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Persa per strada

Pubblicato da Gamberetta il 31 dicembre 2009 @ 16:03 in Libri,Non Fantasy,Recensioni,Straniero | 84 Comments

Copertina di The Road Titolo originale: The Road
Autore: Cormac McCarthy

Anno: 2006
Nazione: U.S.A.
Lingua: Inglese
Editore: Knopf

Genere: Fantascienza post apocalittica
Pagine: 256

Qualche tempo fa una lettrice del blog mi raccomandava di occuparmi del romanzo La Strada di Cormac McCarthy. Io ero un po’ scettica perché McCarthy non è un autore di narrativa fantastica e non ci si improvvisa scrittori di genere dall’oggi al domani. Ma dato che il romanzo si trova gratis e non è molto lungo, l’ho letto. È un discreto romanzo, scritto a tratti molto bene, però lascia il tempo che trova. Non aggiunge niente all’infinita schiera di romanzi post apocalittici che inizia già nel 1826 con The Last Man di Mary Shelley.

Nota: ho letto il romanzo in inglese. Non avevo voglia di rileggerlo in italiano, però, da alcuni brani presi a caso, mi pare che quella di Martina Testa per Einaudi sia una traduzione adeguata. Infatti la userò per gli estratti contenuti in questa recensione.

Per chi volesse leggere il romanzo, può trovarlo in inglese su gigapedia (per maggiori informazioni su gigapedia si veda questo articolo):

Copertina di The Road The Road di Cormac McCarthy (Knopf, 2006).

Oppure in italiano su emule. Occorre cercare:

Icona di un mulo Bluebook.0376.ITA.Cormac.McCarthy.La.Strada.rar (900.610 bytes)

Copertina de La Strada
Copertina dell’edizione italiana

Trama

Nel prossimo futuro, una non meglio specificata catastrofe ha colpito la Terra. Non è mai chiarito cosa sia successo – ci sono indizi che possa essere stata una guerra atomica, ma è un’ipotesi come un’altra –, sta di fatto che le città sono in rovina, il cielo è sempre coperto, la cenere è ovunque, fa un freddo cane, non cresce più niente, gli animali sono tutti morti e i pochi uomini sopravvissuti spesso sono costretti a mangiarsi a vicenda per non crepare di fame.

In questo scenario apocalittico si aggirano l’uomo e suo figlio, un bambino di età imprecisata. Il loro scopo è percorrere la strada del titolo verso Sud. Non sanno cosa li aspetti a Sud, hanno solo una vaga speranza che a Sud il clima sia meno inclemente, o forse che a Sud esista qualche comunità umana che non sia una banda di cannibali. In realtà il trascinarsi verso Sud è una specie di scusa che si danno per non cedere alla disperazione e lasciarsi morire.
L’uomo, per buona parte del romanzo, spinge a fatica un carrello della spesa che contiene le provviste dei due. È una sorta di versione da supermercato di Lone Wolf and Cub.

Fotogramma da The Road
L’uomo e il bambino in un fotogramma del film The Road, tratto dal romanzo. Il film è uscito nei cinema americani il mese scorso

Fotogramma da Lone Wolf and Cub
Ogami Itto e suo figlio Daigoro dal film Lone Wolf and Cub: Baby Cart to Hades

In pratica non compaiono altri personaggi. E qui sta il primo problema: non succede mai niente. Anche i rari incontri con i cannibali si risolvono sempre in poche pagine (per altro molto ben scritte, le fughe precipitose dei protagonisti creano la giusta tensione) e senza conseguenze. Lo scenario è monotono e l’azione è ripetitiva: disperarsi – avere fame – cercare da mangiare – ingozzarsi – disperarsi – avere fame – cercare da mangiare – fuggire dai cannibali – ingozzarsi – disperarsi – e così via.
Data l’ambientazione è uno svolgersi realistico degli eventi, rimane il fatto che sia un pochino noioso. Per fortuna McCarthy non la tira troppo per le lunghe, e fa concludere il romanzo in poco più di 200 pagine.

Non aiuta il coinvolgimento che due dei principali “incidenti” non siano il massimo che si poteva ideare…
I due protagonisti sono giorni che non mangiano. È difficilissimo scovare qualcosa da mettere sotto i denti perché non cresce più niente, gli animali sono morti, case e negozi sono già stati razziati. I due, invece di schiattare, trovano per terra una botola che li conduce in un bunker dove ci sono scorte per sfamare un esercito. Persino uova, che non si capisce come siano rimaste commestibili dopo anni.
Questo episodio del bunker non è un evento impossibile, ma puzza molto di pigrizia e Deus Ex Machina.

Prima, i due avevano scoperto un’altra botola, questa volta nel pavimento di una villa. Aprono la botola e:

bandiera EN He started down the rough wooden steps. He ducked his head and then flicked the lighter and swung the flame out over the darkness like an offering. Coldness and damp. An ungodly stench. The boy clutched at his coat. He could see part of a stone wall. Clay floor. An old mattress darkly stained. He crouched and stepped down again and held out the light. Huddled against the back wall were naked people, male and female, all trying to hide, shielding their faces with their hands. On the mattress lay a man with his legs gone to the hip and the stumps of them blackened and burnt. The smell was hideous.

bandiera IT [l'uomo] Cominciò a scendere gli scalini di legno grezzo. Chinò la testa poi accese l’accendino e protese la fiammella verso il buio come un’offerta. Freddo e umidità. Un puzzo inumano. Il bambino gli si aggrappava al giaccone. Intravedeva una parete di pietra. Un pavimento di argilla. Un vecchio materasso macchiato di scuro. Si chinò, scese un altro gradino e illuminò lo spazio davanti a sé. Rannicchiate contro la parete opposta c’erano delle persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi, riparandosi il viso con le mani. Sul materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L’odore era micidiale.

Poi i due scopriranno che la villa è abitata da un gruppo di cannibali. Qual è il problema? È che non ha senso per i cannibali avere prigionieri. Non c’è cibo da nessuna parte, dunque non si possono nutrire i prigionieri, dunque ogni giorno che passa divengono più magri. Le condizioni sono tali per cui è assurdo sprecare cibo in quella maniera. Non si può neanche invocare la “pazzia” dei cannibali, perché questo gruppo di cannibali organizza pattuglie e predispone posti di guardia – non sono folli assassini, è gente razionale.

Come non succede niente nel mondo, così poco o niente succede nella testa dei personaggi. Sono una coppia di disgraziati disperati all’inizio, sono una coppia di disgraziati disperati alla fine. Per carità, è realistico: se non ti succede niente, la tua personalità non cambia. Però anche qui si poteva far meglio. In particolare ho trovato stucchevole il dettaglio della “bontà”. I due si ripetono a vicenda di essere i “buoni”, di avere dei principi; per esempio loro non mangeranno mai carne umana. Ok, ma mi sarebbe piaciuto che l’autore mettesse alla prova i loro propositi, e questo non succede.
Trovo interessante che quando i due stanno morendo di fame capiti loro il bunker – vedi spoiler precedente – e invece capiti di poter mangiare il neonato allo spiedo quando non sono così disperati. Che senso ha il neonato allo spiedo? A parte il gusto per l’orrido, che, ben inteso, apprezzo. Il gore è sempre piacevole.

McCarthy gioca con la pistola, e questo l’ho trovato irritante.
L’uomo ha una pistola e pochissimi proiettili. Via via che li consuma cresce in lui la preoccupazione di non avere un’arma con cui difendersi. Quando affida la pistola al bambino e il bambino la perde è un dramma, ma per fortuna i due riescono a ritrovarla subito. Ci si aspetta da un momento all’altro che la pistola e/o la mancanza di proiettili avranno un ruolo importante per la storia, invece non succede. La pistola rimane solo di bellezza. Bah!

