- Gamberi Fantasy -

Il Manzoni continua a scrivere da cani

Pubblicato da Gamberetta il 14 maggio 2023 @ 00:57 in Senza categoria | No Comments

Ogni tanto mi capita, specie quando sono rimasta per lungo tempo senza una connessione affidabile a Internet, di cedere alla vanità e al masochismo: cerco il mio nome con Google e leggo quello che si dice in giro su di me.

Naturalmente i complimenti mi fanno piacere, e di solito ignoro le critiche. Ma constatato che, a distanza di anni, il piccolo sfogo dedicato al Manzoni nella scuola rimane sempre fonte di disprezzo nei miei confronti, ho deciso di rispondere alle principali obiezioni che mi sono state rivolte.

La critica che in assoluto più spesso mi si rivolge a proposito di quell’articolo è: “Non puoi giudicare con criteri moderni un testo del 1800!!!” È una critica scoraggiante perché significa che una bella fetta di chi ha letto l’articolo non ci ha capito un’acca. Oppure significa che io non mi so spiegare.

Il punto di quell’articolo non era dare un giudizio assoluto sul Manzoni, ma relativo al ruolo che svolge nei Licei italiani. Al Manzoni sono dedicate un bel numero di ore, ne vale la pena?

Il Manzoni può essere anche un bravo scrittore – non lo è, ma accantoniamo questo discorso –, ma è così bravo da meritarsi tutto lo spazio che gli viene concesso? Insieme a Omero e a Dante è probabilmente l’autore più studiato a scuola. È un genio della narrativa mondiale? È su quel livello?

E per rispondere a questa domanda, quali criteri dovremmo usare se non quelli attuali della critica letteraria? Non stiamo discutendo se insegnare il Manzoni nelle scuole del 1800 – per la cronaca, le scuole italiche sono appestate dal Manzoni a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento –, stiamo discutendo se sia il caso insegnarlo adesso.
Non ha molto senso decidere i programmi scolastici del 2000 in base a criteri di scelta del 1800, o no? Si deve studiare ciò che adesso si sa essere utile e formativo.

Per secoli Aristotele è stata l’ultima parola in fatto di spiegazione dei fenomeni naturali, ma se apriamo adesso un libro di fisica è già tanto se viene citato di passaggio nelle note. Questo non significa che Aristotele era scemo o che il suo lavoro non sia importante; vuole dire che il mondo progredisce e avendo a disposizione un numero limitato di ore si cerca di insegnare lo stato dell’arte – chi ha una particolare passione per un determinato argomento lo studierà con maggiore dettaglio all’Università, almeno in teoria. In un ambito di studi specialistici c’è tempo per approfondire l’evoluzione della materia, al Liceo no.
Dunque, la domanda è: anno del Signore 2013, il Manzoni è lo stato dell’arte della narrativa mondiale? E per rispondere a questa domanda è ovvio che devo usare i moderni criteri di analisi, altrimenti dovrei in fisica ancora studiare Aristotele, visto che per i criteri del suo tempo era un genio.

Applicando i criteri attuali il Manzoni scrive da cani: non ha senso studiarlo. Almeno non in modo così approfondito. Concediamogli pure un cantuccio nella storia della letteratura italiana, ma siamo sicuri che il Liceo sia il luogo adatto per esplorare tale materia? Le persone che escono dal Liceo non sanno né leggere né scrivere, non sarebbe meglio incominciare da lì? Che vantaggio porta alla società avere una massa di gente che al massimo conosce a memoria la data di nascita e di morte del Manzoni e sa ripetere balbettando qualche stupidata di commento a capitoli sparsi di un romanzetto rosa ottocentesco?

È uno spreco di risorse allucinante. Ma magari dovrei starmene zitta, ché in fondo potrebbe anche andare peggio di avere il Manzoni a scuola… si veda più avanti.

* * *

Tra l’altro, anche uscendo dal caso specifico, la manfrina del: “Non puoi giudicare un testo del 1800 con i criteri attuali” non ha molto senso. Infatti mi domando: ogni quanti anni dura il diritto di critica? Nel 1860 avrei potuto usare i criteri del 1860 per un testo del 1840 o è già passato troppo tempo? E nel 1855 o nel 1925? Forse funziona così: prima di esprimere giudizi su un testo bisogna leggere tutta la critica letteraria uscita in quell’anno e basare la propria analisi solo ed esclusivamente su quanto desunto da tali testi. Ché anche tornare indietro penso sia sbagliato: mica posso giudicare il Manzoni con i criteri che si usavano nel 1400.

E il genere? Mica potrò giudicare I promessi sposi come se fosse un romanzo rosa – anche se all’occhio del profano proprio così sembra –, o un romanzo storico, o un romanzo di avventura; probabilmente non è giusto farlo rientrare nel novero dei romanzi di genere. Forse non è neppure un romanzo: basti considerare il florilegio delle allegorie che spuntano come margheritine a ogni pagina; forse è un testo filosofico e gli strumenti della narrativa non sono adeguati.

