Speciale: I Dolori della Giovane Laura

 

Chiara


INDICE

 

Capitolo I

 

Capitolo II

 

Capitolo III

 

Capitolo IV

 

Capitolo V

 

Capitolo VI

 

Capitolo VII

 

Capitolo VIII

 

Capitolo IX

 

Epilogo

 


 

Capitolo I: Ospiti

 

 

Laura spinse il portone con un piede e, prima che il battente si richiudesse, fu svelta a entrare. Teneva le braccia larghe, per evitare che le gabbiette che reggeva in entrambe le mani le sbatacchiassero contro i fianchi. Si muoveva con circospezione, quasi in punta di piedi, attenta a non far rumore: il portinaio sonnecchiava beato nel gabbiotto, meglio non svegliarlo.

Giunta all’ascensore, si accorse che stava scendendo. Come per il portinaio, preferiva evitare di attirare l’attenzione: imboccò le scale. Passando accanto alla porta della signora Salici, al secondo piano, arrossì. Si vergognava come una ladra. Perché era una ladra! Dovette ripetersi che non c’era altra scelta, che era per il superiore bene comune, che il fine giustifica i mezzi e che lo stupidissimo cagnolino yorkshire della Salici l’aveva morsicata tre volte in due mesi.

—  Te lo sei meritato — sussurrò rivolta alla gabbietta di destra. In risposta, da sotto il panno nero, giunse solo un mugolio soffocato.

Diverso era il discorso per il pappagallo del signor Ortani, seconda vittima della battuta di caccia. Il signor Ortani era professore di matematica al Liceo: era stato lui a scegliersi quel mestiere, avrebbe dovuto sapere che l’Odio del prossimo l’avrebbe accompagnato per il resto dell’esistenza! Non le sembrava ci fosse niente di più naturale che detestare i professori, quelli di matematica in particolare.

Posò le gabbiette sul pianerottolo davanti alla porta di casa. Suonò il campanello, invano. L’Oscuro Signore doveva essere ancora alla convention dei fanatici di Evil Age: Tower Assault!, il MMORPG cui pareva aver consacrato l’esistenza. Sempre che non avesse in realtà interesse per quell’idiota patentata della Marissa21, la Strega. Lei e il suo avatar da troietta fantasy, con quegli occhi color blu allucinazione, grandi come il fondo di una tazza per il caffelatte, gli stupidi capelli viola, le ali luccicanti e quel visino da fatina, con impresso indelebile il più cretino dei sorrisi. Una vera fatina avrebbe avuto una crisi glicemica solo a guardarla!

Si strinse nelle spalle. A una delle prossime convention avrebbe partecipato anche lei, avrebbe incontrato Marissa21 di persona e l’avrebbe sbudellata. Fine del problema.

 

Sistemò le gabbiette sul tavolo in soggiorno. Dallo studio proveniva ogni sorta di rumori e schiamazzi, come ci si aspetterebbe da un branco di bambini lasciati soli in un negozio di giocattoli. “Non che ci siamo molto lontani” pensò, entrando nella stanza. Sollevò la tapparella, e l’ultima luce della sera allagò il locale. Da ogni dove, occhietti neri la fissavano.

—  Siete veramente dei discoli! — esclamò.


 

Capitolo II: Caro Diario

 

 

I gargoyle anche quel giorno avevano messo a soqquadro l’appartamento. Dopo aver imperversato in bagno, in camera da letto, sul balcone e in soffitta, ora erano alle prese con lo studio. Avevano svuotato ogni cassetto, riversandone il contenuto sul pavimento, avevano rovesciato i vasi con i fiori e la pianta di tirucalli, avevano tolto i libri dagli scaffali e li avevano impilati a costruire un castello e come ultimo tocco, avevano strappato i tasti alla tastiera del PC, per rimetterli in posizione sbagliata. Lungo la seconda riga della tastiera l’innocuo QWERTY era diventato WIVAB3LZE8U.

—  Vi ho portato la cena — annunciò Laura, e subito i gargoyle la circondarono, come uno sciame di gattini volanti attorno a una ciotola di latte. Carezzò il capo di uno dei mostriciattoli, e la creatura di pietra prese a leccarle le dita, con la sua linguetta d’argilla. Malgrado i guai e i disagi dell’ultima settimana, le spiaceva proprio che i lavori di ristrutturazione alla Biblioteca dei Libri Proibiti fossero finiti: l’indomani i gargoyle sarebbero tornati all’Unico Mondo.

 

I gargoyle non si nutrivano di sola carne. Il vero nutrimento di quelle creature erano i legami empatici. Osservandoli assediare lo yorkshire della signora Salici, parve anche a Laura che dal cagnolino nascessero impalpabili filamenti, linee appena accennate sul disegno della Realtà, e che tali emanazioni strisciassero verso l’appartamento della vicina di casa. Nell’ora della morte, lo yorkshire pensava alla padrona.

Un primo gargoyle affondò i denti di granito nello stomaco dell’animale, e il sangue, invece di colare dalla ferita, prese a scorrere lungo i filamenti, come fossero tubicini. Al contempo, i sempre più miserevoli guaiti della bestiola si trasformavano da onde sonore in sostanza palpabile, simile a nebbia.

La nebbia esalava dal muso del cagnolino, intrecciandosi con il sangue in sospensione. Più di un gargoyle, appeso a testa in giù al soffitto, tendeva le zampette e le rigirava in aria, per portarsele poi alla bocca, avvolte nello zucchero filato dell’empatia. Altri gargoyle, raccolti lungo una parete, dove per forza l’empatia doveva fluire per raggiungere la Salici, si lasciavano ricoprire di cibo, per poi ritirarsi in un angolo a leccarsi, proprio come gattini.

Laura allungò un braccio. I filamenti le attraversarono la mano, e continuarono a farlo, anche quando la chiuse a pugno. Un po’ delusa, tornò in salotto a prendere il pappagallo.

 

Lo spettacolo era diventato di cattivo gusto: pappagallo e cagnolino erano stati mutilati e mangiucchiati, ma i gargoyle erano attenti a non ucciderli, per sfruttarne le emanazioni fino all’ultima goccia.

Una zampetta di pietra le offrì un occhietto, con ancora attaccato un fascio di nervi trasparenti.

—  Ehm, magari un’altra volta. — Il gargoyle annuì e ingoiò lui la prelibatezza.

Mentre i gargoyle terminavano di cenare, Laura ne approfittò per rimettere in ordine. Prese a smontare il castello di libri e a riporli al loro posto. Non erano molti, non era mai stata una gran lettrice. In buona parte erano manuali del tenore di Autostima in 30 Facili Lezioni, Ogni Persona è Speciale: TU lo sei Di Più, o Avere Successo nella Vita senza rinunciare all’Amore. C’era poi qualche romanzo che era stata obbligata a leggere ai tempi del Liceo, e l’ultimo acquisto: Guida all’Internet per Gonzi. Proprio rimettendo a posto la Guida, si accorse che tra muro e libreria era rimasto incastrato un libricino che i gargoyle non avevano toccato.

Quando riuscì a liberarlo dalla morsa di metallo dello scaffale, ebbe un tuffo al cuore. Con una mano ripulì la copertina dalla polvere, e sì, non si era sbagliata! L’aveva ritrovato! Aveva ritrovato il suo Diario! Il Diario che l’aveva accompagnata per tanti anni e che credeva di aver perso durante il trasloco nella nuova casa.

Prese a sfogliare le pagine, ingiallite dal tempo, gonfie d’umidità e sporche della vernice azzurrina dell’intonaco. Percorse rapida l’ultimo anno delle scuole medie, non aveva scritto molto, sfogliò piano la prima liceo, la seconda, la terza... alla sua scrittura un po’ squadrata si alternava quella di Lisa, molto più esuberante e adorna di stelline e cuoricini. In altre pagine appariva anche il tratto minuto di Rita: le era stata così amica, fino... fino a quella maledetta mattina dell’Incidente.

Ritrovò il giorno sul Diario. Aveva provato a descrivere l’accaduto ma non c’era riuscita. Alla fine aveva solo riempito la pagina di “Rita T.V.T.B.” e “Scusa. Scusa. Scusa.”, però Rita aveva perso l’uso dell’occhio destro e da quel momento non era stata più amica di nessuno.

Seguivano pagine coperte di nero. Aveva svuotato intere penne per stendere sul Diario quell’oscuro manto, metafora della propria Anima che veniva avvolta dalle Tenebre. O così aveva creduto.

Una pagina aveva una croce al contrario dipinta di rosso sul tappeto nero. Quello era stato il giorno della Ribellione. Quand’era scappata di casa, dopo che la mamma l’aveva rimproverata perché maneggiava la lattuga con le dita sporche d’inchiostro. Inchiostro nero.

—  Tu... tu non capisci! Non capisci! — aveva gridato. E la mamma non aveva fatto altro che alzare gli occhi al cielo e continuare come niente fosse a svuotare i sacchi della spesa. Non le era restato che fuggire.

Era corsa a casa di Lisa, che però aveva ospiti. Allora era corsa a casa di Rita, ed era stata accolta come se la loro amicizia fosse stata di nuovo salda. Forse perché ora avevano qualcosa in comune: lei ferita nell’Anima, l’amica ferita nella Carne.

Però quando Rita era uscita dalla cucina con una tazza di tè fumante in una mano e una mannaia luccicante nell’altra, era stata colta dal sospetto che l’amica volesse pareggiare anche riguardo le lesioni fisiche. Era scappata a gambe levate.

Aveva trascorso la serata alla Stazione, facendo di continuo il giro dei telefoni a gettone e delle macchinette per l’acquisto dei biglietti, nella speranza di raccattare qualche monetina di resto dimenticata. Infatti, da vera Anima nera, era fuggita spinta solo dal proprio Tormento, senza preoccuparsi del denaro!

Verso le nove e trenta aveva avuto un diverbio con un barbone, impegnato nello stesso percorso di accattonaggio; alle nove e quaranta era intervenuto un vigile urbano, alle dieci e un quarto era a casa.

Aveva rifiutato la cena con un commento sprezzante: la mamma doveva capire che se anche la Società l’aveva obbligata a tornare, non erano riusciti a piegare la sua Anima nera. La mamma l’aveva presa a schiaffi. Era corsa in camera piangendo.

Con l’arrivo dell’estate, il caldo aveva bruciato il manto nero che le aveva soffocato l’Anima. Così liberata, in lei si erano risvegliati i sentimenti più solari: desiderava amicizia, divertimento, allegria e fantasia! E riempire il Diario di fiorellini colorati.

Non molto più avanti, ai margini di una foresta di fiorellini, una pagina era strappata: il prologo de La Principessa di Magikolandia, che aveva subìto il triste destino che aveva subìto.