Il finale del romanzo è pessimo. Leggendo varie recensioni qui e là in Rete ho visto che invece a molti è piaciuto: commuovente, struggente, toccante, poetico, bla bla bla. A me non ha fatto né caldo né freddo (i vantaggi di avere un cuore marcio), se non sorridere per l’ingenuità della situazione.
L’uomo si ammala e muore. Si capisce subito che farà questa fine perché già decine di pagine prima ha tossito il suo primo grumo di sangue. La morte è monotona come il resto della storia: l’uomo si stende per terra e crepa. Emozione: zero.
E fin qui potrebbe essere anche un finale passabile. Ma poi cosa succede al bambino? Senza aiuto muore anche lui? Viene mangiato dai cannibali? Si suicida? No! Il corpo dell’uomo è ancora caldo, che passa di lì un signore che adotta il bambino. E il signore non è un pedofilo cannibale, è un padre di famiglia, di un’allegra famigliola felice. Roba da chiodi. Come rovinare 200 pagine di ambientazione in un colpo solo.

Stile

Se la trama non brilla per originalità e azione, lo stile è buono. McCarthy narra in terza persona limitata, tenendo la telecamera sempre sulle spalle o nella testa dell’uomo. Il punto di vista è mantenuto saldamente. Gli unici pensieri, gli unici sogni, gli unici flashback riguardano l’uomo.

L’inforigurgito è tenuto sotto controllo con maestria. Vero, diversi aspetti della vicenda rimangono nell’ombra – a cominciare da quale sia stata la catastrofe –, però è meglio così che non avere spiegazioni da parte del Narratore o pensieri e dialoghi che suonino falsi.

bandiera EN [l'uomo ha raggiunto un ladro che ha rubato il carrello] He looked at them. He looked at the boy. He was an outcast from one of the communes and the fingers of his right hand had been cut away. He tried to hide it behind him. A sort of fleshy spatula. The cart was piled high. He’d taken everything.

bandiera IT [l'uomo ha raggiunto un ladro che ha rubato il carrello]L’altro li guardò. Guardò il bambino. Era stato espulso da una comune e gli avevano tagliato le dita della mano destra. Cercava di nasconderla dietro la schiena. Una specie di spatola carnosa. Il carrello era stracolmo. Si era preso tutto.

L’uomo riconosce dalle dita tagliate del ladro che il ladro è stato espulso da una comune. È un pensiero naturale: se tu vedi qualcuno con le falangi tagliate, è spontaneo pensare “yakuza!”. Sarebbe molto meno spontaneo pensare a cosa sia la yakuza. E infatti McCarthy non aggiunge altro sulla comune o le sue regole. In una marea di fantasy qui ci sarebbero state due pagine con vita, morte e miracoli della comune; oppure sarebbe seguito un dialogo dove il ladro racconta la sua triste vicenda. Niente di tutto ciò ne La Strada. Ed è giusto così.

Dito tagliato
Non provateci a casa!

I dialoghi non sono delimitati da alcun tipo di virgolette, né ci sono dialogue tag, tranne occasionali “disse” iniziali per chiarire quale sia il personaggio che pronuncia la prima battuta. Sono, in generale, dialoghi brevi e laconici; data la situazione del tutto realistici.
Nell’articolo dedicato ai dialoghi, avevo posto il problema di brillantezza contro verosimiglianza. McCarthy si schiera con la verosimiglianza. Probabilmente per questa storia è la scelta giusta, però:

bandiera EN They spent the day there, sitting among the boxes and crates.
You have to talk to me, he said.
I’m talking.
Are you sure?
I’m talking now.
Do you want me to tell you a story?
No.
Why not?
The boy looked at him and looked away.
Why not?
Those stories are not true.
They dont have to be true. They’re stories.
Yes. But in the stories we’re always helping people and we dont help people.
Why dont you tell me a story?
I dont want to.
Okay.
I dont have any stories to tell.
You could tell me a story about yourself.
You already know all the stories about me. You were there.
You have stories inside that I dont know about.
You mean like dreams?
Like dreams. Or just things that you think about.
Yeah, but stories are supposed to be happy.
They dont have to be.
You always tell happy stories.
You dont have any happy ones?
They’re more like real life.
But my stories are not.
Your stories are not. No.
The man watched him. Real life is pretty bad?
What do you think?
Well, I think we’re still here. A lot of bad things have happened but we’re still here.
Yeah.
You dont think that’s so great.
It’s okay.

bandiera IT Passarono la giornata lì, seduti in mezzo agli scatoloni e alle casse.
Mi devi parlare, disse al bambino.
Ti sto parlando.
Sei sicuro?
Sì, adesso sto parlando.
Vuoi che ti racconti una storia?
No.
Perché no?
Il bambino lo guardò e poi distolse lo sguardo.
Perché no?
Quelle storie non sono vere.
Non devono essere per forza vere. Sono storie.
Sì. Ma nelle storie aiutiamo sempre qualcuno, mentre in realtà non aiutiamo nessuno.
Perché non me la racconti tu una storia?
Non mi va.
Ok.
Non ho nessuna storia da raccontare.
Potresti raccontarmi una storia che parla di te.
Le sai già tutte le storie che parlano di me. C’eri anche tu.
Ma dentro di te hai delle storie che io non conosco.
Cioè, come i sogni?
Per esempio. O anche le cose a cui pensi.
Sì, ma le storie dovrebbero essere allegre.
Non per forza.
Tu racconti sempre storie allegre.
E tu non ne hai di storie allegre?
Assomigliano più alla vita reale.
Invece le mie storie no.
Le tue storie no. Infatti.
L’uomo lo fissò. La vita reale è molto brutta?
Secondo te?
Be’, io dico che siamo ancora qui. Sono successe un sacco di cose brutte ma siamo ancora qui.
Già.
A te non sembra una gran cosa.
Boh.

Il “Boh” finale nella traduzione italiana è infelice, ma per il resto il senso è quello. D’accordo, nessuno si aspetta giochi di parole, ironia & brillantezza quando stai crepando di fame, ma forse McCarthy poteva sforzarsi di più. Qui è molto: “Ok, ben scritto, e allora? Boh”.
Un altro passaggio da far piangere per la banalità:

bandiera EN You forget some things, dont you? [disse il bambino]
Yes. You forget what you want to remember and you remember what you want to forget.

bandiera IT Però certe cose uno se le dimentica, no? [disse il bambino]
Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.

No, McCarthy, le frasette dei Baci Perugina non sono l’ideale fonte di ispirazione.

Dove McCarthy è bravo è nelle descrizioni. Pur avendo a che fare con uno scenario senza colori, dominato dal grigio del cielo, dal grigio della cenere, dal grigio della fuliggine che ricopre strade, case, e alberi carbonizzati, se la cava egregiamente. Meglio di Dan Simmons ne La Scomparsa dell’Erebus (The Terror, 2007) – lì Simmons era alle prese con la monotonia di ghiaccio, neve, brina, iceberg, seracchi, ecc. – e molto meglio di Altieri nella trilogia di Magdeburg – la Germania di Altieri è anche lei dominata dalla cenere, dal cielo grigio, dal fumo degli incendi.

Copertina de La Scomparsa dell’Erebus
Copertina de La Scomparsa dell’Erebus. Ne ho parlato brevemente in questo articolo

Non che McCarthy sia perfetto. Non mancano le cadute di stile, roba di questo genere:

bandiera EN In the evening the murky shape of another coastal city, the cluster of tall buildings vaguely askew. He thought the iron armatures had softened in the heat and then reset again to leave the buildings standing out of true. The melted window glass hung frozen down the walls like icing on a cake.

bandiera IT A sera, i contorni indistinti di un’altra città di mare, un nucleo di alti edifici vagamente sbilenchi. L’uomo pensò che le armature di ferro dovevano essersi ammorbidite per il calore e poi risolidificate lasciando gli edifici fuori asse. Le finestre si erano rapprese lungo i muri come glassa su una torta.