E magari devo anche tenere conto dell’età che aveva il Manzoni quando ha scritto I promessi sposi. Ché non mi sembra giusto giudicare il testo di un quindicenne con gli stessi criteri che si userebbero per quello di un ventenne o di un cinquantenne o magari di un vecchietto novantenne. E ovviamente non posso usare criteri internazionali per un testo italiano, e probabilmente è anche il caso di scendere di più nello specifico: mica vorrai affiancare con lo stesso metro di giudizio uno scrittore napoletano con uno veneziano o torinese! Non trascuriamo poi il sesso, la condizione sociale, eventuali malattie, lo stato di famiglia, ecc. ecc.

Oh, dimenticavo! L’opera omnia! Ché non si può giudicare il primo volume di Harry Potter senza averli letti tutti e sette e magari anche il libro su dove trovare gli animali fantastici e quell’altro su come giocare a Quidditch e magari non farebbe male sapere a menadito ogni fregnaccia che la Rowling ha dichiarato nelle interviste degli ultimi dieci anni… e, allo stesso modo, si può forse giudicare I promessi sposi senza considerare il resto della produzione manzoniana? Senza inquadralo nel più ampio disegno della Provvidenza? No, che diamine! E non guasterebbe anche aver letto tutti i contemporanei italiani del Manzoni, e tutti i contemporanei in tutti i Paesi del mondo, ché sicuramente il Manzoni riceveva cartoline e può aver preso spunto.

In altre parole: questo voler contestualizzare la critica non ha mai fine. Si può sempre affermare che non si può giudicare se non si adottano obbligatoriamente i tal parametri o i tal altri. Bisogna tenere conto che è un romanzo del 1800, bisogna tenere conto che è un romanzo rosa/storico/filosofico/quello-che-ti-pare, bisogna tenere conto che l’ha scritto un uomo, bisogna tenere conto che l’ha scritto nel contesto di altre opere, bisogna tenere conto che l’ha scritto a una certa età, ecc.

Non è molto più semplice, più pratico e più utile buttare a mare questa zavorra e adottare criteri che si basino esclusivamente sul testo? 1800 o 2000, ricco o povero, uomo o donna, nobile o bifolco, dotto o ignorante è solo contorno. La parte importante, quella sulla quale ci si dovrebbe concentrare sono le parole.

Le parole di un romanzo non cambiano con lo scorrere del tempo o al mutare delle condizioni sociali. E parole scritte con maestria, parole in grado di accendere la fantasia del lettore, suscitano emozioni. Indipendentemente che il lettore creda che il testo è un romanzo dell’ottocento o che sia convinto provenga da un ebook autopubblicato uscito ieri.
Se viceversa le parole rimangono parole e non suscitano emozioni, be’ siamo di fronte a un testo mediocre. Potremo discutere fino a sgolarci sul valore storico di tale testo, ma rimane un testo mediocre.

Comunque la critica, “Non puoi giudicare il Manzoni con i criteri attuali”, non credo sia davvero espressione del pensiero dei più che la propugnano. Credo che sia un paravento, la foglia di fico del politicamente corretto, per evitare di esprimere esplicitamente le loro vere critiche. Perché in realtà sono incazzati con me, e la loro vera critica è: “Tu non sei nessuno! Come osi, come osi criticare il Manzoni, eh? Se si studia a scuola vuole dire che è bravo! Schiere e schiere di professori e critici lo lodano e tu con che coraggio affermi il contrario? Vorrei farti rimangiare tutta la tua boria e la tua supponenza!”
Ci vedo anche un pizzico di invidia, per la serie: “Noi facciamo i bravi, obbediamo alle regole, se il professore ordina di dire che il Manzoni è bravo noi eseguiamo; chi ti dà il diritto di fare diversamente? Come ti permetti? Chi ti credi di essere?”
Credo di essere una persona con un cervello. Funzionante.

Critiche sullo stile: “Chi sei tu per osare giudicare il Manzoni?”, “Se si studia a scuola, vuole dire che il Manzoni è bravo!”, “Così tanti professori e studiosi hanno dedicato libri e libri al Manzoni, dunque è un genio”, ecc. si basano sul principio di autorità e per questa ragione sono molto difficili da smontare. Non hanno una struttura logica, sono critiche del tipo: “È così e basta!”
Ma io sono buona e proverò lo stesso a far aprire gli occhi a qualcuno.

L’autorità della scuola

Il ragionamento sull’inattaccabilità del Manzoni in base al fatto che è studiato a scuola si basa su una considerazione circolare:

Ragionamento circolare
A tanti pare intelligente ragionare in questa maniera

È un serpente che si morde la coda e all’apparenza non ci sarebbe modo di rompere il circolo. Ma forse un paio di esempi possono farvi dubitare sul fatto che essere studiati a scuola implichi aver dimostrato particolare bravura o talento.
Infatti indovinate chi si studia adesso nei Licei? La nostra amata Licia! Suoi brani compaiono nelle antologie per il biennio della scuola superiore.