Nelle pagine successive spuntavano le foto dei suoi futuri amanti: un attore ormai ridotto a un’emulsione blu, i volti incorniciati da cuoricini di un gruppo rock, il fidanzato di Sailor Moon, di cui non ricordava più il nome, e nella facciata seguente, Lui. Ne accarezzò la foto con dita tremanti e ancora le parve che il cuore le battesse un po’ più forte.

Carlo Tordi la fissava dal Diario, con quello sguardo sempre colmo d’Amore e leggermente strabico.


 

Capitolo III: Una storia vera

 

 

La storia d’Amore con Carlo si dipanava tra poesie a lui dedicate, altre foto, la carta stagnola di una cicca che lui aveva appena scartato e un disegno di lei che lo baciava sotto la pioggia battente. Su indicazione di Silvia, apprendista negromante per corrispondenza, aveva attaccato alla pagina, con del nastro adesivo, una zampetta spelacchiata di coniglio, a congiungere i cuori dei personaggi disegnati. La zampa si era putrefatta e aveva imputridito le cinque, sei pagine successive.

Sulla settima pagina era incollato un biglietto del Cinema Belati, dove aveva assistito a Buffy contro Vampirella. Un secondo biglietto era appiccicato sopra il primo, a formare una ics. A chiunque le avesse chiesto, compreso il Diario, avrebbe raccontato di essere andata al cinema insieme con Carlo. Non era proprio la Verità, ma come recita l’adagio: ogni tanto una piccola imprecisione può evitare una marea di spiegazioni.

 

Si era tanto immersa nella melassa del passato, da non accorgersi che i gargoyle avevano concluso la cena. Erano tutti intorno a lei, e la scrutavano con occhietti curiosi. Qualcuno si stava ancora leccando le zampette sporche di sangue, altri si pulivano i dentini di roccia con dei chiodi da falegname.

Chiuse il Diario, tirò a sé una sedia e si rivolse ai mostriciattoli:

—  Volete ascoltare una storia? Una storia vera?

I gargoyle fecero cenno di sì con il capo.

—  Allora vi racconterò di come la più soave tra le fanciulle conobbe il più coraggioso dei Principi Azzurri, e di come il Destino provò a negar loro la Felicità e infine di come l’Amore abbia trionfato.

I gargoyle avevano assunto un’espressione annoiata.

—  È una storia piena di violenza, mostri, sangue e ci sono mutilazioni e una scena di sesso! — aggiunse, e subito tornò il sorriso sui musi delle creature.

—  Come potete immaginarvi, quando parlo della più soave tra le fanciulle, sto parlando di me stessa, ai tempi del Liceo. Invece il Principe Azzurro si chiamava Carlo, Tordi Carlo. Era un Ribelle, come... come James Dean, anzi meglio, perché James Dean avrebbe avuto tipo ottant’anni!

Un gargoyle si portò una zampetta sotto la gola e mimò di tagliarsela.

—  Non sarà mica che James Dean è morto?

I gargoyle annuirono.

—  Oh... non lo sapevo. “James Dean è morto” me lo devo segnare. — Svelta recuperò il quadernetto rosa e prese nota del triste evento.

—  Insomma il Tordi Carlo era come se James Dean fosse stato ancora vivo e giovane o come... — una carrellata d’idoli giovanili le attraversò le meningi — ...o come diciamo Lorenzo Lamas. Ecco, assomigliava un po’ a Lamas, a parte il lieve difetto agli occhi.

Un gargoyle le fece gesto con la zampetta di saltare pure i preliminari.

—  D’accordo, quanta fretta! Dunque, la prima volta che incontrai Carlo era una mattina tanto soleggiata quanto gelida. E nel mio cuore albergava la Disperazione...


 

Capitolo IV: L’ultimo arrivato

 

 

Aveva dipinto la divisa del signor Spock di nero, anche se sull’albo in quella zona era indicato il 12, che corrispondeva all’azzurro. Non lo faceva apposta: da quando, due giorni prima, aveva subito l’umiliazione di vedere il prologo de La Principessa di Magikolandia finire nel cestino della spazzatura, gli unici colori che riusciva a sopportare erano il nero e il grigio scuro, quasi nero.

La vita era un tragico balletto che si concludeva tra le lacrime degli spettatori, e il mondo era una discarica, nella quale venivano di continuo gettati i cadaveri in decomposizione di chi aveva avuto Speranza. L’aveva letto la sera prima su un sito Internet dedicato ai suicidi, prima che la mamma le staccasse la connessione, perché aveva bisogno del telefono. Figurarsi!

Calcò sulla carta con troppa foga e la penna strappò l’immagine nera del signor Spock. Le sfuggì un’imprecazione e subito quella smorfiosa dell’Elisabetta Crimoro le fece segno di star zitta e di seguire la lezione. Piccola idiota, non l’aveva ancora capito che la matematica non era che un mezzo usato dal Potere per tarpare le ali ai giovani?

Lasciò perdere il signor Spock e si dedicò a colorare lo spazio nero intorno all’Enterprise. Se c’era stato un risvolto positivo nella tragedia della Principessa, era stato che ora avrebbe potuto ignorare il signor Cosenza e la matematica per almeno un mese, fino all’inizio del nuovo giro d’interrogazioni.

Alzò il viso a inquadrare il professore. Patetico, insignificante ometto. Tutto preso a riempire la lavagna di triangoli, come se davvero quelle scemenze servissero a qualcosa. Come se davvero si potesse giudicare una persona in base al teorema di Archimede. Odiava il signor Cosenza.

Riportò l’attenzione sull’albo da colorare. Un bigliettino si era teletrasportato accanto ai motori dell’Enterprise. Lisa aveva scritto: “Che mi dici dell’ultimo arrivato?”, e di seguito era disegnato un cuoricino sbilenco.

L’ultimo arrivato si era presentato quella mattina stessa, appena trasferito da un altro Liceo. Era andato a sedersi un paio di posti avanti a lei. Aveva colto che si chiamava Ciro o Carlo o qualcosa del genere. Non aveva prestato attenzione al momento e ora poteva solo vederne la schiena, china sul libro di trigonometria. Stava chiacchierando sottovoce con quel cretino del Germano, non un buon segno. Girò il biglietto di Lisa per risponderle. “Sta chiacchierando con...”

—  Laura! Laura, se vuoi essere così gentile da venire alla lavagna.

Il signor Cosenza l’aveva chiamata alla lavagna. Un’altra volta?

—  Io, ecco...

—  Avanti, ti voglio dare la possibilità di rimediare al tre dell’altro giorno, su, forza. — Il professore aveva un gessetto tra le dita e la invitava a venirlo a prendere.

—  Non sono preparata.

—  Capisco. Uhm, impegni di Corte, immagino. — Il signor Cosenza aveva poggiato il gessetto sulla cattedra. — Però vi devo avvertire che vostro padre il Re non sarà per niente contento. — E per la seconda volta in tre giorni, l’intera classe scoppiò a ridere, a ridere di lei.

Strinse forte i pugni. Ricacciò indietro le lacrime e non lasciò che l’imbarazzo si sostituisse alla Rabbia: il signor Cosenza l’avrebbe pagata, l’avrebbe pagata cara!

—  Un’altra cosa, Laura.

—  S... sì?

—  Hai saltato gli ultimi due compiti in classe, e oggi è un altro tre. Mi sembra chiaro che occorra prendere provvedimenti e io non ho l’autorità per farlo. Perciò gradirei parlare con i tuoi genitori, ti devo segnare una nota sul diario?

—  No.

—  Bene. — Il signor Cosenza lanciò uno sguardo all’orologio sopra la lavagna. — Siamo ancora in tempo per un’interrogazione, qualche volontario?

Elisabetta alzò subito la mano.

 

Laura sgranocchiava svogliata una tortina di albicocche e carote. Le briciole si accumulavano sul banco, come la sabbia che scorre dentro una clessidra. E quella clessidra rappresentava quanto le rimaneva da vivere: un solo giorno, forse due. Il signor Cosenza aveva lezione sia il giorno successivo, sia il seguente: non avrebbe potuto rimandare di avvertire i genitori che il professore voleva parlare con loro. Il che non sarebbe stato un dramma, se non avesse già preso lei dei provvedimenti, provvedimenti poco “ortodossi”.

Aveva cominciato con il falsificare la firma della mamma, per le due giustificazioni con le quali aveva schivato i compiti in classe. Poi, per non destare sospetti, aveva recuperato un vecchio scritto, mai riconsegnato per un disguido, e gli aveva cambiato data. Già che c’era, si era pure aumentata il voto. Così era anche riuscita a convincere i suoi che era diventata responsabile e che avrebbero potuto lasciarla andare insieme con Lisa alla Mostra Internazionale del Fumetto. Una scusa pure quella: non erano andate a nessuna Mostra, invece avevano passato il fine settimana ubriache, a zonzo non si ricordava neppure dove.

—  Hai sentito?! — Gli occhioni di Lisa la fissavano meravigliati.

L’amica e quell’impicciona dell’Enrica si erano sedute sul banco vicino.

—  No, non ho sentito. — Ingoiò l’ultimo boccone di tortina.

—  Stiamo parlando di quello nuovo — intervenne Enrica. — Si chiama Carlo, Carlo Tordi e ha un rubato una moto!

—  Sai che impresa.

—  Prima ascolta perché l’ha fatto. — Lisa era scesa dal banco e le si era avvicinata, quasi a volerle sussurrare all’orecchio. — Era in ritardo per un appuntamento con la sua ragazza e non ha mica aspettato il tram, no, ha preso e rubato una moto pur di arrivare da lei!

—  Un genio!

Enrica annuì convinta: l’Ironia non aveva mai bussato alla porticina del suo cervello. — E sapete che altro?

—  No.

—  Ha una cicatrice che va dall’inguine al ginocchio. Se l’è procurata in una lotta al coltello, perché è sempre in qualche rissa. Il questore gli ha persino vietato l’ingresso allo stadio!

—  Proprio il personaggio giusto per la nostra classe: ci mancava la figura del ladro teppista di professione.

—  Non tutti possono essere nobili come voi, Principessa. — Lisa si era portata una mano alla bocca, per non scoppiare a ridere. Laura alzò il viso, ed eccolo lì il tizio nuovo, quel tal Carlo, mani sul suo banco, un sorriso arrogante sul volto e quell’atteggiamento come di chi crede d’aver già capito tutto. E invece non ha capito un emerito tubo!

—  Perché non vai a rubare un cervello?

—  Se ne avete bisogno, Vostra Grazia. — rispose lui, con tanto di finto inchino.