Siamo verso la fine del romanzo. Dopo 200 pagine di grigio, cenere, fuliggine, nebbia, freddo, disperazione mi metti che le finestre erano come la glassa sulla torta? Brutto strafalcione. Per fortuna è l’unico così grave.

bandiera EN He got up and walked out to the road. The black shape of it running from dark to dark. Then a distant low rumble. Not thunder. You could feel it under your feet. A sound without cognate and so without description.

bandiera IT Si alzò e uscì sulla strada. Un nastro nero dal buio verso il buio. Poi un rombo sommesso in lontananza. Non un tuono. Lo si avvertiva sotto i piedi. Un suono senza pari e quindi impossibile da descrivere.

Non importa se tu sei Gamberetta, Omero, Shakespeare o McCarthy: il suono “indescrivibile” è brutto!

bandiera EN He looked at the sky. A single gray flake sifting down. He caught it in his hand and watched it expire there like the last host of Christendom.

bandiera IT Guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come se fosse l’ultimo esercito della cristianità.

Impegnati, McCarthy! Le similitudini servono per rendere più chiaro il concetto!
EDIT: Anch’io leggendo “host” l’avevo intenso nel suo significato di “moltitudine”. Ma mi è stato giustamente fatto notare che la traduzione più probabile è quella di “ostia”. In questo caso la similitudine ha molto più senso, anche se non rimane lo stesso una granché – perché lo sciogliersi dell’ultima ostia dovrebbe essere diverso dallo sciogliersi di una qualunque altra ostia?
Ci sono poi altri punti con aggettivi di troppo o metafore non proprio centrate – l’incipit ad esempio non è granché, anche se lì c’è la parziale giustificazione che si tratta di un sogno –, ma lo dico io per prima: sto facendo le pulci a McCarthy perché mi piace tenermi in allenamento; sono dettagli minimi che non influenzano il piacere della lettura.

Ora, uno dei miti più frequenti che si sentono è questo: “Per imparare a scrivere basta leggere.” Poniamo sia vero. Poniamo che una persona legga McCarthy e riesca a imitarlo. Ha imparato a scrivere bene? No.

bandiera EN He carried a jar of green beans and one of potatoes to the front door and by the light of a candle standing in a glass he knelt and placed the first jar sideways in the space between the door and the jamb and pulled the door against it. Then he squatted in the foyer floor and hooked his foot over the outside edge of the door and pulled it against the lid and twisted the jar in his hands. The knurled lid turned in the wood grinding the paint. He took a fresh grip on the glass and pulled the door tighter and tried again. The lid slipped in the wood, then it held. He turned the jar slowly in his hands, then took it from the jamb and turned off the ring of the lid and set it in the floor.

bandiera IT Andò alla porta con un barattolo di fagiolini e uno di patate e alla luce di una candela infilata in un bicchiere si inginocchiò, coricò il primo barattolo contro lo stipite e chiuse la porta fino a incastrarlo. Poi si accovacciò sul pavimento dell’ingresso, agganciò il piede allo spigolo della porta, lo tenne premuto contro il coperchio e ruotò il barattolo con le mani. Il coperchio zigrinato raschiò contro il legno grattando via la vernice. L’uomo assicurò meglio la presa, tirò più forte la porta e ci riprovò. Il barattolo scivolò sul legno, ma poi si bloccò. Lui lo ruotò lentamente con le mani, poi lo allontanò dallo stipite, staccò la guarnizione dal coperchio e la appoggiò a terra.

Qui c’è una minuziosa descrizione di come il protagonista apre un barattolo di fagiolini. In questo romanzo è giusta. Perché in questo romanzo aprire un barattolo è questione di vita o di morte, è di importanza capitale per l’uomo. In qualunque altro romanzo, un “aprì il barattolo” è più che sufficiente. Se imitassi pedissequamente McCarthy, inserendo descrizioni minuziose ovunque, senza tenere conto della loro importanza nell’ambito della storia, scriverei da cani.

Barattolo di fagiolini
Il mio regno per un barattolo di fagiolini

bandiera EN He was about to get up again when he realized that he’d been looking at the fasteners in the bulkhead on the far side of the cockpit. There were four of them. Stainless steel. At one time the benches had been covered with cushions and he could see the ties at the corner where they’d ripped away. At the bottom center of the bulkhead just above the seat there was a nylon strap sticking out, the end of it doubled and cross-stitched. He looked at the fasteners again. They were rotary latches with wings for your thumb. He got up and knelt at the bench and turned each one all the way to the left. They were springloaded and when he had them undone he took hold of the strap at the bottom of the board and pulled it and the board slid down and came free. Inside under the deck was a space that held some rolled sails and what looked to be a two man rubber raft rolled and tied with bungee cords. A pair of small plastic oars. A box of flares. And behind that was a composite toolbox, the opening of the lid sealed with black electrical tape. He pulled it free and found the end of the tape and peeled it off all the way around and unlatched the chrome snaps and opened the box. Inside was a yellow plastic flashlight, an electric strobebeacon powered by a drycell, a first-aid kit. A yellow plastic EPIRB. And a black plastic case about the size of a book. He lifted it out and unsnapped the latches and opened it. Inside was fitted an old 37 millimeter bronze flarepistol. He lifted it from the case in both hands and turned it and looked at it. He depressed the lever and broke it open. The chamber was empty but there were eight rounds of flares fitted in a plastic container, short and squat and newlooking. He fitted the pistol back in the case and closed and latched the lid.

bandiera IT Stava per alzarsi di nuovo quando si accorse di avere sotto gli occhi gli elementi di fissaggio della paratia opposta. Ce n’erano quattro. Di acciaio inossidabile. Un tempo le panche erano coperte di cuscini e in un angolo si vedevano ancora i lacci da cui si erano strappati. Al centro della paratia, appena sopra il sedile, sbucava una fascetta di nylon ripiegata e cucita su se stessa. L’uomo guardò di nuovo gli elementi di fissaggio. Erano dei chiavistelli girevoli con delle alette in cui infilare il pollice. Si alzò e si inginocchiò davanti alla panca, e li ruotò tutti e quattro verso sinistra. Erano a molla, e quando li ebbe fatti scattare afferrò la fascetta di nylon attaccata alla tavola e tirò, la tavola scorse giù e venne via. All’interno, sotto il ponte, c’era un vano che conteneva delle vele arrotolate e quello che sembrava un canotto gonfiabile per due persone arrotolato e legato con funi elastiche. Un paio di piccoli remi di plastica. Una scatola di razzi segnalatori. E dietro, una cassetta degli attrezzi in materiale composito con il coperchio sigillato da un pezzo di nastro isolante nero. La tirò fuori, trovò l’estremità del nastro isolante e lo strappò via srotolandolo tutto, poi sbloccò le chiusure cromate e sollevò il coperchio. Dentro c’erano una torcia elettrica di plastica gialla, un lampeggiante stroboscopico alimentato da una pila a secco e un kit di pronto soccorso. Una radioboa d’emergenza di plastica gialla. È una valigetta di plastica nera grande suppergiù quanto un libro. La tirò fuori, fece scattare le serrature e la aprì. All’interno, una vecchia pistola lanciarazzi 37 millimetri color bronzo. La prese con tutte e due le mani, la rigirò e la guardò. Tolse il fermo e la aprì. Il tamburo era vuoto ma in un contenitore di plastica c’erano otto cartucce, corte, tozze, apparentemente nuove. Risistemò la pistola nella scatola, abbassò e chiuse il coperchio.