Ho recensito in un lungo e in largo le opere di Licia e mi sembra superfluo ribadirne la scarsissima qualità. Eppure eccola lì a scuola, fianco a fianco con il Manzy. Come direbbe Lara Manni: riflettiamo.
Ma i cerebrolesi non hanno bisogno di meditarci sopra, già li sento squittire: “Gamberetta, sei solo invidiosa! Evidentemente Licia Troisi è un genio, come è un genio il Manzoni!”
Be’, allora sono un genio pure io: persino io stavo per finire in un’antologia scolastica. Qualche anno fa, il blog dei Gamberi avrebbe dovuto essere citato nell’antologia per i bienni della scuola superiore I sentieri delle parole (edita da Zanichelli). Il blog veniva definito “celebre in rete” e le mie recensioni giudicate “molto accurate e critiche”.

Come è possibile? Tra l’altro all’epoca il blog era aperto da appena poco più di un anno e non aveva ancora raggiunto l’apice della sua fama, né erano presenti alcuni degli articoli più interessanti.
È possibile grazie al fattore che regola il mondo editoriale (non da adesso e non solo Italia): l’amykettismo.

In quel periodo stavo aiutando Lara Manni con il suo romanzo di esordio, Esbat, e lei credeva che fossimo amiche. Lara Manni era in realtà Loredana Lipperini, e la Lipperini era amyketta di Giovanna Cosenza che doveva curare alcune pagine sulle “Narrazioni in rete” per l’antologia di cui sopra. E così eccomi anche io a scuola! Non a caso nell’antologia veniva citata anche la Manni stessa, oltre ad altri amyketti di entrambe, tipo i Wu Ming.

Cosa è successo poi? È successo che ho letto la bozza di “Narrazioni in rete” (la potete recuperare in PDF qui) e l’ho trovata piena di stronzate da cima a fondo, a cominciare da questa definizione di blog goffa e imprecisa in maniera imbarazzante:

Un weblog o blog – che vuol dire «sito (web) che tiene traccia (log)» – è un programma che permette a persone anche poco esperte di pubblicare in tempo reale testi sul web, corredandoli di immagini, video, link. [i grassetti sono nell'originale]

Mi piacerebbe sapere queste gegni come tradurrebbero captain's log...

Così, dopo una breve discussione sul blog di Giovanna Cosenza, ho chiesto che gentilmente i Gamberi[1] venissero rimossi da tale fogna: sono stata accontentata. E da quel che ne so, almeno gli strafalcioni più evidenti sono stati corretti nella versione definitiva. Ma per esempio questo passaggio è rimasto:

In realtà, i fan che si appassionano alle storie scritte da altri, traendone ispirazione per produrne di proprie, a volte scrivono con una cura e una creatività che, nei casi migliori, non hanno nulla da invidiare agli scrittori professionisti. Tanto che alcune case editrici hanno cominciato a guardare con interesse a questi siti, per cercare nuovi talenti. E i primi risultati si vedono: nel 2009, ad esempio, viene pubblicato e distribuito in libreria Esbat di Lara Manni, romanzo nato in rete nel 2007 come fan fiction di Inuyasha, e per oltre un anno discusso accanitamente dai fan di quel manga.

In altre parole viene insegnata a scuola la favoletta che Lara Manni è stata pubblicata da Feltrinelli perché “scoperta” grazie alla sua fan fiction[2]. E la disonestà intellettuale prosegue quando si parla dell’anno di discussioni accanite intorno alla fan fiction della Manni medesima. In realtà non è andata proprio così (si veda qui alla voce “Esbat era una storia molto popolare sull’EFP?”).

A scuola bisognerebbe dire le cose come stanno: pubblichi con un grosso editore se conosci qualcuno. Non c’è molto da girarci intorno. Ma d’altra parte lo scopo della scuola non è insegnare – se si impara un po’ di matematica o di fisica o di altre materie è solo incidentale –, lo scopo è addestrare le persone all’obbedienza.
L’obbedienza all’autorità diventa talmente una seconda natura che si possono pubblicare libri scolastici senza che ogni affermazione sia documentata e sia collegata all’appropriata fonte, e nessuno lo trova strano.

Perciò prima di assumere acriticamente che se qualcosa viene insegnato a scuola è bello, buono, vero & giusto, pensateci dieci volte. Vi ho appena mostrato come una stronzata possa finire sui banchi scolastici, non c’è alcuna buona ragione per credere che sia un episodio isolato.