La Rabbia le inondò il sistema nervoso. Affondò una mano nello zaino, ma quando la ritrasse con il taglierino in pugno, lui si era già voltato. Aveva preso a chiacchierare con Lisa, a chiederle del signor Cosenza, di quando riceveva e del libro di trigonometria: non voleva rimanere subito indietro con le lezioni. Che gran bastardo!


 

Capitolo V: Le due code del gatto

 

 

Per un paio d’anni, ogni settimana, erano arrivate per posta le dispense dell’Enciclopedia Medica per la Famiglia, e Laura le aveva ignorate. Grave errore! Ora, con la necessità di dover far ammalare suo padre nel giro di cinque minuti, non sapeva quale malanno mandargli. Le serviva una malattia abbastanza grave da richiedere un ricovero, ma non troppo grave, tale da spingere a gesti inconsulti, tipo telefonate a casa di solidarietà.

“Non fa niente. Devo solo accennare all’ospedale, in modo che il signor Cosenza si renda conto di quanto sia inopportuno disturbare la mamma con stupidate quali la matematica. Poi la recita sull’impegno futuro e l’importanza dello studio e dovrei cavarmela!” Le stava spuntando il sorriso. “No, no, no! ché il papà sta male, malinconia, malinconia!”

Il signor Cosenza si fermava sempre dopo le lezioni in sala professori, sospettava per approfittare a sbafo della connessione satellitare a Internet. Come minimo scaricava immagini porno, che meraviglia se fosse riuscita a beccarlo in flagrante! Ma oggi sarebbe stato meglio attenersi al piano.

Si fermò davanti alla porta, si sfregò ben bene gli occhi, a dimostrazione di quanto la salute del papà la costringesse alle lacrime, e timidamente bussò. Nessuna risposta. Aprì la porta e sbirciò all’interno. — Permesso?

La sala era vuota, tranne che per il signor Cosenza, seduto all’unico PC. Aveva la testa china sulla tastiera e pareva addormentato. “Che razza d’idiota!” Le sarebbe toccato andare a svegliarlo o rimandare la recita al giorno seguente, ma il giorno seguente sarebbe dovuta tornare a casa presto o si sarebbe persa la puntata di Sailor Moon.

Mosse un passo verso il signor Cosenza e non si udì alcun rumore, come se avessero steso la moquette in sala professori. Abbassò lo sguardo: un tappeto vermiglio si allargava dalla sedia davanti al PC fino all’ingresso. Sollevò un piede e un filo di sangue semi rappreso colò dal tacco della scarpa. “Fantastico. Scarpe nuove, già rovinate!”

Una mano si materializzò davanti alla faccia. La mano le coprì la bocca e la spinse con forza contro la parete accanto al vano della porta.

—  Non ti muovere — le sussurrò una voce all’orecchio.

Annuì piano. — Loro di giorno non ci vedono bene come di notte, ma riescono a cogliere il movimento. Perciò non compiere movimenti bruschi, hai capito?

Annuì di nuovo. La mano che le teneva chiusa la bocca era impiastricciata di sangue e di peli bianchi e arancioni, come se quella mano avesse appena scuoiato un gatto. “E magari è pure vero!” pensò. Stava per vomitare.

—  Adesso ti lascerò andare. Muoviti lentamente. Raggiungi l’uscita di sicurezza più vicina e se ci tieni a rimanere viva, non gridare. Io sarò dietro di te.

Annuì per la terza volta e il misterioso assalitore le liberò la bocca. Inspirò a pieni polmoni e uscì dall’aula. Prese a percorrere il corridoio che portava alle scale.

Dietro di sé percepiva l’ansimare dello scuoiatore di gatti. Se la cavava bene con la corsa, se fosse riuscita a prenderlo di sorpresa...

—  Non ci provare! — Le parole dello sconosciuto tranciarono il pensiero a metà. — Se ti metti a correre il nekomata non avrà nessuna difficoltà a vederti, e stai sicura, nessuno corre più veloce di un nekomata.

—  Che cos’è un neco... un necocoso?

—  È una creatura infernale proveniente da un’altra dimensione. Somiglia a un grosso gatto con due code.

Laura si fermò. Se doveva finire scuoiata da qualche pazzoide, voleva almeno vederlo in faccia. Si girò e incrociò lo sguardo con quello strabico di Carlo.

La conversazione tra lui e Lisa di poco prima aveva assunto tutt’altro significato. Certo, dal punto di vista dello psicopatico, trucidare il professore è un buon modo per non rimanere indietro con le lezioni!

Si fiondò in avanti e iniziò a correre come una disperata, quasi avesse alle calcagna uno psicopatico assassino scuoiatore di gatti. In un lampo raggiunse le scale, scese le rampe saltando cinque gradini per volta. Si gettò contro il maniglione antipanico dell’uscita di sicurezza e appena fuori riprese a correre.

 

Appoggiò le mani contro il cofano di un’auto. Respirava a fatica. Si concesse tre secondi di pausa, prima di rialzare il viso ed esplorare con lo sguardo il parcheggio mezzo vuoto: per fortuna, non sembrava ci fosse nessuno a inseguirla.

Ancora un piccolo sforzo. Ancora un piccolo sforzo per raggiungere la fermata della metropolitana e... cominciò a elencare sulla punta delle dita: il signor Cosenza aveva tirato le cuoia, aveva conosciuto un vero psicopatico, avrebbe avuto per anni una storia stramegaemozionante da raccontare e, per chissà quanto tempo, avrebbe anche avuto una scusa subito pronta con la quale saltare la scuola. Oh, l’ultimo dito, era ancora viva! Non male per essere appena le due del pomeriggio.

Un lampo di pelo bianco le attraversò il campo visivo, prima di venire risucchiato verso l’alto. Era stato come se un orso polare al galoppo le avesse tagliato la strada.

“Tranquilla, è solo suggestione. Qualche stupida allucinazione.”

Il lampo bianco tornò giù da dov’era finito, con uno stridore di lamiere contorte. Dietro di lei, qualcosa aveva preso a ronfare.

 

Il nekomata era in piedi sopra l’auto. Unghioni ricurvi affondavano nel metallo, il pelo bianco con striature arancioni scintillava sotto il Sole, le fauci spalancate lasciavano intravvedere zanne degne di quelle di una tigre. Sangue rappreso incrostava una delle orecchie della bestia, tagliata alla radice. Due code, simili a serpenti, si agitavano inquiete.

—  Miao! — ruggì il mostro.

—  Sal... salve! — provò a rispondere Laura, arretrando di un passo.

Il nekomata si protese in avanti, le orecchie tese, le code aderenti al corpo, pronto allo scatto. Con un balzo le fu addosso.

Ma rapido come l’aveva assalita, altrettanto rapido l’aveva superata. Sentì gli artigli del mostro colpire l’asfalto dietro di lei. Quando si voltò, lo vide saltare verso Carlo.

Ragazzo appena trasferito e mostruoso felino rotolarono avvinghiati l’uno all’altro. Con orrore vide il nekomata affondare le zanne nella spalla di Carlo. Un secondo dopo però il mostro prese a guaire, e il secondo successivo, correndo su tutte quattro le zampe, scappava via.

Carlo si stava rialzando a fatica. Nella mano destra reggeva un coltello, che più di un coltello pareva un machete. Sangue di gatto brillava sulla lama del machete, sangue d’uomo aveva tinto di rosso la maglietta del ragazzo. Corse a sorreggere Carlo, che non pareva in grado di mantenersi in piedi.

Il sangue scorreva senza sosta dalla ferita alla spalla, ed era uno spettacolo viscido. Laura distolse lo sguardo. — Chiamo subito un’ambulanza.

Carlo le afferrò un braccio. — No! Se finisco in ospedale sono morto. Il morso del nekomata è velenoso. Mi devi portare al Parco Borza, subito.

—  Ehm, io non ho la patente. Non so guidare. Neanche il motorino. Non mi piacciono neppure i videogiochi di macchine.

Lui non rispose, forse aveva già imboccato il tunnel con la luce in fondo.

—  Va bene, va bene, chiamo un taxi! Prima però...

Tornò alla scuola, e ne uscì con una tuta da bidello. Aiutò Carlo a infilarsi la palandrana color verde marciume e sperò che il taxi si sbrigasse.

 

—  Che cos’ha il tuo amico? — Approfittando del rosso a un semaforo, il tassista aveva gettato un occhio a loro due sul sedile posteriore.

—  È ubriaco.

—  Alle tre del pomeriggio? Si può sapere che vi passa per la testa a voi giovani?

—  È tutta colpa della televisione.

—  Già. — Si accese il verde. Il taxi superò l’incrocio e proseguì per la circonvallazione.

 

Arrancavano lungo un sentiero che si snodava fra i rottami, costeggiando gli scheletri delle giostre, morte d’inedia quindici anni prima. Dalla torre di un finto castello medievale in rovina, ancora pendeva il cartello “Benvenuti al Parco di Divertimenti Borza”.

—  Avanti! — Carlo le si era afflosciato contro la spalla. Era diventato un peso morto, sempre che non fosse morto sul serio.

Ogni metro era più faticoso del precedente. Ormai doveva tirarsi dietro il ragazzo a furia di strattoni, e non era una piuma.

—  E adesso? — Erano giunti a un bivio. Fin dove riusciva a scorgere entrambe le diramazioni sparivano inghiottite da cumuli di spazzatura.

Carlo sollevò appena un braccio, prima di lasciarlo ricadere contro il fianco. — A destra? Sicuro? — Ma lui era svenuto.

Lo trascinava per il colletto. Doveva puntare le scarpe contro il terreno polveroso a ogni passo. Le bruciavano le braccia per lo sforzo; il sudore le scendeva sugli occhi. E si era alzato un vento gelido, che le appiccicava i vestiti umidi contro il corpo, facendola rabbrividire. Si fermò ansimante.

“Be’ io ci ho provato” si disse. “Però ti ha salvato la vita” replicò una vocina. Cercò d’ignorarla. “Non puoi lasciarlo morire, non è giusto!” continuò la vocina. “Sailor Moon non lo farebbe mai” insistette la vocina.

—  Stupida coscienza! — esclamò.

Abbrancò i lembi della tuta da bidello e riprese a tirare.

 

Laura aveva lasciato Carlo mezzo dentro mezzo fuori la catapecchia in lamiera che sorgeva al termine del sentiero. Aveva aperta di fronte a sé una scatoletta del pronto soccorso, che aveva trovato all’interno della baracca.

Doveva sperare che una delle fiale che aveva prelevato dalla scatoletta fosse l’antidoto per il morso del nekomata. Solo, non aveva idea quale! E non pareva ci fosse più molto tempo: il respiro del ragazzo si era ridotto a un rantolo, gli occhi erano divenuti minuscoli, lucidi e inespressivi, le labbra avevano assunto un colorito nerastro e la pelle del volto appariva incartapecorita. La spalla si era tanto gonfiata da far impressione anche da sotto i vestiti.

