità rispetto all’inadeguatezza dei mezzi tecnici del teatro… non gli viene neanche in mente che hanno inventato il cinema!
Approfondimenti:
J.R.R. Tolkien su Wikipedia
Il sito della The Tolkien Society
Una recensione di On Fairy Stories presso tolkien-online.com
Albero e foglia su iBS.it
Arthur Conan Doyle su Wikipedia
Un resoconto sulla vicenda delle Fate di Cottingley
The Coming of the Fairies disponibile online
Il sito della Società Teosofica Americana
Alice’s Adventures in Wonderland disponibile online presso FeedBooks
Gulliver’s Travels disponibile online presso FeedBooks
The Time Machine disponibile online presso FeedBooks
Notes on Writing Weird Fiction disponibile online
Le illustrazioni di Gustave Doré
Scritto da Gamberetta •
Gamberolink •
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