L’autorità dei critici

Il Manzoni sarebbe bravo perché un certo numero di critici sostiene che sia così. E se non bastasse l’autorità di questi critici considerati nel loro insieme, spesso i singoli soloni hanno alle spalle ulteriori autorità ben più significative, come per esempio la scuola stessa (professori universitari) o magari l’editoria (scrivono su giornali a larga diffusione, i loro saggi sono pubblicati da grosse case editrici).

Abbiamo già visto che l’autorità della scuola può essere molto relativa, e per quanto riguarda l’editoria basta scorrere le recensioni su questo blog: le case editrici, anche quelle più grosse e/o prestigiose, pubblicano regolarmente merda.
Accantonate perciò queste due fonti di autorità, entriamo un po’ più nello specifico. Io sono spesso sbeffeggiata quando messa a confronto con i Veri Critici Letterari; sì, ok, posso gracchiare qualcosa di intelligente di tanto in tanto, ma la Vera Critica Letteraria, quella con le maiuscole, è ben altro! Ci vogliono ben altri strumenti intellettuali, rispetto a quelli che potrebbe mai avere una Gamberetta qualunque, per giudicare un testo, specie poi una pietra miliare della narrativa di ogni Paese e di ogni epoca come I promessi sposi!

Come spesso accade questo genere di affermazioni non sono corredate da esempi o da dimostrazioni, si basano solo sul principio di autorità. E allora vediamo un confronto tra Gamberetta e i Veri Critici riguardo il Manzoni.

Prenderò un brano da I promessi sposi che ho notato suscitare l’interesse di più di uno studioso. È la “vigna di Renzo”, una lunga descrizione agreste presa dal capitolo XXXIII. È qui di seguito. Sì, lo so, è lunga e non particolarmente eccitante. Mi spiace, se vi annoiate sappiate solo che siete degli stupidi ignoranti e non capite il genio del Manzy.

E andando, [Renzo] passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori potè subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna “nel luogo di quel poverino,” come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo.

La frase chiave è l’ultima: il Manzoni ammette candidamente che Renzo se ne è fregato altamente della vigna; e dunque queste cinquecento e passa parole di descrizione avrebbero pure potuto sparire, dato che non hanno legame con la storia. La genialità qui consiste nell’aver ammesso l’inutilità della vigna dopo averla descritta. Il Manzoni mostra il dito medio al lettore: “Sei stato lì a tentare di districarti in mezzo a questo muro di parole soffocante, magari andandoti a cercare su wikipedia i nomi delle piante che non conoscevi, ebbene hai perso tempo e basta. La vigna non c’entra un tubo con la storia, è una descrizione fine a sé stessa. Ah, ah, ah, quanto sono furbo!”

Il tasso barbasso
Tasso barbasso

Il Manzoni, scrivendo:

Ma questo non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo.

è ironico? Sì. È divertente? No. Il lettore è allontanato dalla storia e sapere che è stata una mossa scientemente predisposta dall’autore non mitiga la situazione. Anzi, oltre al danno si aggiunge la beffa. Un qualunque editor un minimo competente avrebbe battuto la mano sulla spalla del Manzoni e gli avrebbe detto: “Su, dai, taglia ‘sta sbrodolata sulla vigna, non fa ridere. O se invece proprio ti piace, almeno mettici Renzo in mezzo, fallo camminare trai i rovi, fagli annusare gli odori, fallo pungere con le spine, cerca di far emozionare un attimo il lettore che ti deve seguire nella tua ossessione per la verzura.”

Mettendo da parte il fatto che si tratta di una descrizione inutile – e per piacere non mi si venga a raccontare che nel 1840 non esisteva il concetto letterario di descrizione inutile, non è una trovata moderna, è roba risaputa dai tempi di Orazio – ed entrando nel merito, si tratta di un brano bruttino.
Il problema è che il Manzoni è troppo generico: sono citate un gran numero di piante, erbacce e verdure assortite, ma poche sono descritte nello specifico. Frasi come:

Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante;

oppure:

Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri.

Non trasmettono particolari immagini. In più sono ridondanti: “un guazzabuglio di steli” non diventa più “guazzabuglioso” se si specifica che gli steli “facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso;”. Il Manzoni vuole comunicare la confusione che regna nella vigna, e si riduce a raccontarla: “una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori [...]”. Purtroppo in narrativa non funziona così.

Acetoselle
Acetoselle

La descrizione migliora quando il Manzoni entra nello specifico, per esempio:

l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri;

adesso qualcosa si vede. Niente di speciale e se il lettore non ha il fetish dell’uva turca è difficile che possa essere stuzzicato da qualche genere di sentimento, lo stesso almeno lo schermo mentale non è più opaco.
È apprezzabile anche un tentativo di dare un minimo di movimento alla descrizione, come in questo passaggio, dove la zucca e la vite si sostengono a vicenda:

là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio.