Passò in rassegna le varie fiale. Sulle etichette si leggevano nomi che non era in grado neppure di pronunciare, tanto erano infarciti di sillabe. Due flaconcini però non avevano etichetta. “È probabile che nessuna azienda farmaceutica produca antidoti contro il veleno di nekomata, con il fatto che sono mostri infernali di un’altra dimensione e se ne vedono pochi” provò a ragionare. “Perciò, l’antidoto non avrà etichetta. E un medicinale serio non può certo essere di quel color viola fosforescente!”

Scartò la fiala senza etichetta piena di liquido viola. Poi prese una siringa, ne strappò con i denti l’involto di plastica, e la riempì a metà con il contenuto della seconda fiala senza etichetta.

“Che Dio me la mandi buona!” Infilò l’ago fino in fondo nella spalla, in prossimità del gonfiore. In un colpo iniettò il presunto antidoto.

Attese con il cuore in gola. Il respiro di Carlo rimaneva affannoso ma non pareva peggiorato. Anzi, le sembrava un pochino più regolare. Cinque minuti dopo era il respiro tranquillo di una persona addormenta. L’aveva salvato dal veleno! Meglio di Sailor Moon! Uau! Adesso le mancava solo d’impedire che morisse dissanguato.


 

Capitolo VI: L’eredità del monaco

 

 

Laura rialzò di scatto il viso dal cuscino, come se un insetto l’avesse morsa sul naso: non sarebbe stato sorprendente, visto il luridume dentro la baracca.

Si era addormentata contro un armadio sfasciato, all’interno del quale aveva trovato un paio di cuscini e delle coperte. Aveva usato le coperte per far stare al caldo Carlo e lei si era accontentata di posare il capo sul morbido del guanciale. Senza neanche accorgersene, era stata traghettata nel Reame dei Sogni.

Si stiracchiò e spiò tra le lamiere. Cielo scuro. Almeno le sette di sera. Si sedette accanto a Carlo, sdraiato sul pavimento di assi sconnesse. Aveva gli occhi aperti.

—  Come ti senti?

—  Meglio — rispose l’ex moribondo, con voce impastata. — Pare proprio che la Principessa mi abbia salvato la vita.

Laura si voltò, per evitare che lui si accorgesse che arrossiva. — Niente di che, poi adesso siamo pari.

—  “Niente di che”... la buona parte delle persone che conosco mi avrebbero lasciato nel parcheggio e sarebbero fuggite a gambe levate. Io mi sarei lasciato nel parcheggio!

—  Si dà il caso che il mondo non sia composto solo da teppisti come credo siano gli amici tuoi. Chiunque con una coscienza si sarebbe comportato come me, è normale solidarietà fra persone civili.

—  Sei una bugiarda. — Sentì il fruscio delle coperte che scivolano lungo il corpo di lui, mentre cercava di alzarsi. Rimase impassibile; Carlo l’attirò a sé. Ne sentiva il respiro caldo contro il collo. — Sei una bugiarda, ma hai un buon profumo.

 

—  Ho la gola secca. — Si schiarì la voce. — Scusate, devo fare una pausa e bere qualcosa.

I gargoyle la spiavano di sottecchi.

—  Non preoccupatevi, non è qui la scena di sesso. — Al che, uno dei mostriciattoli le fece cenno che poteva pure recarsi al frigo per dissetarsi.

—  Torno subito!

Tornò con un pacco di sei lattine di aranciata amara, un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio e la bottiglia di vodka. Mischiò aranciata e liquore e con quel cocktail si rinfrescò la memoria.

 

—  ...e vedi di non prenderti più certe confidenze!

Carlo allargò le braccia, mettendo in mostra il corpo avvolto in giri e giri di bende e garze, stile mummia. — A me sembra che tu di confidenze te ne sia prese fin troppe.

—  Be’ non sono mica una crocerossina! Ringrazia che non sanguini più.

—  Grazie. — La voce di lui era suonata sincera, senza la minima traccia di sarcasmo. Laura sentì che stava per arrossire di nuovo.

—  Prego. Se non c’è altro io...

—  Non te ne puoi andare.

—  Ah, no? — Fece per voltarsi, ma lui la fermò. La costrinse a guardarlo negli occhi. Ora sapeva di essere diventata rossa come un peperone, sperava solo fosse già abbastanza buio perché non si notasse.

—  Però se insisti — mormorò, cercando di abbassare il viso. Lui le sollevò il mento. Si chinò verso di lei. Le loro labbra si sfiorarono. Ma all’ultimo istante lui schivò il bacio e le sussurrò all’orecchio.

—  Se te ne vai, domani sarà l’Inferno sulla Terra. — Era ritornato a usare il solito tono, a metà fra il supponente e il beffardo. Gli diede una spinta, tanto forte da farlo quasi cascare.

—  Vedi di salvare il mondo con qualcun’altra! Io me ne vado!

 

Invece era rimasta. Forse lui scherzava o forse no, nel dubbio, con in gioco le sorti dell’umanità, conveniva rischiare. Tanto più che il “rischio” stesso poteva rivelarsi alquanto divertente.

—  Adesso ascoltami bene. Non abbiamo molto tempo e ci sono molte cose che devi sapere.

Carlo era sembrato serio, come mai l’aveva sentito. Non attese neanche che lei rispondesse, invece le fece gesto di aiutarlo con le assi del pavimento: grazie a un piede di porco, stavano sventrando il fondo della baracca.

A lavoro compiuto, avevano scoperchiato una buca poco profonda, del diametro di circa un metro e mezzo; nella buca giaceva un forziere di legno, fasciato con nastri di ferro e bulloni sporgenti. Era il tipico forziere da film di pirati.

Presero ognuno una maniglia del forziere e lo tirarono fuori dalla buca. Lui lo aprì con una chiave rugginosa.

Il forziere conteneva una cassaforte di lucido metallo, dalla forma oblunga. Carlo vi appoggiò l’indice della mano sinistra. Un beep risuonò nella baracca e la parte superiore della cassaforte prese a sollevarsi, prima di aprirsi come le ante di un mobile.

—  Questa è la Sacra Spada dei Mille Spiriti.

La Sacra Spada era poggiata su un cuscino rivestito di velluto color zaffiro. Era protetta da un fodero di bambù, coperto da una fitta trama di decorazioni e ideogrammi. L’impugnatura era stata ricamata con un filo dorato, luccicante del riflesso della Luna, che filtrava tra le lamiere. La Spada era leggermente curva, come la schiena di un gatto che si stiracchiasse appena sveglio.

—  Sembra una spada giapponese, di quelle dei samurai.

—  È una spada giapponese, è una katana.

—  Taglia davvero?

Lui la guardò come fosse deficiente.

—  Credevo, ecco, forse era solo una riproduzione, così per bellezza.

—  Basta chiacchiere! Stammi a sentire, cercherò di essere breve. La Sacra Spada è stata forgiata in un’epoca lontanissima, un’epoca tanto remota da precedere persino la fondazione di Atlantide!

—  Oh...

—  A quel tempo viveva un monaco, un uomo d’incredibile saggezza e in grado di conoscere il passato e il futuro. Un giorno, il monaco vide nel Fuoco il crepuscolo del genere umano: vide il Male emergere dalle viscere ardenti del Monte Fuji.

—  Tipo Godzilla? — Lui la guardò in una maniera... se le avesse dato della deficiente, sarebbe suonato quale un complimento! — No, no, scusa! Il Male, intendi i nekomata, vero?

—  No. Intendo il Male. Il puro Male. Senza forma, senza apparente sostanza, solo un’ombra, ma in grado si soffocare il mondo. Per sconfiggere il Male, il monaco decise di forgiare un’arma quale mai si era vista. Perciò iniziò a cercare, a cercare in tutto l’Oriente le anime dei più valorosi guerrieri mai vissuti.

—  Non avrebbe dovuto cercare, non so, in Paradiso?

—  No. Non esiste il Paradiso, e gradirei che stessi un attimo zitta ad ascoltare!

—  Scusa.

—  Cercò gli spiriti degli eroi, rimasti tra noi come divinità. In quarant’anni di peregrinazioni ne trovò mille di tali valorosi. Usò le anime di quei mille prodi per plasmare lo shingane della Spada.

—  Lo scinche?

—  Shingane. La parte più interna della lama, il cuore della Spada!

—  Cioè, dentro la Spada ci sarebbero intrappolati gli spiriti di mille persone? — Era stata sul punto di chiedere a Carlo di sfoderare la katana, ma aveva cambiato idea. — Mi sembra di cattivo gusto.

—  Gli eroi sono stati orgogliosi di venir scelti per difendere il mondo contro il Male.

—  Sarà, a me fa senso.

Lui sospirò irritato. — Non importa a nessuno se ti fa schifo o no! La storia della Spada non è conclusa: il monaco decise di sostenere i mille valorosi unendoli agli Spiriti della Natura, ovvero il Fuoco, l’Acqua, l’Aria, il Tempo e l’Amore.

Laura contò sulla punta delle dita, erano cinque Spiriti, eppure le pareva ne mancasse uno.

—  Per i Cinque Spiriti, il monaco preparò altrettanti alloggiamenti nello tsuba, la guardia della spada. — Carlo le indicò cinque slarghi a forma d’uovo, che lei aveva scambiato per decorazioni qualunque.

—  Quando i Cinque Spiriti sono in simbiosi con la Spada, la Spada è completa e può liberare il proprio Potere, il Potere di distruggere il Male.

—  Sbaglio, o i Cinque Spiriti ora non ci sono?

—  Che bella scoperta! No, ora non ci sono. I Cinque Spiriti furono assegnati ad altrettanti Guardiani che li avrebbero protetti generazione dopo generazione, così come la Spada è stata consegnata al Cavaliere Custode. Quando verrà il tempo del Male, solo allora, la Spada sarà ricomposta.

—  Non capisco, perché la Spada non viene tenuta pronta?

—  Perché il Potere della Spada non si limita a distruggere il Male: la Spada è in grado di tagliare attraverso la Realtà stessa! Per questo è stata contesa nel corso dei millenni e per questo i nekomata la stanno cercando: se riuscissero a impossessarsi della Spada e dei Cinque Spiriti, sarebbero in grado di aprire un varco verso la dimensione infernale dalla quale provengono, un varco tanto ampio da consentire a un’armata di nekomata d’invadere il mondo.

—  Accidenti! Ma noi siamo al sicuro, giusto? Perché gli Spiriti sono protetti dai Guardiani e la Spada da codesto Cavaliere?

—  I nekomata hanno già ucciso i Cinque Guardiani e recuperato quattro degli Spiriti. Il signor Cosenza era l’ultimo Guardiano in vita, il difensore dello Spirito del Fuoco.