Qui abbiamo un’estrema precisione di linguaggio, compreso l’uso di locuzioni poco comuni, come “lampeggiante stroboscopico” o “radioboa d’emergenza” (notare che in inglese è lasciato l’acronimo – “EPIRB” – ancora più specifico). Se io uso nelle mie descrizioni questa precisione di linguaggio faccio sempre bene? No! Dipende dal punto di vista che adotti. Se il tuo punto di vista può permettersi di pensare in questi termini va bene, se il tuo punto di vista è una svampita quindicenne fan di Twilight, scrivere così significa scrivere male. Infatti McCarthy lascia intuire fin dal principio che il suo punto di vista è quello di un uomo con un minimo di cultura; si veda per esempio questo stralcio di dialogo, nelle prime pagine:

bandiera EN Because the bullet travels faster than sound. It will be in your brain before you can hear it. To hear it you will need a frontal lobe and things with names like colliculus and temporal gyrus and you wont have them anymore. They’ll just be soup. [disse l'uomo]
Are you a doctor?
I’m not anything.

bandiera IT Perché la pallottola viaggia più veloce del suono. Entrerà nel tuo cervello prima che tu la senta. Per sentirla ti servirebbero il lobo frontale e degli affari chiamati collicolo e giro temporale, che tu non avrai più. Saranno ridotti in poltiglia. [disse l'uomo]
Sei un medico?
Non sono un bel niente.

Prendiamo quest’altra descrizione:

bandiera EN The roadside hedges were gone to rows of black and twisted brambles. No sign of life. He left the boy standing in the road holding the pistol while he climbed an old set of limestone steps and walked down the porch of the farmhouse shading his eyes and peering in the windows. He let himself in through the kitchen. Trash in the floor, old newsprint. China in a breakfront, cups hanging from their hooks. He went down the hallway and stood in the door to the parlor. There was an antique pumporgan in the corner. A television set. Cheap stuffed furniture together with an old handmade cherrywood chifforobe. He climbed the stairs and walked through the bedrooms. Everything covered with ash. A child’s room with a stuffed dog on the windowsill looking out at the garden. He went through the closets. He stripped back the beds and came away with two good woolen blankets and went back down the stairs. In the pantry were three jars of homecanned tomatoes. He blew the dust from the lids and studied them. Someone before him had not trusted them and in the end neither did he and he walked out with the blankets over his shoulder and they set off along the road again.

bandiera IT Le siepi ai bordi della strada avevano ceduto a file di rovi neri e ritorti. Nessun segno di vita. L’uomo lasciò il bambino in mezzo alla strada con la pistola in mano, sali una vecchia gradinata in pietra porosa e fece qualche passo sulla veranda della fattoria, riparandosi gli occhi con la mano e sbirciando dalle finestre. Entrò passando dalla cucina. Rifiuti per terra, vecchi giornali. Stoviglie di porcellana su una credenza, tazze appese ai ganci. Percorse il corridoio e si fermò sulla porta del salottino. In un angolo c’era un antiquato organo a pedali. Un televisore. Poltrone e divani da quattro soldi e un vecchio armadio di ciliegio fatto a mano. Sali al piano di sopra e girò per le stanze da letto. Era tutto coperto di cenere. Una cameretta da bambini con un cane di pezza sul davanzale, affacciato a guardare il giardino. Rovistò negli armadi. Disfece i letti e ne ricavò due belle coperte di lana, poi ridiscese al piano di sotto. Nella dispensa c’erano tre barattoli di pomodori in conserva fatti in casa. Soffiò via la polvere dai coperchi e li esaminò. Qualcuno passato di lì prima di lui non si era fidato, e alla fine non si fidò neanche lui; usci con le coperte in spalla e ripresero la strada.

È una buona descrizione: linguaggio preciso e abbondanza di particolari concreti. Notare però com’è silenziosa. E in questo romanzo va benissimo, perché regna la desolazione e ogni suono è attutito dalla patina di cenere che ricopre il mondo. Però, se io scrivessi un altro romanzo e non inserissi mai alcun rumore, alcun suono, non produrrei descrizioni particolarmente buone.

Perciò: si può imparare leggendo, ma solo se sai già cosa guardare. Se già sai che una descrizione deve essere filtrata dal punto di vista, se già sai che devi descrivere solo quello che ha importanza per la storia, se già sai qual è il legame tra descrizioni e ambientazione. Non sono dettagli secondari. Sono questioni fondamentali che difficilmente si possono imparare se nessuno te le insegna.

Conclusioni

The Road mi ha dato l’impressione di essere un esercizio di stile. Come se McCarthy dicesse: “Adesso vi faccio vedere come si scrive un romanzo decente senza una trama degna di questo nome e senza personaggi affascinanti e senza mezza idea originale e senza un’ambientazione interessante, ma solo con una corretta gestione della narrazione.” Operazione riuscita a metà: il romanzo si lascia leggere e non è brutto, ma di sense of wonder non ce n’è manco una goccia. Giudicato nell’ambito della narrativa fantastica è insignificante. Infatti, pur avendo vinto il Premio Pulitzer del 2007 come miglior opera di narrativa, non è neanche entrato nella lista dei finalisti di nessuno dei principali premi dedicati al fantastico (Hugo, Nebula, World Fantasy, Locus, ecc.)
Nel complesso non vale la pena spendere i 18 euro dell’edizione italiana, tuttavia vale la pena dedicare qualche ora alla lettura dell’edizione elettronica gratuita.

Invece mi sento di consigliare senza remore un altro romanzo post apocalittico, che mi è capitato di leggere un paio di mesi fa: Bartorstown. La città proibita (The Long Tomorrow, 1955) di Leigh Brackett. Lo trovate su emule in italiano cercando:

Icona di un mulo eBook.ITA.877.Leigh.Brackett.La.Città.Proibita.(doc.lit.pdf.rtf).[Hyps].rar (1.724.687 bytes)

Copertina de La Città Proibita
Copertina dell’edizione Urania de La Città Proibita

Dopo la guerra nucleare, la Costituzione degli Stati Uniti è stata cambiata: è illegale costituire centri abitati con più di duemila abitanti o più di duecento edifici. La guerra è stata colpa delle città, del progresso, della tecnologia. I nuovi Stati Uniti sono un paese rurale, con gli abitanti che vivono isolati in fattorie o villaggi sperduti. Scienza e tecnologia sono bandite. Decine di sette religiose – più o meno folli – si sono diffuse ovunque.
In questo clima di forzato ritorno alla campagna, due ragazzi, Esau e Len, scoprono per caso dell’esistenza di Bartorstown, una città dove gli ultimi scienziati tentano di mantenere viva la fiammella della civiltà. I due ragazzi partono alla ricerca dell’elusiva città. Non sanno però quale terrificante segreto si nasconde nelle viscere della Città Proibita!

La Brackett non ha la raffinatezza stilistica di McCarthy ma non scrive male. In più la storia è divertente ed emozionante, specie nella prima parte. L’ultima parte è un po’ sfilacciata, ma non mancano momenti notevoli e qualche scintilla di sense of wonder. Alcune situazioni ricordano da vicino i videogiochi di Fallout: credo che La Città Proibita piacerà in particolare agli appassionati di tali giochi.


Approfondimenti:

bandiera IT La Strada su iBS.it
bandiera EN The Road su Amazon.com
bandiera EN The Road su Wikipedia
bandiera EN Elenco delle recensioni a The Road
bandiera EN The Cormac McCarthy Society

 

Giudizio:

Ottime descrizioni. +1 -1 Romanzo monotono.
Stile in generale buono, senza una parola di troppo. +1 -1 Finale pessimo.
Deliziosa atmosfera di disperazione. +1 -1 Nessuna idea originale.