C’è poi da notare l’assenza di suoni e di odori. Fa uno strano effetto, sembra che la vigna sia dietro una parete di cristallo. Il che contrasta con il tema della descrizione: il mostrare la natura selvaggia; quello che succede agli ambienti naturali se l’uomo non li cura più. Le piante e i fiori crescono rigogliosi ma per qualche ragione non hanno odori, né attirano insetti o altri animali che potrebbero produrre rumori.
Il Manzoni l’ha fatto apposta? Non ne ho idea, ma rimane un errore. È un elemento dissonante che non aiuta il lettore a seguire una descrizione che tra l’altro alla fine scoprirà essere superflua.
Nel complesso ho letto descrizioni peggiori, questa magari potrebbe anche essere accettabile se questa vigna avesse un ruolo nella storia. Non è così. Difficile aggiungere altro, dato che non abbiamo il punto di vista di un personaggio, ma quello dell’autore stesso, e perciò non si può sapere se il cogliere determinati dettagli sia corretto o meno.
A grandi linee è quello che scriverei se mi commissionassero un articolo che analizzasse la “vigna di Renzo”.

Uva turca
Uva turca

Ma io sono Gamberetta e non certo un Vero Critico Letterario. Vediamo un paio di loro cosa dicono. Cominciamo con il primo:

Che nella descrizione non ci sia nessuna intenzione di raffigurazione realistica del luogo [...] è dimostrato dal commento finale del narratore, che interviene a giustificare il suo indugio (o, meglio, ad alludere a un significato di esso diverso da quello apparente di pieno sfoggio descrittivo): “Ma questo [Renzo] non si curava d’entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo”.
Non una funzione narrativa, quindi: il Manzoni stesso parla di “schizzo” per la sua descrizione, come di una zona di discorso a sé stante, quasi autonoma dallo svolgersi continuato della vicenda, astratta da essa; e neppure un abbandono a un piacere del descrivere pieno e libero, a un’ampia e compiaciuta abilità di sguardo che sa cogliere con un ordine perfetto e una cura scrupolosa ogni particolare dello spettacolo naturale che gli appare, una scommessa, un esercizio “barocco” di bravura nel cuore di un romanzo che tanti rapporti ha, a partire dalla “storia”, con il seicento: una pagina alla Bartoli, quasi, con un analogo gusto della distinzione descrittiva nelle difficoltà e nelle complicazioni del reale, del lessico non privo di ambizioni scientifiche (“capolini”, ecc.; ma soprattutto l’attenzione al particolare della descrizione delle varie piante, tipica proprio delle descrizioni dei libri o dei lessici botanici). Se non che una interpretazione del genere può sostenersi soltanto se si stacca completamente il passo dal resto del romanzo, dal sistema complessivo di stilizzazione che il Manzoni vi costruisce: il piacere della descrizione, come elemento gratuito, come pittura di genere o come operazione di ordinamento accurato, quasi scientifico delle cose, non si incontra mai nel Manzoni, che tende a caricare sempre gli elementi paesistici di una funzione patetica di continuazione, attraverso gli oggetti, della difficile combinazione di rapporti interni che deve condurre all’equilibrio fra la rappresentazione del mondo umano e della natura nello stato di caduta e l’immediato giudizio apposto a ogni carattere difforme o negativo della realtà, l’integrazione del difetto, della colpa, della sventura, dal punto di vista di Dio.

La faccenda continua, ma penso che già così sia sufficiente. Questa roba l’ha scritta Giorgio Bàrberi Squarotti, critico letterario, poeta e per più di trent’anni professore di Letteratura italiana all’Università di Torino. Penso che sia ottimo come esemplare di Vero Critico, giusto?
Be’, io mi vergognerei a esprimermi in questa maniera vaga e confusa, e mi vergognerei a morte se fossi anche professore di Letteratura italiana.[3]

Radicchielle
Radicchielle

Ma andiamo ad analizzare in dettaglio il commento al brano del Manzoni da parte di un Vero Critico: lo Squarotti ci spiega che la descrizione della vigna non ha una funzione narrativa (e siamo d’accordo) e “neppure” è “un abbandono a un piacere del descrivere pieno e libero” (se lo dice lo Squarotti…) ma forse è… “una scommessa”? Qui c’è la prima ambiguità: il “neppure” regge anche “una scommessa” o no? Inoltre, parlando di descrizioni, cosa significa che una descrizione (non) è una scommessa? Il Manzoni scommette che il lettore arriverà alla fine della descrizione senza sbadigliare? Mah.
Con l’“esercizio “barocco” di bravura” siamo punti a capo che con la scommessa: la descrizione della vigna è esercizio barocco o non lo è? “Neppure” un esercizio barocco o no? Lasciamolo in sospeso.