—  Cosa?!

—  E in quanto al “codesto Cavaliere”, i nekomata mi uccideranno e s’impossesseranno della Spada entro l’alba.

—  Che... che significa?

—  Significa che i nekomata seguiranno l’odore del sangue del gatto che ho ferito oggi. Mi assaliranno e si prenderanno la Spada. A quel punto rimarrà solo lo Spirito dell’Acqua a frapporsi fra la Terra e l’invasione dei mostri.

Carlo aveva preso dal forziere altri due oggetti: il primo aveva la sagoma di una pistola, il secondo sembrava un portamonete.

Le mostrò la pistola. — Questa è un’arma speciale antigatto in lega di titanio, costruita da Samuel Colt in persona. — Le aprì la mano destra e pose sul palmo il calcio della rivoltella. — Prendila!

—  Ma...

Le strinse le dita intorno all’arma. — Ci sono caricati — sganciò il tamburo — otto colpi. Otto proiettili full metal jacket progettati per penetrare il pelo dei nekomata e incunearsi nella carne.

Lui richiuse la rivoltella. — Non c’è sicura, solo tieni salda la pistola e premi con forza il grilletto. Hai capito?

Laura annuì. — Ho, capito, ma...

—  Niente ma! Apri l’altra mano!

Riluttante, fece come le era stato chiesto. Carlo capovolse il portamonete e ne cavò un uovo, del colore del ghiaccio sporco. Le posò sul palmo l’uovo.

—  Questo è lo Spirito dell’Acqua.

L’uovo era umido e le solleticava la pelle. Sembrava contenere una creaturina indistinta, intenta a camminare in circolo e parlottare fra sé. Portò l’uovo all’altezza degli occhi, e in effetti al suo interno vi era un esserino, un mostriciattolo antropomorfo, una specie d’incrocio fra una papera e un omuncolo. Il mostriciattolo aveva manine e piedini palmati, un muso simile a quello dell’oca e un’incipiente calvizie.

—  Cos’è? È bruttissimo! — esclamò. Le parve che il mostriciattolo muovesse il becco, quasi a sillabare: “Sarai bella tu, sarai!”

—  È un kappa, Spirito dell’Acqua — spiegò Carlo. — Finché rimane nella sfera di sospensione vivrà in eterno. Devi difenderlo, a ogni costo.

—  Questa storia è assurda. Come Diavolo posso...

Lui le posò le mani sulle spalle. — Scappa! Raggiungi la Stazione e scappa il più lontano possibile. Se siamo fortunati i nekomata penseranno che abbia nascosto lo Spirito dell’Acqua e non tenteranno d’inseguirti, altrimenti esistono altri Cavalieri, loro potranno aiutarti. Ma devi fuggire, subito! Io sono spacciato, tu hai una possibilità.

—  Non potremmo rivolgerci alla polizia? Mio zio è avvocato.

Carlo scosse il capo. — Marianne era il precedente Guardiano dello Spirito dell’Acqua. Quando i nekomata ci trovarono, decise di rimanere e combattere. L’ho lasciata morire pur di salvare lo Spirito. Non intendo più commettere un simile errore.

—  Ma io non sono mica una Marianne qualunque! Non ho nessuna intenzione né di scappare, né di farmi ammazzare. Non per una specie di Pokemon riuscito male!

Di punto in bianco, lui le diede uno schiaffo. La guancia divenne rubizza, e questa volta non era per la vergogna.

—  Sei solo una stupida bambina! — le urlò contro Carlo. — E ora vattene! Vattene subito!

 

Seduta su una panca di ferro, in attesa del filobus, venne fulminata dalla Verità: Carlo in realtà l’amava! O quasi. Certo, di primo acchito, era stata sul punto di verificare l’efficienza della Colt antigatto quando il bersaglio era un essere umano, poi però aveva capito: lui l’aveva colpita per costringerla ad andarsene, l’aveva fatto solo per salvarle la vita. Non era stato un gesto dolcissimo?

Una signora che le sedeva accanto sulla panca, quasi le avesse letto nel pensiero, sollevò il naso dalla rivista di moda che stava sfogliando. La signora le spiò il viso, poi assunse un’espressione corrucciata, a rimarcare quanto detestasse la violenza domestica.

“Non è violenza, è Amore” pensò lei, senza dirlo ad alta voce.

Chiariti i sentimenti di Carlo, rimaneva la faccenda dei nekomata, degli Spiriti e dell’imminente fine del mondo.

Ci avrebbe pensato il giorno dopo.

 

Arrivata a casa, scoprì con sollievo che la notizia della tragica fine del signor Cosenza non aveva ancora raggiunto la mamma. Perciò dovette solo inventarsi una vicenda di gattini investiti da un tram e amore per gli animali, per giustificare il ritardo e i vestiti lerci.

In camera, stesa sul copriletto adorno di coniglietti ricamati, nel silenzio della notte, le parve che gli avvenimenti del giorno appena trascorso indugiassero intorno a lei, quasi a pregarla di dedicar loro qualche momento. I ricordi pretendevano attenzione.

Tornò indietro fino alla mattina precedente, e gustando ogni scena, sbobinò il film di quella memorabile giornata. Giunta allo sgranocchiare della merendina di albicocche e carote, si addormentò.


 

Capitolo VII: La scelta

 

 

Alle sei e mezzo del mattino il cielo era ancora scuro. Laura era in piedi, a battere i denti per il freddo, davanti all’arco di metallo arrugginito che indicava l’ingresso del Parco Borza.

Si era preparata nella mente due liste: a destra un elenco di buoni motivi per i quali avrebbe dovuto esserci quella mattina, a sinistra un elenco altrettanto lungo di ottimi motivi per i quali avrebbe fatto meglio a girare al largo. Dopo attento ragionamento, che le era valso gli sguardi perplessi dei pochi passanti, aveva deciso di entrare nel Parco. L’argomento decisivo era stato che voleva tanto far assaggiare a Carlo una fetta della torta di albicocche e carote. Una fetta di una torta fresca, appena sfornata. Aveva aspettato apposta venti minuti che il prestinaio aprisse.

Sotto l’incerta luce dell’alba, il sentiero che attraversava il Parco appariva ancora più sinistro. Ogni ombra, ogni cunicolo nero tra i cumuli d’immondizia, ogni macchia scura, le sembrava un gatto. Un gatto accucciato, con le orecchie tese e gli artigli sguainati, pronto a balzarle addosso per impossessarsi della torta.

Con gesto istintivo, si strinse al seno il vassoio del prestinaio.

Dal fondo del sentiero, da dietro un muro frastagliato di spazzatura, giunse un miagolio. Il cuore cominciò a batterle con più insistenza. Rallentò il passo. “Calma, calma, stai calma! Può benissimo essere un gatto di normali dimensioni.”

Il miagolio si ripeté e subito fu affiancato dal vociare concitato di altri felini. Sembrava il dibattere a un’assemblea condominiale, e da quel che ne sapeva, i gatti non partecipavano mai alle assemblee condominiali.

Il cuore ora le batteva all’impazzata. Curiosità, Buon Senso, Fifa, Dovere, e un sentimento che non osava ancora chiamare Amore: tutti quei moti dell’animo avevano preso ad accapigliarsi tra loro. Cosa avrebbe fatto Sailor Moon al suo posto?

Chiuse per un istante gli occhi, e quando li riaprì, una Decisione era stata presa. Non da lei: quattro nekomata l’avevano circondata.

Tre dei mostruosi felini le giravano attorno, le fauci aperte, le unghie sguainate; il quarto, seduto sopra i resti di una macchinina dell’autoscontro, si stava lavando il muso con il dorso di una zampa.

—  Io, io vorrei solo, ecco, passare.

—  Miao! — le rispose ruggendo uno dei nekomata. — Miao! — gli fece eco un secondo gatto.

—  Un’Umana! Miao! Laura, non è vero? Miao! — Un quinto felino si era aggiunto al branco. Il nuovo venuto sovrastava gli altri mici con la sua stazza. Aveva il pelo striato di rosso fuoco, tanto che pareva avesse il muso avvolto dalle fiamme.

—  Laura? No, no, ci dev’essere un errore. Io mi chiamo, uh... Elisabetta, Elisabetta Crimoro e lavoro per la panetteria di Piazza Pisa e...

—  Le tue menzogne non possono ingannarmi, Miao! Perché io sono Lord Akaneko, Gran Comandante dell’Orda dei Gatti! Miao! — la interruppe il gatto rosso. — Miao! Miao! Miao! Miao! — fecero coro gli altri felini.

—  Consegnami lo Spirito dell’Acqua e non ti mangerò! Miao!

—  Non ho assolutamente idea di cosa stiate parlando.

—  Il Cavaliere ha confessato, Miao! E riconosco il tuo puzzo, ieri eri alla baracca! Miao! Non farmi perdere la pazienza, Miao! Consegnami lo Spirito! Miao!

Lord Akaneko incombeva su di lei. Le vibrisse erano tanto vicine che le sfioravano le guance. L’alito del mostro aveva il tanfo della mostarda e della carne in putrefazione.

—  Se... se mi uccidi, non saprai mai dov’è lo Spirito.

Lord Akaneko si esibì nella versione felina di un crudele ghigno. — In realtà, Miao! L’idea sarebbe di torturarti, Miao! Ma forse ti basterà sapere che se non mi consegni lo Spirito, il Cavaliere Custode passerà i prossimi diecimila anni a rimpiangere di non essere morto! Miao!

—  Oh...

—  Miao! Miao! Miao! Miao! — puntuale giunse il coro degli altri mici.

—  Stanotte! Miao! Presentati questa notte al Cinema Belati per l’ultimo spettacolo! Miao! Porta lo Spirito o per l’Umano non ci sarà più speranza! Miao!

I felini si misero a quattro zampe. Le passarono davanti, mettendo in bella mostra le zanne. — Miao! — ringhiò ogni gatto, prima di sgattaiolare via. 

—  Questa notte! Miao! — le ricordò Lord Akaneko, che chiudeva la processione.

—  I miei non mi lasciano star fuori tardi la sera nei giorni feriali — mormorò, ma i nekomata erano già spariti.

 

I gatti avevano disfatto la catapecchia. I pochi averi di Carlo erano stati ridotti a brandelli e gettati per ogni dove. Le capitò sotto le dita il profilo di una cornice: proteggeva la foto di una ragazza. L’angelico viso della ragazza le sorrideva, con il sorriso più allegro e solare che avesse mai incrociato. Qualcosa le diceva che stava ammirando l’ex Guardiano dello Spirito dell’Acqua, la defunta Marianne.