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84 Comments To "Persa per strada"

#1 Comment By Dago Red On 31 dicembre 2009 @ 17:35

Ho letto “La Strada” alcuni mesi fa. Malgrado tutti i difetti evidenziati da Gamberetta siano effettivamente presenti, il libro mi colpì positivamente.
Sarà il senso di abbandono del paesaggio brullo e intossicato, o il “realismo” del vagabondare disperato dei due, privi di qualsivoglia piano a lungo termine, o forse la crudezza delle scene spoilerate, comunque il libro mi è piaciuto molto.
Ho trovato però anch’io inutilmente retorico il finale, soprattutto la parte relativa alla (vado a memoria) fonte sorgiva.

@Gamberetta: appurato che l’inforigurgito è sempre un male, in quanto eccesso, sei però daccordo che nel fantasy a differenza degli altri generi un minimo di info in più al lettore vadano date?
In fondo quello che cerca il lettore di tale genere è anche un’ambientazione originale e un mondo con regole e strutture (sociali, culturali, politiche, economiche) tutte sue, e procedere nella storia senza delinerle minimamente potrebbe impedire un pieno godimento dell’intreccio e dell’opera tutta. IMHO eh.

#2 Comment By Angra On 31 dicembre 2009 @ 21:20

Se le descrizioni sono buone allora lo leggerò: ho una passione morbosa per gli scenari postatomici. Segnalo un altro romanzo, che può essere preso invece come esercizio di tecnica per i dialoghi: L’isola dei segreti di Scarlett Thomas. Succede poco e il finale è inconcludente. Son quasi tutti dialoghi, molto ben fatti.

#3 Comment By ??? On 1 gennaio 2010 @ 06:13

@ Dago Red

No. L’infodump è sempre infodump!

Di recente parlavo col Duca di una scena in cui il mio Personaggio POV nominava una razza (Wodewose) senza descriverla, perché, giustamente il mio Pers. POV quella razza la conosce.

Logicamente non ho messo descrizioni o altro, perché sarebbe stato un infodump.
Così però il termine rimane una mera etichetta per quelli che non sanno cos’è un wodewose

Che fare?
Ecco quanto mi ha detto il duca (e a pensarci bene son stato pirla a non arrivarci da solo).

Il suo esempio risponde anche alla tua domanda sull’ambientazione:

Il problema in realtà colpisce in modo uguale, se non maggiore, la fantascienza. E in un buon romanzo storico (che sono rari) far capire il modo di pensare, gli abiti, la cultura ecc… del periodo è altrettanto difficile che non dire che gli Sborg sono ometti blu un po’ scemi con un tentacolo in mezzo alla fronte per sollevare i boccali di birra.

Come si risolve?

Si applicano bovinamente le regole della buona scrittura, che per loro natura non permettono l’esistenza del problema. Essendo tutto ridotto a “personaggi in movimenti”, “oggetti in azione” e “descrizioni in azione”, è facile evitare qualsiasi infodump integrando in scene ben studiate tutti gli elementi strani e nuovi di un certo Coso-Strano prima di etichettarlo o poco dopo averlo etichettato.
Il primo Sborg può essere incontrato nel libro quando il protagonista, mezzo ubriaco, si perde a contemplare l’ometto blu che si scarica pugni di arachidi salate nella bocca, prima una mano e poi l’altra, e dopo due pugni di noccioline usa si spinge in bocca il boccale col tentacolo frontale.
Sinistra. Destra. Boccale. Mani ficcate nella ciotola delle arachidi. Sinistra. Destra. Boccale.
Poi l’ometto si accorge di essere fissato e alza il tentacolo in un brindisi, restituendo uno sguardo ebete al personaggio, con un gran sorriso sdentato. E gli scappa un rutto. Il personaggio non risponde nemmeno al saluto e pensa “stupidi Sborg”. E a quel punto cambia la scena.
Per dare il giusto contesto proletario agli Sborg basta aggiungere che il locale era una bettola e, in una scena successiva, il personaggio potrebbe venire masse di Sborg operai in fabbrica, trattati come bestie, o che si trascinano coperti di stracci nei quartieri più poveri, sopravvivendo come capita, ma che scherzano tra loro e ridono anche nella miseria.
Non hai bisogno di parlare degli Sborg, basta mostrarli studiando in modo intelligente il modo per introdurre tutto ciò che val la pena sapere di loro: poveri, un po’ scemi e sfruttati, ma capaci di trovare un po’ di felicità lo stesso (forse proprio perché sono troppo scemi per capire che potrebbero vivere meglio e la povertà la danno come un fatto scontato, parte dell’ordine naturale).
Heinlein ha scritto di Esoscheletri da Combattimento. Non di Sborg proletari o di Fatine spogliarelliste sbronze fradicie nel maraschino.
Heinlein è stato il primo a farlo. Eppure leggendo “Fanteria dello Spazio” si capisce tutto: ha mischiato quel minimo di informazioni che era giusto inserire (dipendono dal POV e dal momento descritto) con le “azioni in movimento” in grado di produrre ancora più informazioni su come si usano gli Esoscheletri. Vediamo balzi in giro, assalto lampo con massimo volume di fuoco ecc…

Quindi, vedi, non c’è bisogno di infodump, se si struttura bene il tutto.

Ah, se ti stai chiedendo cosa sia un wodewose:

http://en.wikipedia.org/wiki/Wodewose

#4 Comment By AryaSnow On 1 gennaio 2010 @ 09:47

Di McCarthy ho letto altri due romanzi e più o meno i pregi e i difetti sono gli stessi.
Meridiano di Sangue: anche lì il ritmo è molto lento, gli eventi estremamente ripetitivi e in sostanza non succede niente. La differenza è che i protagonisti sono crudeli e non c’è proprio traccia di buonismo. Però dura anche intorno alle 350 pagine -_-
Oltre il confine: anche lì il solito McCarthy. Però succedono più cose, la ripetitività è leggermente inferiore e ci sono un paio di momenti più emozionanti. Mi era piaciuto. C’è anche da dire che l’avevo letto molto tempo prima…

Di fantasy però non ha niente nessuno dei due.

PS: In Fanteria dello Spazio la scena d’azione iniziale è magnifica. Più che altro, nel mezzo mi ha annoiata un po’ con le lunghe descrizioni politiche e socali senza far succedere nulla di particolare (sì, qualcuno mi lincerà per l’eresia XD).

#5 Comment By Simòn R. On 1 gennaio 2010 @ 11:49

@Dago Red: se le componenti sociali, culturali ecc. ecc. hanno un peso *rilevante* nella storia, quando uno dei personaggi le incontrerà dovrà interagirci, e gli basterà dire, in qualche momento, di che popolo/società si sta parlando.

Ad esempio, nei primi 3 libri della Ruota del Tempo di Jordan tutti gli adulti con più di 20 anni si ca*ano sotto quando sentono parlare degli Aiel. Perché 20 anni prima c’è stata una guerra in cui gli Aiel hanno fatto il q.lo praticamente ad ogni popolo. Nel 4° libro, gli Aiel tornano, e alcuni protagonisti vanno a vivere con loro. 4° e 5° libro delineano perfettamente la società e la cultura Aiel, semplicemente attraverso gli sguardi e le considerazioni dei personaggi.

In ASOIAF di Martin, NESSUNO spiega mai la caratteristica principale dell’ambientazione, tanto che io l’ho capita solo al terzo libro, e cioé come sono regolati estate e inverno. Perché avrebbero dovuto? Per loro è una cosa normalissima, assolutamente banale… è sempre stato così e basta. Tuttavia, alla lunga, da vari accenni, modi di dire, proverbi che usano i personaggi ecc. ecc., si capisce qual è. Mia moglie, che è una lettrice più attenta di me, l’aveva capito già nel primo libro.