Lo Squarotti prosegue scrivendo: “Se non che una interpretazione del genere [...]” Quale interpretazione? Che la descrizione non abbia funzione narrativa, non sia un abbandono, non sia una scommessa, non sia un esercizio? O l’interpretazione è che lo sia funzione narrativa, abbandono, scommessa, esercizio? O magari no a funzione narrativa e abbandono, ma sì a scommessa ed esercizio?
D’altra parte “una interpretazione del genere può sostenersi soltanto se si stacca completamente il passo dal resto del romanzo”, ma prima aveva sostenuto che quel termine, “schizzo”, usato dal Manzoni stesso, implicasse “una zona di discorso a sé stante, quasi autonoma dallo svolgersi continuato della vicenda, astratta da essa”. Dunque, noi poveri tapini che non aspireremmo mai alle vette del sapere accademico, come dobbiamo comportaci? Dobbiamo interpretare la descrizione della vigna come inserita nel contesto dell’opera, o come brano a sé stante?
Non credo lo sapremo mai.

La frase finale è la più ostica: “[il Manzoni] tende a caricare sempre gli elementi paesistici di una funzione patetica” e fin qui c’è ancora un senso, ma attenzione la funzione patetica è “di continuazione [...] della difficile combinazione di rapporti interni che deve condurre all’equilibrio fra la rappresentazione del mondo umano e della natura nello stato di caduta” e già la mia mente di ignorante vacilla, e non ho ancora considerato: “e l’immediato giudizio apposto a ogni carattere difforme o negativo della realtà, l’integrazione del difetto, della colpa, della sventura,” e si badi bene tutto ciò: “dal punto di vista di Dio.”
E qui un bel: Santo Cielo! ci sta tutto.

In sintesi, cosa pensa lo Squarotti della descrizione della vigna? Non ne ho idea. E ne non ho idea perché ha scritto un brano confuso e privo di significato. Aria fritta. Naturalmente potrebbe aver scritto in questo modo semplicemente perché così non potrà mai essere criticato. Non potrò mai affermare che lo Squarotti sbaglia, visto che non si capisce quello che dice.

Pur con i suoi limiti, il concetto di falsificabilità di Popper dovrebbe essere tenuto in maggior considerazione, anche in ambito umanistico.
Karl Popper spiega che una teoria per essere scientifica deve poter essere provata falsa, deve essere possibile costruire un esperimento che dimostri che la teoria è sbagliata. Altrimenti non è una teoria scientifica.

Se io affermo: “Mangiare l’uranio fa male”, sto esponendo una teoria scientifica. Infatti se qualcuno è convinto del contrario non avrebbe alcun problema a dimostrarlo: basterebbe che lui o chi per lui ingerisse l’uranio rimanendo in salute.
Ma se io affermo: “Esistono gli unicorni”, non sto esponendo una teoria scientifica. Infatti non potrei mai costruire un esperimento per negare l’esistenza degli unicorni: mi toccherebbe avere contemporaneamente sotto controllo ogni angolo dell’Universo e verificare che in ognuno non vi siano nascosti degli unicorni, il che è all’atto pratico impossibile.

Gli unicorni non sono ammessi
Da notare che la ragione per cui “Esistono gli unicorni” non è una teoria scientifica non ha niente a che vedere con il fatto che si parli di unicorni; non è una teoria scientifica perché l’enunciato è troppo generico. Se proponessi: “Esistono gli unicorni in camera mia”, sarebbe una teoria scientifica, visto che per provarla falsa basterebbe che qualcuno si affacciasse in camera mia e constatasse l’eventuale assenza di unicorni

Finché, parlando di una descrizione, elenco una serie di verbi e dico che l’uso di tali verbi implica un conferire dinamicità al testo, posso essere smentita in vari modi: per esempio i verbi da me citati potrebbero non esserci; oppure il loro significato potrebbe essere diverso da quello che io credo che sia; ecc. Partendo da una teoria scientifica si può sviluppare un dialogo e può aumentare ulteriormente la conoscenza dell’argomento in esame.

Ma se io scrivo che la funzione patetica conduce all’equilibrio tra la rappresentazione della natura in stato di caduta e ogni carattere difforme della realtà dal punto di vista di Dio non ci può essere falsificabilità. Non potrò mai dimostrare il contrario, perché non ho alcun appiglio sul quale costruire la mia contro prova. Ho solo parole vuote. Non ho guadagno in partenza (la mia conoscenza del Manzoni rimane identica, prima e dopo lo Squarotti) e non avrò mai guadagno neanche in futuro, dato che mancano le basi per un dialogo costruttivo.

* * *

Tornando al brano dello Squarotti, calo un velo pietoso sui dettagli, sul tipico atteggiamento di una larga fetta della critica letteraria di complicare le cose per il gusto di complicarle. Per cui, ad esempio, invece di scrivere “lo stile” del Manzoni si scrive “sistema complessivo di stilizzazione”. Come se ci cascasse ancora qualcuno – be’, in effetti succede!