Con cautela, per non tagliarsi con le schegge di vetro rimaste attaccate al perimetro della cornice, tolse la foto. “Già che capita l’occasione.” Strappò in quattro la foto e ancora in quattro i frammenti, che lasciò scivolare tra il disordine.

Il forziere era rovesciato su un fianco, in un angolo. All’interno la cassaforte era aperta. Le ante erano appiccicaticce e macchiate di rosso. Dentro la cassaforte, sul cuscino zaffiro, invece della Spada, riposava l’indice di Carlo, tranciato di netto. Distolse lo sguardo e ringraziò di non aver fatto colazione.

 

Laura aveva trascorso la giornata seduta sul letto, rannicchiata con la schiena contro la parete arancione, le ginocchia strette al petto.

Lo Spirito dell’Acqua era una prova tangibile. Avrebbe potuto dir tutto ai genitori, chiamare la polizia, o l’esercito, e non l’avrebbero presa per pazza. Ma si rendeva conto che la probabilità che qualcuno intervenisse entro le poche ore che restavano a Carlo era minima.

Dondolava avanti e indietro la testa. Un momento le sembrava ovvio salvarsi la pelle a scapito di chiunque, il momento successivo era sicura che non sarebbe mai riuscita a tirare avanti con Carlo sulla coscienza. Al solo immaginarlo morto, al solo indugiare su quella parola, morto, al maschile, le mancava il respiro.

Le lancette sulla pancia del drago Elliott marciavano senza sosta. Il pomeriggio sfumò nella sera. Verso le sette, si alzò, schifata con sé stessa: prima della battaglia decisiva, Sailor Moon aveva cucinato per la famiglia, almeno ci aveva provato, lei non sapeva neppure condire l’insalata.

Accampò una scusa e rinunciò alla cena. Aspettò che scendesse la notte. Prese con sé la rivoltella e tutto il Coraggio che riuscì a racimolare. Spalancò la finestra e si calò in strada.

Quando toccò con la punta dei piedi l’asfalto, tirò un sospiro di sollievo: quel primo ostacolo era stato superato senza intoppi. D’altra parte, abitava a pian terreno.


 

Capitolo VIII: Duello al Cinema Belati

 

 

Il profilo del Cinema Belati emerse dalla sterpaglia, come la carcassa di un bisonte morto di sete nella savana. La grigia costruzione, illuminata solo dal chiarore dell’insegna, l’aspettava in agguato. Laura sapeva che nel cuore della notte, nelle viscere della bestia, le feline creature delle tenebre erano pronte a spalancare le porte dell’Inferno. Ma prima, prima avrebbero dovuto fare i conti con lei!

Una folata di vento gelido le si infranse contro il viso, scompigliandole i capelli. Un campanile lontano prese a battere le ore. Estrasse la Colt antigatto e ricontrollò che fosse carica.

Dodicesimo rintocco.

La scritta Buffy contro Vampirella avvampò al calor bianco, prima di spegnersi in una pioggia di scintille.

Sotto quella cascata di diamanti, entrò nel Cinema Belati.

 

Contro la biglietteria erano accasciate non meno di cinque persone, ridotte in brandelli. Il sangue era schizzato ovunque, trasformando gli interni rosa in rosso vivo. Ignorò il massacro e, pistola in pugno, proseguì tra le ombre, diretta in platea.

Con il braccio scostò una pesante tenda amaranto. Scavalcò un’altra vittima della furia felina e si ritrovò tra due schiere di poltroncine che convergevano verso il bianco lattiginoso dello schermo.

Si accesero le luci. La platea era occupata per un buon quarto, e quegli spettatori avevano una gran testa pelosa. Gli occhi di decine di nekomata si fissarono su di lei.

Uno dei gatti le zampettò davanti. — Miao! — grugnì il felino, indicando con un artiglio la pistola.

Nel tamburo erano caricati otto colpi, ma erano presenti almeno dieci volte tanti nekomata. Con riluttanza consegnò l’arma al micio, che la scaraventò tra le poltroncine. Un coro di risa feline, fusa e miagolii risuonò nella sala.

—  Miao! Silenzio! Miao! — Lord Akaneko era spuntato sul palco, e subito gli altri nekomata si zittirono.

—  Ben arrivata, Umana! Miao! — Il Gran Comandante le fece cenno di avvicinarsi. — Ci devi scusare se la prevista proiezione non avrà luogo ma, Miao! Questo film è noioso da morire, Miao! — Diversi nekomata si chinarono sui sedili a fianco ai loro, e quando si rialzarono avevano tra le zampe la testa di qualche sfortunato spettatore.

—  Non mi fate paura. Non ho paura di voi mostri!

—  Miao! Ne avrai, Miao! Ne avrai! Miao!

Con un cigolio, il telone dello schermo prese a sollevarsi. Dietro il velo bianco si ergeva il più imponente nekomata che Laura avesse mai visto. Era una creatura mostruosa; ritta su due zampe, era alta non meno di tre metri.

—  Miao! Lord Ryuneko! Miao! Supremo Comandante di Ogni Gatto! Miao! — annunciò Lord Akaneko.

Lord Ryuneko era coperto da zampe a orecchie da un manto di pelo scuro, quasi nero, del colore di un monitor spento. Le due code si abbattevano di continuo contro le assi di legno del palco, quali fruste. Quando il mostro mosse una zampa in avanti, il palco iniziò a scricchiolare e a lamentarsi, torturato dal peso della bestia. Gli artigli penetravano a fondo nel legno, lasciandosi dietro una scia di trucioli.

Lord Ryuneko afferrò qualcosa dietro di sé e lo gettò giù dal palco. Era un sacco di tela.

—  Il Cavaliere Custode, Miao! — ruggì il Supremo Comandante, con voce tanto profonda da far vibrare l’intera sala.

Laura corse verso il sacco; con movimenti frenetici cercò come aprirlo, e infine riuscì ad allentare la corda che lo teneva chiuso. Carlo era all’interno, esanime.

—  Non ti preoccupare, è ancora vivo, Miao! Noi Bakeneko rispettiamo i patti! Miao! — E a sottolineare le parole di Lord Ryuneko, il frastuono di decine di Miao! scosse le pareti del cinema.

Laura accostò l’orecchio al viso tumefatto del Tordi Carlo. Respirava ancora. Gli carezzò una guancia, e fu premiata da una sorta di rantolo, che forse era un tentativo di abbozzare un ringraziamento: le labbra gonfie e sporche di sangue del povero ragazzo si erano appena mosse.

Un tonfo la fece trasalire. Lord Ryuneko aveva piantato la Sacra Spada nel legno del palco. La lama scintillava, eccitata dal pulsare luminoso che proveniva dallo tsuba. Quattro ovetti, ognuno contenente uno Spirito, erano stati incastonati nell’elsa. S’intravedevano gli Spiriti agitarsi all’interno delle uova, ognuna accesa di una diversa luce. Sembravano decorazioni su un albero di Natale.

—  Lo Spirito dell’Acqua! Miao! — Lord Ryuneko aprì l’immane zampa.

—  Ecco. Non l’ho con me.

—  E dov’è? Miao!

—  L’ho nascosto. Non avrete davvero pensato che io sarei stata così sprovveduta da cadere in una trappola con lo Spirito in tasca!

—  Hai tre minuti per consegnare lo Spirito, Miao! — intervenne Lord Akaneko. — Spero perciò, Miao! Tu l’abbia nascosto vicino, Miao! Al termine dei tre minuti uccideremo, Miao! Uccideremo il Cavaliere, Miao! E dopo, Miao! Uccideremo te! Miao!

Le parve che l’omino dipinto sul segnale verde dell’uscita di sicurezza le stesse suggerendo il da farsi. Le sussurrava di scappare, di non buttare l’ultima occasione per salvarsi la pelle! Ingenuo omino: ne apprezzava le intenzioni, ma lei non era arrivata fin lì per scappare. E se l’attendeva un appuntamento con la Morte, si sarebbe presentata in compagnia di quanti più nekomata possibile!

Scattò in avanti, puntò una mano contro il bordo del palco, slanciò le gambe in aria, e al culmine del salto mortale, acchiappò l’impugnatura della Sacra Spada con l’altra mano. Si rialzò dopo una capriola, puntando l’arma contro l’orda dei gatti.

—  Miao? — domandò Lord Akaneko, grattandosi la punta di un orecchio.

—  In realtà, lo Spirito dell’Acqua l’avevo proprio in tasca. — Prese dalla tasca dei jeans l’uovo e, non appena lo mostrò alla Spada, subito dall’alloggiamento vuoto nello tsuba nacque un artiglio di goccioline d’acqua. L’artiglio avvolse la prigione dello Spirito e le strappò di mano l’uovo. Con un colpo secco, come di elastico che venisse rilasciato, l’uovo s’incuneò al proprio posto.

L’intero cinema prese a tremare, e l’aria si saturò di un basso brontolio, quale il fronte di un maremoto che si sta per abbattere contro la costa. La Sacra Spada ardeva, e lungo la lama faville incandescenti nascevano e morivano di continuo, come le bolle di calore su una distesa di lava.

Le uova nei cinque alloggiamenti si schiusero. Gli Spiriti strisciarono fuori, e mentre si dibattevano per lasciare l’uovo, i loro corpi mutarono e si allungarono, diventando sempre più affusolati. Gli Spiriti si erano trasformati in altrettante serpi.

Le serpi le circondarono il polso, prima di azzannarle la carne del braccio.

Avrebbe voluto urlare e gettar via la Spada, ma il veleno degli Spiriti l’aveva paralizzata. Con orrore vide le serpi scavare, e insinuarsi sotto la pelle. Gli Spiriti percorsero il braccio, risalirono lungo il collo e raggiunsero l’ipotalamo.

Fu come se qualcuno le avesse acceso un faro nella mente. Per un istante fu abbacinata, l’istante successivo il mondo non le era mai apparso così definito. Sentiva il Potere della Spada fluirle nelle vene: avrebbe combattuto a fianco di mille eroi e degli Spiriti della Natura, nessuno sarebbe riuscito a sconfiggerla!

—  Impressionante, Miao! — commentò Lord Ryuneko. Il Supremo Comandante si era accomodato in prima fila, sfondando due poltroncine. Teneva una zampa posata sul sacco di Carlo. — Peccato che tu non abbia la minima idea di come usare il Potere della Sacra Spada! Miao!

—  Lo vedremo! — La Spada pesava, più di quanto la forma slanciata avrebbe fatto supporre. Già l’esaltazione di poco prima sbiadiva, sostituita da un atroce bruciore al polso, martoriato dagli Spiriti.

In più, oltre a reggerla a fatica, non aveva davvero la minima idea di come maneggiare la Spada. La propria conoscenza della scherma era ferma al vecchio anime di D’Artagnan, che seguiva da bambina. Una volta aveva persino rifiutato un coupon per una lezione gratuita di fioretto.