Però ad esempio, nella Saga dei Lungavista della Hobb, la voce narrante è quella di un personaggio che racconta a posteriori, non si sa quanto tempo dopo. E nelle “intro” personali che fa ad ogni capitolo, racconta elementi di storia, cultura, peculiarità dei Sei Ducati che non trovavano altrimenti posto nella narrazione. Quello è inforigurgito fatto e finito… però nel contesto, poiché sappiamo che l’intenzione del narratore è proprio di scrivere una “storia dei Sei Ducati”, che solo incidentalmente coincide con la sua vita, ci sta benissimo.

Infine, Umberto Eco nelle postille al Nome della Rosa racconta dei problemi in cui s’era trovato nel far comprendere al lettore un mondo così complesso e “distante da lui” quale il periodo medievale nell’ottica di un monaco benedettino. Riporto le sue considerazioni in merito (Eco è sempre Eco!):
“Ho riscritto centinaia di pagine per evitare questo tipo di caduta [l'infodump appunto, NdR]; ma non ricordo di essermi mai accorto di come risolvessi il problema. Me ne sono reso conto solo due anni dopo, e proprio mentre cercavo di spiegarmi perché il libro fosse letto anche da persone che non potevano certo amare i libri così “colti”. Lo stile narrativo di Adso [il protagonista E voce narrante, NdR] è fondato su quella figura di pensiero che si chiama “preterizione”. Ricordate l’esempio illustre? “Cesare taccio, che per ogni piaggia…” Si dice di non voler parlare di qualcosa che tutti conoscono benissimo, e nel dirlo si parla di quella cosa. Questo è un poco il modo in cui Adso accenna a persone ed eventi come ben noti, e tuttavia ne parla. Quanto a quelle persone e a quegli eventi che il lettore di Adso, tedesco della fine del secolo, non poteva conoscere, perché si erano svolti in Italia all’inizio del secolo, Adso non ha reticenze a parlarne, e in tono didascalico, perché tale era lo stile del cronista medievale, voglioso di introdurrenozioni enciclopediche ogni qual volta nominasse qualcosa.”

Spero possa essere utile :)

#6 Comment By Gamberetta On 1 gennaio 2010 @ 12:15

@???. Perciò per risolvere l’infodump si inseriscono link a wikipedia? ^__^

@AryaSnow.

PS: In Fanteria dello Spazio la scena d’azione iniziale è magnifica. Più che altro, nel mezzo mi ha annoiata un po’ con le lunghe descrizioni politiche e socali senza far succedere nulla di particolare (sì, qualcuno mi lincerà per l’eresia XD).

Hai ragione, è probabile che Heinlein avrebbe potuto trovare un modo più elegante per proporre le sue disquisizioni filosofico/politiche. Però è anche vero che non sono così staccate dall’azione: le lezioni di filosofia sono la teoria dietro i comportamenti pratici della Fanteria Spaziale Mobile (per esempio tutti combattono, non si abbandona mai nessuno).

#7 Comment By ??? On 1 gennaio 2010 @ 12:39

@ Gamberetta

Er… No. Il commento dimostrava l’esatto contrario.
Non son stato chiaro? (^///^)

Il link era solo per chi fosse interessato qui e ora, non nel libro…

#8 Comment By ??? On 1 gennaio 2010 @ 12:41

Però ora che mi ci fai pensare…
In futuro con ebook interattivi….

#9 Comment By Gamberetta On 1 gennaio 2010 @ 12:51

@???. Scherzavo!

#10 Comment By Il Duca Carraronan On 1 gennaio 2010 @ 14:12

Concordo su La Città Proibita, libro che val la pena leggere. Come sempre i consigli di lettura di Gamberetta sono ottimi (e viva i vecchi Urania, che sto riscoprendo anche grazie a Lei). La Strada appena riuscirò ci darò un’occhiata, in italiano.

@???
Sono deluso: non hai colto la battuta che Gamberetta ti aveva donato, nella Sua Generosità. Altri uomini per contendersi le destinazione di quelle poche parole sarebbero arrivati a duellare all’alba con le pistole!

Fatine spogliarelliste sbronze fradicie nel maraschino

Dovrebbero essere in ogni fantasy. ^_^

#11 Comment By JohnElfman On 1 gennaio 2010 @ 16:11

Ciao Gamberetta

Ti posso chiedere qualche commento sulla brevità delle frasi di McCarthy?

[la richiesta è ovviamente interessata: scrivendo mi è stato fatto notare - e condivido il commento - che uso frasi troppo brevi, tanto che a volte sembra manchi la capacità di strutturarle meglio. Qui mi sembrano addirittura più brevi delle mie, e leggerei volentieri qualche considerazione sulla lunghezza dei periodi, sui casi in cui possono essere brevi senza che si abbia l'impressione di uno stile elementare, ecc ecc]

Grazie e buon anno

#12 Comment By Gamberetta On 1 gennaio 2010 @ 17:18

@JohnElfman. Premessa: come sempre bisogna tener conto del punto di vista e del tipo di scena, ma, parlando in generale, non c’è niente di male nell’usare frasi brevi.
Al massimo non devi usare sempre frasi brevi perché altrimenti rischi che il testo suoni come una cantilena. Ma non è un problema delle frasi brevi in sé, è un problema delle frasi tutte della medesima lunghezza e/o con la medesima struttura.

McCarthy non mi sembra che utilizzi frasi particolarmente brevi; ci sono frasi brevi e altre più articolate. Certo non ci sono mai frasi con otto subordinate, ma questo semplicemente perché McCarthy sa scrivere.
Infatti è sbagliata la premessa: non esiste l’errore di “eccessiva semplicità”. Anzi: scrivere frasi lunghe e complesse è facilissimo, invece esprimere con chiarezza i concetti usando estrema semplicità è molto difficile.

In altri termini (tenendo sempre presente che dipende dal punto di vista, dal tipo di scena e che non bisogna usare sempre frasi della stessa lunghezza) se scrivi narrativa di genere con la media di parole per frase di McCarthy va benissimo. Chi contesta la semplicità non ha idea di come funzioni la narrativa.

#13 Comment By GSeck On 1 gennaio 2010 @ 18:51

L’uso eccessivo di situazioni svenevoli e strappalacrime è il metodo con cui gli scrittori incapaci cercano di coinvolgere il lettore.

Il papà malato che protegge il figlio da mille difficoltà, dalla gente che li vuole addirittura mangiare…
Riuscirà il puro amore paterno a sopravvivere nel fango della violenza?

Disgustoso.

#14 Comment By Zweilawyer On 1 gennaio 2010 @ 18:57

La Strada mi ha annoiato. Certo, non quanto un fantasy da 700 pagine che ne ha 50 solo per le descrizioni degli alberi, ma l’ho trovato comunque noioso. Il fatto è che non succede nulla dall’inizio fino al discutibile epilogo.
Dissento sulle righe:

He looked at the sky. A single gray flake sifting down. He caught it in his hand and watched it expire there like the last host of Christendom

Qui l’autore non vuole utilizzare una metafora, quello che gli interessa è l’allegoria. L’idea che Dio sia andato, finito, pervade tutto il romanzo. Gli uomini si divorano a vicenda, non esiste più nulla. Quindi il significato allegorico del fiocco di neve che si scioglie come il messaggio divino portato dalla cristinità l’ho trovato azzaccato.