Il “bello” è che già mi vedo schiere di studenti a ripetere stronzate come la dissertazione dello Squarotti di cui sopra ad assistenti annoiati che stanno solo attenti a cogliere quelle quattro parole chiave che dimostrano come l’interrogato di turno abbia studiato. Non importa che abbia sprecato ore e ore della sua vita a imparare a memoria una cazzata dietro l’altra, l’importante è che abbia dimostrato impegno nei confronti del libro del professore. Se è così riceverà il suo bel trenta e i complimenti. Altrimenti si sarà meritato un’occhiata di biasimo e l’invito a ripresentarsi, questa volta si spera più consapevole del suo ruolo: il pappagallo che deve ripetere a comando senza pensare.
Sul serio, come si fa a insegnare per trent’anni Letteratura italiana in un’Università senza possedere neanche una minima capacità di esprimersi?
Ma visto che lo Squarotti è andato finalmente in pensione chiudiamola lì con lui e passiamo al secondo critico, che in questi termini si esprime sulla descrizione della vigna:

Solo che si rifletta sul fatto che il primo piano della vigna non è condotto dallo sguardo del personaggio (Renzo «non istette tanto a guardarla, quanto noi a farne questo po’ di schizzo»), non è difficile scorgere i significati simbolici del passo, che dai topoi religiosi delle vigne biblico-evangeliche si allarga all’immaginario shakespeariano, fino a convertirsi nella rappresentazione allegorica – individuata da Romano Luperini[4] – di un’intera civiltà sconvolta dalla peste. Il podere manzoniano trascende così il suo valore puramente naturalistico o agronomico per assurgere a emblema di una tragica vicenda storica: come il «guazzabuglio di steli» o la «marmaglia di piante» hanno devastato l’ordine della vigna, la peste e la guerra, liberando gli istinti primordiali dell’uomo, lo hanno ricondotto a una fase primitiva e selvaggia. Non è una virtuosistica digressione quella che va in scena nel piccolo appezzamento, semmai una fase ulteriore dell’inchiesta sul senso della storia e sui valori della giustizia e della morale, fortemente coesa all’ideologia contestuale del romanzo. Se il «rovo» nel podere «era per tutto» fino a «contrastare il passo» al padrone stesso, ciò avviene perché la natura, quando non è regolata dalla tecnica, rivela tutta la sua violenza distruttiva e originaria, allo stesso modo in cui una società, quando non è soggetta ai valori della convivenza civile, regredisce fino al tempo oscuro della barbarie e dell’anarchia tribale.

A sfornare questa patacca è il dottor Stefano Pavarini che non è abbastanza famoso da essere su wikipedia, ma tiene seminari alla facoltà di Lettere dell’Università di Bologna.

Zucca salvatica
Zucca salvatica

Bisogna dare atto al Pavarini di cavarsela meglio con l’Italiano rispetto al collega. Il passo di cui sopra è molto più comprensibile. Ma neanche il Pavarini si avvicina all’esporre una tesi falsificabile: infatti, dopo aver escluso perché sì che la descrizione della vigna sia “una virtuosistica digressione”, il Pavarini sale beato sulla carrozza dell’interpretazione metaforica/simbolica/allegorica.
La vigna è “un’intera civiltà sconvolta dalla peste.” E come si può dimostrare il contrario? Ogni interpretazione metaforica/simbolica/allegorica è valida, essendo un’invenzione del critico di turno, senza alcun appiglio nel testo. Il critico di turno potrà sbraitare finché gli pare che la “marmaglia di piante” è la guerra(sic), rimane il fatto che nel romanzo si parla di “marmaglia di piante” e non di “guerra”. Probabilmente neppure se il Manzoni redivivo venisse a dirgli che la “marmaglia di piante” è solo una “marmaglia di piante” il critico ci crederebbe. Non a caso quando il Manzoni ha ammesso che la sua descrizione è uno “schizzo”, il Pavarini ha negato categoricamente che si tratti di una digressione.
Passando per simbolismo e allegoria si può affermare tutto e il contrario di tutto senza tema di smentita – e qui comincia a emergere uno schema: forse lo scopo della critica letteraria non è generare conoscenza, ma far accumulare pubblicazioni non criticabili ai suoi esponenti.

Inoltre trovo curioso come il rilevare significati simbolici in un brano dovrebbe attestarne la qualità: usare cinquecento e passa parole per comunicare che “una società, quando non è soggetta ai valori della convivenza civile, regredisce fino al tempo oscuro della barbarie e dell’anarchia tribale.” non dimostra particolare abilità narrativa; se la descrizione della vigna fosse una digressione fine a sé stessa – come è – avrebbe maggior dignità.