Lord Ryuneko sollevò una zampa. — Uccidetela, Miao! E portatemi la Spada! Miao!

 

Un primo nekomata era saltato sul palco. Soffiava inferocito, tenendosi fuori dalla portata della Spada. Poi, rapido come un gatto, allungò una zampa e la colpì allo stomaco, facendola volare giù, contro la prima fila di poltroncine.

Tentò di rialzarsi e il dolore alla pancia rischiò di farla svenire. E per fortuna era caduta dal palco prima che gli unghioni del micio riuscissero a far più che non graffiarla. Una gran fortuna davvero, forse si era guadagnata altri cinque minuti di vita.

“Invoca il nostro Potere” le risuonò nella testa una vocina. “Non puoi combattere da sola! Invoca il nostro Potere e ti aiuteremo!”

Il nekomata si avvicinava, zampettando sicuro.

“Chi sei? Sei la mia coscienza?” chiese a sé stessa. “Sono io, lo Spirito dell’Amore! Finché avrai la Spada, noi Spiriti saremo parte di te!”

“Uh... va... va bene, perciò, invoco il vostro potere, Spiriti!”

“Devi invocare uno specifico Spirito” le spiegò lo Spirito del Fuoco.

Il nekomata la osservava dall’alto in basso, passandosi la lingua sui baffi.

“Spirito del Fuoco, invoco il tuo Potere!”

“Devi farlo a voce alta” puntualizzò lo Spirito del Fuoco.

“Mi vergogno.”

Il nekomata balzò su di lei. Rotolò di fianco, sfuggendo per un pelo agli artigli, che sventrarono le poltroncine.

Intanto, altri nekomata l’avevano circondata.

“Al Diavolo l’imbarazzo!” — Spirito del Fuoco, invoco il tuo Potere!

I nekomata raggelarono, le orecchie appiattite contro il capo, già presagendo gli effetti del terribile Potere.

“Non è prudente invocare il mio Potere in un luogo chiuso, io credo dovresti provare prima con un Potere meno distruttivo.”

—  Ehm, falso allarme. — Si lanciò in uno spiraglio tra lo schieramento dei gatti, che subito si fiondarono all’inseguimento.

—  Spirito del Tempo, invoco il tuo Potere!

Il Tempo si fermò.

I nekomata parevano cristallizzati, divenuti di botto statue di sale. Laura invece era agile quanto prima. Calò la spada contro una zampa tesa, e la zampa, tagliata di netto, iniziò una caduta al rallentatore. Avvolta in spirali di sangue, la zampa scivolava verso il pavimento con tale lentezza che a occhio ci avrebbe impiegato almeno tre minuti. Si strinse nelle spalle, poi cominciò a massacrare i nekomata, menando fendenti furibondi, che sbudellavano, staccavano teste e trafiggevano cuori.

Improvviso come si era fermato, il Tempo riprese a scorrere.

Con un plop! almeno venti nekomata si afflosciarono all’unisono, in una massa informe di sangue, pelo e viscere.

—  Spirito del Tempo, invoco il tuo Potere!

Il Tempo continuò a scorrere.

“Non si possono invocare i Poteri troppo spesso, adesso lo Spirito del Tempo ha bisogno di riposo” si affrettò a chiarire quel pedante dello Spirito del Fuoco.

Un nekomata partì all’attacco, Laura riuscì a parare la zampata con la Spada; un artiglio del mostro si era fermato a una piuma dal cavarle un occhio.

—  Spirito dell’Amore, invoco il tuo Potere!

 “Mi spiace, ma io... insomma ci sono dei limiti nel Potere dello Spirito dell’Amore, che sarei io... non funziona tanto bene contro avversari che non siano umani.”

—  Spirito dell’Acqua, invoco il tuo Potere!

“Lo Spirito dell’Acqua è da troppo poco tempo in simbiosi, non puoi ancora usare il suo Potere.” Una cosa l’aveva capita: lo Spirito del Fuoco non era mai stato sfiorato dall’idea che se non hai niente di positivo da dire, puoi anche star zitto!

Una fitta le percorse la schiena. Si gettò in avanti, precedendo di un soffio la successiva zampata, che le avrebbe spezzato la spina dorsale. Il gatto che era riuscito a coglierla di sorpresa le sorrideva sornione, leccandosi gli unghioni sozzi di sangue.

Cominciava a essere stanca, tanto da dover reggere la Spada con entrambe le mani. I nekomata le giravano intorno, accennando a turno ad attaccare, per poi ritirarsi, mimando falso terrore. Giocavano al gatto con la ragazzina.

 

—  Spirito dell’Aria, almeno tu, aiutami! Spirito dell’Aria, invoco il tuo Potere!

“Volendo, ma il mio Potere è quello della rigenerazione. Non sei gravemente ferita, non ancora. Non è saggio invocare adesso il mio Potere.”

“E ti pareva!”

—  Arrenditi, Miao! — Lord Akaneko era emerso dallo schieramento dei gatti. — Consegnaci la Spada e Miao! E ti prometto di non torturarti, Miao! Non troppo, Miao!

—  Mai! Spirito del Fuoco! Non me ne importa un accidente se finiamo tutti quanti arrosto... Spirito del Fuoco, invoco il tuo Potere!

Una ruggente sfera di fiamme si materializzò intorno a Laura. Le ribollenti pareti della sfera si contrassero, prima di esplodere in ogni direzione.

Un fronte di fuoco circolare spazzò la platea. Il cuoio sulle poltroncine prese a bollire e liquefarsi, e l’imbottitura fuoriuscì, strappata via dalle fiamme. I sostegni di metallo si piegarono e deformarono per il calore. Le pareti della sala avvamparono, e guizzanti lingue rosso fuoco aggredirono le travi del soffitto. Il lampadario in stile vittoriano, non avendo più appigli nella volta, si abbatté al suolo, in un’eruzione di luce e cristallo.

 

I frammenti scintillanti si mescolarono alla cenere dei nekomata che si erano trovati più vicini a Laura: quei gatti erano finiti carbonizzati, ridotti in un lampo a una nube di particelle nere.

I felini meno coraggiosi, che si erano mantenuti ai margini della mischia, raggiunti dal Potere del Fuoco erano stati avvolti dalle fiamme, come uno zolfanello appena acceso. Impazziti dal dolore, erano fuggiti verso le uscite d’emergenza.

Lord Akaneko era sopravvissuto, seppur apparisse ustionato su tutto il corpo e con il muso bruciacchiato. Il Gran Comandante tentava di reggersi su due zampe, ma forse perché aveva perso i baffi, non sembrava più esserne in grado.

Laura non aspettò che si riprendesse: gli infilò la Spada sotto il collo, spingendo con entrambe le mani, finché la punta della katana non sbucò fuori dalla nuca. Fiotti di sangue caldo le inzupparono i vestiti.

Con uno strattone sfilò la Spada. Negli occhi di Lord Akaneko si era spenta la vita.

 

—  Questa notte morirai, ragazzina! Miao! — La voce di Lord Ryuneko risuonava possente. Il mostro si era alzato e torreggiava al centro della sala. Pareva che il Potere del Fuoco non gli avesse neanche fatto il solletico. — Ma sarà solo l’inizio della tua punizione, Miao! Farò in modo che tu soffra all’Inferno per l’eternità, Miao!

—  Minaccia un tantino scontata. Credo di aver capito che tipo sei: sei un mostro grande e grosso, ma non tanto furbo. — Laura sì pulì con una manica il viso. Giunta a quel punto, non si sarebbe certo lasciata intimidire da un solo gatto, per quanto cattivo!

Lord Ryuneko si portò una zampa dietro la schiena. Quando la ritrasse impugnava una spada di dimensioni enormi.

—  Questa è la nodachi Nuvola Oscura, forgiata dal Maestro Bakeneko Masatoneko seimila anni fa, Miao! È una Spada dotata di terribile Potere, e che può essere rinfoderata solo dopo che ha bevuto il sangue dei nemici. Stanotte si sazierà con il tuo di sangue, ragazzina! Miao!

Le fiamme che consumavano il cinema avvolsero di mille sfumature vermiglie il metallo di Nuvola Oscura che rimase freddo e nero. Lord Ryuneko si gettò all’assalto.

Laura ancorò i piedi contro i resti di due poltroncine e sollevò la Sacra Spada.

Un uragano di scintille si generò dal punto d’impatto delle due lame. L’onda d’urto attraversò in un battibaleno la platea, come una mannaia calata sul collo di un condannato. Quel che rimaneva delle poltroncine fu tagliato a metà dallo spostamento d’aria, fenditure si aprirono nel pavimento e crepe frastagliate spuntarono sulle pareti.

—  Sciocca, stupida, ragazzina dilettante! Dovresti sapere, Miao! Che mai si deve parare con il filo della lama, Miao!

Lord Ryuneko colpì ancora, e ancora il turbine delle scintille fu tale da accecare i contendenti.

—  Perché si rischia, Miao!

Il terzo fendente di Lord Ryuneko la costrinse a piegare le ginocchia.

—  Questo! Miao!

Lord Ryuneko affondò il colpo dall’alto in basso. Laura parò con la Spada sopra la testa.

“Oh, no...” sentì gli Spiriti mormorare. Questa volta le crepe non avevano solcato i muri, ma il metallo della Sacra Spada. Con il suono di un grissino che si spezza, la lama della Spada si ruppe in due.

—  In generale è meglio schivare che parare, Miao! Ma se proprio si deve, sempre con il piatto della lama, Miao! — finì la lezione Lord Ryuneko.

—  Buono a sapersi. Per la prossima occasione...

—  Non avrai nessun’altra occasione, ragazzina! Miao!

Il Supremo Comandante avanzò con la nodachi puntata avanti a sé, Laura indietreggiò sulle mani. Picchiò con la schiena contro il corpo di un nekomata, le dita scivolarono lungo una forma affusolata di metallo, appena tiepida.

—  Sei pronta a morire, Miao?

Lei accennò un sorriso. — Non ancora!

—  Miao?

—  Perché prima ho anch’io da dirti qualcosa che dovresti sapere, grosso, stupido, sciocco micione incapace! Dovresti sapere che quando un gatto con la spada incontra — strinse le dita attorno alla forma di metallo — una ragazza con la pistola...

Come se fosse stato invocato il Potere dello Spirito del Tempo, lo scorrere degli eventi parve rallentare. Laura riuscì a scorgere nel riflesso degli occhi di Lord Ryuneko la Consapevolezza, che si faceva strada nel cervello del mostro. Lo vide ritrarre Nuvola Oscura, per affondare il colpo; già lei aveva impugnato salda la rivoltella. Quando la nodachi scattò per trafiggerla, premette il grilletto, e ancora, e ancora, e ancora, finché il cane non batté a vuoto.