Zweilawyer

#15 Comment By Gamberetta On 1 gennaio 2010 @ 19:19

@Zweilawyer. Quella di McCarthy è una (brutta) similitudine. L’allegoria non è esplicita. Entra in scena un grasso maiale: il lettore intuisce che è un’allegoria per l’ingordigia. Non c’è a chiare lettere il paragone maiale – ingordigia.
E anche la storia di Dio non è un’allegoria, perché in fondo è esplicita, per esempio:

With the first gray light he rose and left the boy sleeping and walked out to the road and squatted and studied the country to the south. Barren, silent, godless.

Poco più avanti:

He knew only that the child was his warrant. He said: If he is not the word of God God never spoke.

#16 Comment By Zweilawyer On 1 gennaio 2010 @ 19:43

@Gamberetta

L’autore in questo caso usa un’allegoria, che non deve essere per forza immediatamente intuibile, in altri (come quelli da te citati) è più diretto. Penso che abbia voluto inistere sul tasto dell’assenza di Dio con tutti gli strumenti a disposizione dello scrittore. Anzi, per me proprio la volontà di comunicare questa sensazione generale del protagonista lo ha portato ad annullare la ricerca del sense of wonder.
Naturalmente questa è solo un pensiero personale, e, visto che l’ho giudicato noioso sebbene abbia ricevuto uno dei premi più ambiti al mondo, il mio pensiero non deve valere granchè.

Zweilawyer

#17 Pingback By La strada in salita » Le classifiche dell’anno e del decennio On 1 gennaio 2010 @ 23:19

[...] Non tutti sono però dello stesso parere: nelle note recensioni di Gamberetta, La strada si è presa solo uno stivale (vale a dire, secondo la legenda di Gamberi Fantasy: “Un prodotto neutro, né consigliato né [...]

#18 Comment By Elvezio On 2 gennaio 2010 @ 08:26

Finalmente una recensione di un libro che ho letto, riletto e amato (finale a parte, ma spesso quando vedo film o leggo libri USA evito di considerare gli ultimi 5 minuti o ultime 10 pagine…).

Trovo sia spesso fin troppo facile dar ragione a Gamberetta su romanzi terribilmente deboli come le varie robe di Troisi, Strazzulla o G.L. D’Andrea, mentre qua ho sofferto parecchio a leggere alcune sue annotazioni.

Mi trovo però a concordare.
Il romanzo continua a piacermi tantissimo, ha toccato un tipo di scenario che amo cercando di asciugare la lingua in modo ammirevole, ma se si potesse rivederlo e correggerlo seguendo alcune delle critiche mosse da Gamberetta, maledizione, ne guadagnerebbe.

#19 Comment By igorilla On 2 gennaio 2010 @ 11:17

per una sana bibliografia post apocalittica io consiglio

VIC AND BLOOD

storia di Harlan Ellison
disegni di Richard Corben

in un mondo post olocaustico le rovine sono battute da bande di ragazzini armati accompagnati da cani telepatici

lo puoi scaricare quì

è la versione a fumetti di “a boy and his dog” film sceneggiato sempre da Harlan Ellison (che non mi ha entusiasmato)
http://www.imdb.com/title/tt0072730/

#20 Comment By igorilla On 2 gennaio 2010 @ 12:08

ulteriore opera a fumetti (d’autore)

EL ULTIMO RECREO – dopo il grande splendore (perche gli italiani si rinentano a coso i titoli?)

disegni di Horacio Altuna
sceneggiatura di Carlos Trillo

una bomba intelligente uccide tutti gli adulti, seguiamo la lotta per la sopravivenza dei bambini superstiti

è possibile scaricarlo quì (purtropo lo ho trovato solo in spagnolo)

#21 Comment By Mattia On 2 gennaio 2010 @ 16:43

Di questo autore ho letto Suttree, da poco pubblicato in Italia con einaudi. Suttre è un romanzo -non di genere, ma spero di non invecchiare :P – che mi è piaciuto moltissimo. Ostico per certi versi, ma bello.
Non credo che The Road sia stato un tentativo di McCarthy di scrivere di genere. Curiosando in rete e visto l’autore, lo trovo poco plausibile. McCarthy si è preso la libertà di scrivere una storia con un’ambientazione apocalittica, ma ciò non fa di La strada un romanzo fantastico, credo si possa definirlo un romanzo New Weird.
Non ho letto il libro però, quindi non ne sono sicuro.

Curiosità: Stephen King in On writing ha citato McCarthy (riportandone un brano) prendendolo come esempio di autore che scrive con parole impossibili. E Stephen King ha commentato più o meno così: beh, a me McCarthy piace, e chi se ne importa se non lo capisco appieno, non capisco nemmeno tutte le parole delle mie canzoni preferite! :D

#22 Comment By Dago Red On 2 gennaio 2010 @ 17:26

Più precisamente si riferiva a:

Mostra spoiler ▼

#23 Comment By Tapiroulant On 2 gennaio 2010 @ 17:30

E’ la frase più brutta del mondo!

#24 Comment By vahly On 2 gennaio 2010 @ 23:50

Ciao, sono una lurkatrice :D (ora non più xD) volevo solo segnalare una frase che secondo me è sbagliata. Dici “metafore non proprio c’entrate” ma penso che intendessi dire “centrate”, giusto?

Uh, già che ci sono… ma i manualetti? Ho trovato parecchie cose utili su quello riguardante i dialoghi, volevo sapere se riprenderai a scriverli :-(
Comunque ottime recensioni, anche se questo libro volevo leggerlo e mi sono spoilerata il finale (DOH!) ma visto che oramai l’ho scaricato, magari qualche ora gliela dedico lo stesso ^^

#25 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2010 @ 00:11

@Mattia. No, non c’è niente di weird ne La Strada. Non è un genere “strano”, è un romanzo di fantascienza post apocalittica, come ce ne sono già una marea.

@vahly. Grazie per la segnalazione, ora correggo. A gennaio (ma sicuramente dopo il 15) ci sarà un altro articolo sui Manuali.

#26 Comment By selerian On 3 gennaio 2010 @ 02:01

@ Simon R: solo una cosa riguardo alla strategia suggerita da Eco. Si può anche usare, ma con MOLTA moderazione. Se proprio un elemento è importante e non c’è altro modo di comunicarlo, possiamo partire con la conversazione che ho sentito definire da qualche parte “as you know, bob”. Perché nella maggior parte dei casi, se vedo un carabiniere e sono con un mio amico, non dico “non c’è bisogno di dirti, tizio, che questo è un carabiniere, militare italiano con funzioni di polizia e controllo interno”. Conversazioni allucinanti di questo tipo se ne vedono nei libri, e tendono a farmi vomitare l’ostia della prima comunione (anche se Eco ha più stile, appunto :D).

Già meglio, secondo me, è quando un personaggio che sa spiega a uno che non sa. Anche lì, se esageriamo, il lettore comincia ad avere la sensazione che sia un’enciclopedia a suo uso e consumo, ma se sono col mio amico marziano e lui mi chiede “chi è quel coglione con le striscie rosse sui pantaloni?”, è legittimo che io risponda “è un carabiniere. Sono militari che hanno funzione di controllo interno”. Se poi quello che si dice è abbastanza interessante da far dimenticare al lettore la forma un pò sospetta, non si ha la fastidiosa sensazione di Piero Angela che esce dalle pagine.

Comunque la soluzione migliore è sempre non spiegare niente, e fare in modo che il lettore ci arrivi da sé. Se Berlusconi rapina una banca e il carabiniere entra sparando all’impazzata per arrestarlo, riusciamo a veicolare in un colpo solo un’informazione importante e un sottile messaggio sociale.