Ci sono autori che oltre a essere scrittori sono anche pizzaioli, fisici nucleari e ufficiali di marina; non vi è dubbio che costoro possono, in base alle loro conoscenze extra narrativa, inserire nei propri testi dei significati simbolici non banali, tuttavia questa è l’eccezione, non la regola. Normalmente uno scrittore è solo uno scrittore, dunque per quale diamine di motivo dovremmo fregarcene qualcosa del suo simbolismo? Quante ricerche ha svolto il Manzoni sulle società tribali prima di tirarle in ballo nella sua allegoria? Sul serio mi devono insegnare a scuola un autore che per dire: “Se viene la peste e collassa l’organizzazione sociale poi ognuno fa un po’ quello che gli pare” impiega cinquecento parole condite da due dozzine di verzure diverse?
Se assumiamo che ci siano significati simbolici – il Pavarini ne è bovinamente convinto – il Manzoni fa la figura del fesso, dato che questi significati sono banali ed espressi in modo goffo; e se togliamo il simbolismo abbiamo solo una mediocre descrizione fine a sé stessa, il genere di brano che quando un autore comincia ad avere un poco di esperienza taglia senza pensarci due volte.

La morale della favola

Sto affermando che tutto quello che si insegna a scuola in ambito letterario è sbagliato? No. Sto affermando che tutta la critica letteraria è composta da gonzi incompetenti? No. Sto affermando che tutti gli studi sul Manzoni sono inutili e scritti con i piedi? No.
Ho portato solo qualche esempio sparso, sarei ben lungi dal dimostrare una delle affermazioni di cui sopra. No, la morale della favola è un’altra, la morale è che non bisogna essere pigri. Se si ha interesse per qualche ramo del sapere (per esempio la narrativa), occorre rimboccarsi le maniche e leggere, studiare, sperimentare, discutere, fantasticare. Non ci si può acriticamente adagiare su quello che dicono gli altri solo perché sono professori all’Università, o pubblicano con grosse case editrici, o curano antologie scolastiche.

Sarebbe bello se lo fosse, ma il mondo non è giusto. Diventano professori universitari degli emeriti imbecilli e finiscono regolarmente nei programmi scolastici autori che sarebbe meglio limitassero la loro “arte” allo scarabocchiare sui muri dei cessi. Non ha senso fidarsi. Non quando Internet permette così facilmente di documentarsi e di confrontare idee e teorie.
Siete liberissimi di arrivare alla conclusione che il Manzoni è un genio, e io non ne capisco nulla di critica letteraria, ma sarebbe carino se ci arrivaste ragionando con la vostra testolina e non semplicemente perché il resto del gregge la pensa in questo modo. E magari, una volta avviato il cervello, potreste scoprire che invece la sottoscritta, almeno ogni tanto, ha ragione.

Luffa
Il fiore della luffa. No, la luffa non è nella vigna di Renzo, volevo vedere se eravate attenti

E per chiudere con il Manzoni: non ho più diciassette anni, e i ricordi scolastici per fortuna sbiadiscono in fretta. Ora come ora non ho nulla contro I promessi sposi di per sé o contro il loro autore. Mi spiace solo constatare come al Liceo vengano sprecati tempo e risorse che potrebbero essere impiegate meglio a beneficio di tutti. Ma di questo ho già parlato nell’articolo originale.

* * *

note:
 [1] ^ Anzi i Gambery con la “y”, così era chiamato il blog nel testo. Mi torna in mente la disgraziata recensione della Lipperini a Gli eroi del crepuscolo su Repubblica: per lei erano Eroi al crepuscolo(sic).

 [2] ^ Per chi fosse a digiuno dell’intera faccenda: Lara Manni ha pubblicato con Feltrinelli perché in realtà era Loredana Lipperini. La Lipperini aveva già i giusti contatti essendo il suo saggio Ancora dalla parte delle bambine uscito proprio per Feltrinelli. Inoltre a una mia precisa domanda sull’argomento, Lara Manni/Loredana Lipperini mi rispose che non solo il suo editore non seguiva i siti di fan fiction, ma neanche sapeva che cosa fosse una fan fiction.

 [3] ^ Tecnicamente quando lo Squarotti ha scritto questa roba non era ancora professore: il testo da cui ho tratto il brano viene da un volume del 1965 – Teoria e prove dello stile del Manzoni – mentre il tizio assume la cattedra di professore solo nel 1967. Ma non credo che la questione cambi molto.

 [4] ^ Per chi fosse curioso, il Luperini sostiene che:

La vigna di Renzo appare un emblema allegorico della feconda malignità della natura, della sua tendenza a produrre pulsioni incontrollabili, distruttive e aggressive, a manifestarsi vitalmente nella peste come nella società, a germinare spontaneamente nelle piante come nei corpi, nelle erbacce come nelle anime. La vigna inselvatichita non è solo la società umana; è il ‘delirio’ (il termine è di Manzoni) della peste.



URL dell'articolo: http://fantasy.gamberi.org/2023/05/14/il-manzoni-continua-a-scrivere-da-cani/

Gamberi Fantasy