Gli otto proiettili blindati centrarono Lord Ryuneko dall’inguine al collo. Penetrarono il folto pelo, squarciarono la carne e uscirono dalla schiena del mostro. Il Supremo Comandante cadde all’indietro, in una pozza di sangue felino. La nodachi gli saltò via dalla zampa.

Laura si rialzo. — ...il gatto con la spada è un gatto morto.

Lord Ryuneko era stato sventrato dai colpi. Ormai respirava sangue. Laura si chinò e raccolse la nodachi. Ne trascinò la punta lungo il pelo umido del mostro, fino all’altezza del cuore. Si appoggiò con tutto il peso del corpo sull’arma. Nuvola Oscura trafisse il Supremo Comandante di Ogni Gatto.

—  Così anche la spada maledetta ha avuto un contentino.


 

Capitolo IX: Lo Spirito dell’Amore

 

 

Lo Spirito dell’Acqua, per quanto non ancora acclimatato e avendo come catalizzatore solo mezza Spada, non si era risparmiato: un nubifragio, con epicentro il Cinema Belati, aveva scosso la quiete notturna.

Laura era seduta su un grumo bruciacchiato di poltroncina, che si era portata fuori dal cinema. Non si sottraeva alla pioggia, anzi, dopo il calore asfissiante dell’incendio e la furia della battaglia, le gelide gocce d’acqua erano le benvenute.

Una timida Luna tentava di aprirsi uno spiraglio tra le nubi. Pareva i raggi di luce argentea cercassero di mescolarsi alla pioggia. Alzò la testa, si scostò i capelli dal viso, chiuse gli occhi e si abbandonò alle rudi carezze del temporale.

Un sonoro starnuto le suggerì che era il caso di darci un taglio con quel romanticume da film per la TV. Meglio mettersi al riparo.

Sulla soglia del cinema, avvolto dal vapore dell’incendio ormai domato, l’aspettava il Cavaliere Custode della Sacra Spada.

—  A quanto pare, anche stanotte la Principessa non ha trovato niente di meglio da fare se non salvarmi la vita — disse lui, con il consueto tono canzonatorio.

Quanto la mandava in bestia quell’atteggiamento! Sì, gli aveva salvato la vita, due volte di seguito, un minimo di genuina gratitudine se la sarebbe anche meritata!

—  Io non c’entro, fosse per me ti avrei lasciato volentieri crepare! Se vuoi prendere in giro chi ti ha salvato, rivolgiti allo Spirito dell’Aria.

Attese con i nervi a fior di pelle la successiva battuta, pronta a ricacciargliela in gola, Carlo però rimase in silenzio.

—  E adesso levati, voglio tornare dentro.

Lui non si mosse. Lei tirò dritto e gli finì addosso.

Gli posò le mani sul petto. Era già pronta a dargli un’altra bella spinta, quando si scoprì a indugiare con le dita sul profilo dei muscoli. Quel che la colpiva era quanto il corpo di Carlo apparisse martoriato: di continuo sotto i polpastrelli le capitava di percepire il raggrinzirsi della pelle intorno a una cicatrice. Il Cavaliere doveva aver vissuto esperienze terribili, forse era normale che avesse sviluppato un carattere tanto cinico e sarcastico.

Non sapeva neanche lei se per confortarlo o per confortare sé stessa, dopo gli strapazzi degli ultimi due giorni, ma la spinta divenne un abbraccio. E quando sollevò il viso verso quello di lui, si ritrovò a baciarlo, con trasporto e tenerezza, proprio come in un film per la TV, di quelli che trasmettono al pomeriggio dei giorni feriali.

 

Il Senso di Colpa le montò pian piano nel cuore e la costrinse a divincolarsi dall’abbraccio.

—  Tu... tu e gli altri Cavalieri avete difeso la Sacra Spada per secoli e secoli e io, io sono riuscita a sfasciarla in dieci minuti.

Ecco, l’aveva detto. Sapeva di aver rovinato per sempre l’atmosfera di quel magico momento, ma non avrebbe potuto fare altrimenti: già la coscienza aveva iniziato a pungolarla, e quando s’intrometteva la coscienza, lei era incapace di resisterle.

—  Avrei dovuto farlo io tanto tempo fa, e avrei risparmiato infinite sofferenze a me stesso e alle persone che mi erano care.

—  Ma come?!

—  Dall’età di quattro anni sono stato addestrato per diventare Cavaliere. Non ho mai dubitato dei miei Maestri ma... — Carlo fece spallucce — ...ma che diamine, non siamo più nel Giappone medievale. Se il Male dovesse realmente emergere dal Monte Fuji, sono sicuro che un bombardamento con testate nucleari sarebbe adeguato.

In altre parole, lei aveva rischiato la vita più o meno per niente! Ma non riusciva a fargliene una colpa, tanto era felice che lui non si fosse arrabbiato per la Spada spezzata!

Riprese a baciarlo, con tale foga che scivolarono sul tappeto bisunto steso davanti all’ingresso del cinema.

Le mani di lui la carezzavano avide, passando impazienti da un bottone all’altro lungo la camicetta. Un brivido di dolore l’attraversò quando le dita di Carlo le sfiorarono la pancia, dove uno dei nekomata era riuscito a graffiarla. Lui sembrò accorgersene, e prese a sbaciucchiarle il pancino, per farle passare la bua. Non che ci riuscisse, però Laura scoprì che il miscuglio fra sofferenza e Amorevoli Intenzioni l’eccitava sempre più.

Carlo era sceso a baciarle l’ombelico, con una mano aveva slacciato la cintura e cercava di toglierle i jeans. Non era impresa semplice, perché il tessuto umido si era appiccicato alle cosce. Per liberarsi dei pantaloni, dovette dibattersi come un serpente durante la muta.

Lui infilò due dita nell’elastico delle mutandine, e riuscì a sfilarle senza difficoltà. Riprese la discesa costellata di baci...

 

Suonò il campanello.

—  Oh, accidenti, proprio adesso! — I gargoyle la fissavano delusi. — Non è colpa mia. Vado a vedere chi è e lo mando via subito.

Lo scampanellio si ripeté. — Arrivo! Arrivo!

Al terzo trillo, aprì la porta.

—  Signora Salici! — La vicina di casa era di fronte a lei, le mani strette attorno al manico di un ombrellino nero, il volto distorto da una smorfia, come di qualcuno cui sia appena morto il gatto.

—  Tutto bene, signora?

—  No. Il mio povero Michelangelo... l’ho perso di vista un secondo e... e non lo trovo più. L’ho cercato tutto il giorno, non era mai scappato... So, so che lui veniva spesso a giocare da voi... — La Salici cercava di allungare il collo a spiare dietro di lei.

—  Quanto mi dispiace! Ma purtroppo non l’ho visto, sarà... sarà forse da domenica che non lo vedo. Forse dovrebbe chiamare i vigili, con quella storia del maniaco che se la prende con gli animali domestici.

—  I vigili. Hai ragione. Ti ho disturbata per niente. Devi scusarmi.

La Salici si era poggiata al corrimano e aveva preso a scendere le scale. Sembrava che un peso enorme le gravasse sulle spalle, curve per lo sforzo.

—  Non c’è da scusarsi. E vedrà che lo ritroverà, sono sicura si sia solo perso. Vedrà che tornerà a casa.

Le dita della Salici strinsero con forza il corrimano, come gli artigli di un’aquila attorno a un topolino. — Sei stata tu, non è vero? L’hai preso tu! — gridò la signora.

Laura si esibì nella miglior espressione della serie: sono imbarazzata non per me stessa, innocente di tutto, ma per il mio interlocutore che con le sue folli accuse dà triste spettacolo di sé stesso!

—  Ma cosa dice, signora! Anch’io volevo bene a Michelangelo, l’ha visto anche lei come corresse sempre su da noi per giocare. Per quale assurda ragione avrei dovuto rapirlo?

—  Non, non lo so. Scusami, scusami ancora. Ma da quando Mario se n’è andato, Michelangelo è tutto quel che mi è rimasto... e ora, anche lui. — La Salici era sul punto di piangere. Laura le posò una mano sullo scialle. — Non si sente bene? Ha bisogno di qualcosa? Vuole entrare? Le preparo un tè?

—  No, no, grazie. Devo... devo tornare giù e continuare a cercare.

—  Non si perda d’animo!

Ancora le dita della Salici si serrarono sul corrimano, questa volta però la signora non aggiunse altro, e un passetto alla volta, continuò a scendere le scale.


 

Epilogo

 

 

— ...mi svegliai tra le sue braccia, alle prime luci dell’alba. Non avevo idea di cosa avrei potuto raccontare ai miei genitori, o a chiunque altro se per quello. Ma non m’importava, m’importava solo di rimanere abbracciata al mio amante, il Tordi Carlo, Cavaliere Custode di quel che rimaneva della Sacra Spada.

I gargoyle avevano sui musi di pietra un’espressione scettica.

—  Non vi è piaciuta?

Un gargoyle allungò le zampette e le sfilò da sotto le dita il quadernetto rosa degli appunti. Un altro gargoyle prese a scribacchiarvi sopra con una matita. Poi il primo gargoyle le riconsegnò il taccuino.

—  Sono tutte frottole — lesse dalla pagina. — E l’ultimo nekomata è schiattato ottomila e cinquecento anni fa.

Richiuse il quadernetto. — Sicché vorreste sapere la Verità? — I gargoyle annuirono. — Io dico che voi non siete pronti per la Verità! — I gargoyle rimasero impassibili. — Ma se proprio insistete...

Si versò un altro bicchiere di aranciata e vodka.

—  Ho conosciuto Carlo Tordi come ho raccontato. Solo lui non aveva mai rubato moto, non girava armato di machete e non aveva cicatrici dall’inguine al ginocchio. Per due settimane l’ho salutato entrando in classe, e un giorno mi ha anche risposto. Quando Lisa si è procurata tre biglietti per la prima di Buffy contro Vampirella, l’ho invitato. Ha rifiutato. Fine della storia.

 I gargoyle, sazi della Verità, si alzarono in volo, appollaiandosi intorno al lampadario. Laura tornò in cucina, rovesciò il bicchiere pieno di aranciata nel lavandino e lo riempì di sola vodka. Stupido Diario. Stupido Liceo. Stupido Carlo Tordi!

 

 

FINE


Al termine del Liceo, il Tordi Carlo si è trasferito con i genitori negli Stati Uniti, dove è stato curato dallo strabismo. Invece non si è potuto fare molto per l’irrazionale terrore riguardo ai gatti. Ora studia ingegneria molecolare all’Università di Berkeley. Non ha alcun ricordo di Laura.


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