#27 Comment By Angra On 3 gennaio 2010 @ 07:50

Dovrebbe essere un piacere, per il lettore, scoprire le cose poco a poco, da piccoli indizi e mezze frasi. Anche quando non può essere così (cioè si sta affrontando un genere tradizionalmente rivolto a lettori che se le cose non gliele spieghi da soli non ci arrivano), l’inforigurgito molesto nei dialoghi non ha ugualmente senso. In quel caso si potranno infilare, ogni volta che occorre, tre o più pagine di spiegone con intervento diretto dell’autore, e nessuno ne risulterà infastidito.

#28 Comment By Zweilawyer On 3 gennaio 2010 @ 10:37

Sull’inforigurgito si potrebbe parlare per ore. Ci sono autori, come Gerrold o Stephen King, che usano dieci capitoli per far capire un dettaglio della trama, altri infilano un dialogo verosimile (il cd. spiegone indiretto) e tirano avanti. Lasciando da parte ogni considerazione tecnica, dopo tanti anni di letture inizio a credere che a pelle mi dia più fastidio l’aria fritta della prima soluzione. Ad esempio, nella Guerra contro gli Chtorr ricordo un lunghissimo capitolo, stiracchiato fino all’inverosimile per dare informazioni sull’ecosistema alieno, che mi ha dato un impressione peggiore di uno spiegone diretto alla Ancess.
Trovo che dare informazioni prevalentemente attraverso l’azione, e in seconda battuta con dei buoni dialoghi, sia la miglior soluzione per un autore.

Zweilawyer

#29 Comment By Dago Red On 3 gennaio 2010 @ 15:33

Sempre di King, e sempre da “On Writing”, ricordo una cosuccia a riguardo dell’inforigurgito abbastanza lollosa.

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#30 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2010 @ 15:49

@Dago Red. Una nota: usa gli spoiler solo se sono effettivamente spoiler, per le semplici citazioni usa <blockquote> </blockquote>.
Gli spoiler non possono essere letti da chi segue la discussione via feed, dunque usali solo se necessario.

#31 Comment By Zizzio On 3 gennaio 2010 @ 15:49

eppure ci sono casi in cui lo spiegone può risultare piacevole se fatto in una certa maniera.
prendiamo il film ritorno al futuro.
spessissimo doc si ritrova a dover spiegare come funziona la macchina del tempo (primo film), o come funziona un paradosso temporale (secondo film), per non parlare di quando deve illustrare i piani per far ripartire le macchine del tempo (primo e terzo film – e scusatemi se i modellini non sono in scala, lol)
tuttavia sarà che le spiegazioni sono brevi, sarà che a fornirle è un personaggio carismatico, buffo e gigione al punto giusto, non ci si annoia a vederle.

altri scrittori tipo asimov, ma anche in certi film tipo gremlins, si cerca di appiattire l’inforigurgito a tre regole essenziali. La cosa funziona. Certo in questo modo non si riesce a spiegare bene un contesto societario tipo quello medievale di Eco.

#32 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2010 @ 15:55

@Zizzio. Ma appunto Doc costruisce i modellini e poi la macchina modellino prende fuoco e per poco non brucia il laboratorio. Non è una pura esposizione statica.

Comunque l’importante è sempre mantenere la verosimiglianza del punto di vista. Data la situazione, non è innaturale che Doc spieghi a Marty cose che non sa. Ma se anche Marty fosse stato uno scienziato, la faccenda sarebbe stata molto meno piacevole.

#33 Comment By francesca On 3 gennaio 2010 @ 16:04

Ho apprezzato la recensione di Gamberetta (sono io la lettrice di cui parla), anche se non sono d’accordo in tutto. In particolare trovo che La strada sia un romanzo ben più che discreto…ma ora non ho tempo nè lettura abbastanza recente per argomentare il mio disaccordo, lo farò più avanti. Vorrei invece sottolineare quello che ho apprezzato molto.
G. ha messo in evidenza come, con precise scelte tecniche e stilistiche (i dialoghi, le descrizioni, il punto di vista, la scelta di cosa spiegare e cosa no…) l’autore ha reso la sua prosa funzionale all’atmosfera che vuole creare, al mondo che vuole descrivere. Io direi, anzi, simile a questo mondo. Entrambi sono scarni, senza spazio per il compiacimento, per la brillantezza, per le elucubrazioni; sono importanti i dettagli concreti, sapere come funzionano le cose; le informazioni a disposizione sono poche e frammentarie, i lettori sono lasciati nell’incertezza e nel disorientamento proprio come i protagonisti (di cui non sanno neanche i nomi).
MacCarthy non scrive come dicono i manuali: tuttavia non solo sa quali sono le regole, ma in più le piega in modo preciso e consapevole per ottenere un certo effetto complessivo. Per me è questo che rende questo libro così istruttivo per un’aspirante scrittore, che sia di fantasy o meno. Che lo rende anche più istruttivo per uno scrittore di fantasy è che MacCarthy ha inventato il mondo che racconta, però lo descrive con naturalezza, come se non ci fosse niente da spiegare, e con l’attenzione ai dettagli e alla concretezza e verosimiglianza delle cose.

#34 Comment By francesca On 3 gennaio 2010 @ 16:14

Ah però la frase perugina, non te la perdono…
“Però certe cose uno se le dimentica, no? [disse il bambino]
Sì. Ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.”
Questa non è una considerazione filosofica dell’uomo, ma una frase che rivolge al bambino: il figlio è stato ed è esposto a esperienze terribili, che naturalmente non riesce a dimenticare. Vorrebbe magari rifugiarsi nei ricordi buoni, tipo il volto della madre ecc., che sono però lontani e dunque non più di aiuto.
Il padre sta cercando di rassicurarlo, di confortarlo, e allo stesso tempo di spiegargli in modo semplice che così è la vita: è logico che usi frasi di questo genere.

#35 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2010 @ 16:48

@francesca. La frase da baci perugina è più per come è esposta che non per la frase in sé. In inglese è ancora più “cantilenante”:

You forget what you want to remember and you remember what you want to forget.

È proprio brutta.

Poi non è vero che McCarthy non segue le “regole”. Dal punto di vista stilistico questo romanzo è da manuale. Non segue il principio del cercare il continuo “conflitto” e secondo me sbaglia, perché se il romanzo fosse stato un po’ più movimentato sarebbe stato meglio.

#36 Comment By francesca On 3 gennaio 2010 @ 17:54

La mancanza di “conflitto” io invece l’ho apprezzato, avrei trovato un po’ retorico e irrealistico che al viaggio si accompagnasse il viaggio interiore dei personaggi alla scoperta di se stessi. La struttura non mi pare da manuale, nel senso di incipit, costruzione del conflitto, crescendo della tensione, climax e risoluzione. Si tratta più di un cammino durante il quale succedono diverse esperienze, anche estreme (mi pare di ricordare che durante il viaggio succedano diverse cose, insomma io non so quanta
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accompagnati dell’angoscia dell’uomo che dovrà prima o poi lasciare suo figlio in questo tipo di mondo.

#37 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2010 @ 18:22

@francesca. Non parlo di “conflitti” interiori. Anche. Ma in generale parlo di roba molto più terra terra, per esempio:
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#38 Comment By Dago Red On 3 gennaio 2010 @ 20:01

@Gamberetta: Chiedo scusa. Utilizzavo lo spoiler al posto del quote per timore di allungare troppo i post ^^

Tra l’altro:

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#39 Comment By Davide On 3 gennaio 2010 @ 21:05

Bah.
McCarthy non mi piace e questo romanzo mi ispira meno di zero.

Io continuo ad aspettare trepidante una recensione su qualcosa di DAVVERO bello… O comunque qualcosa che si meriti più di una stivalata.XD

#40 Comment By ??? On 4 gennaio 2010 @ 07:41

Premetto che il libro non l’ho letto.

Domanda: ma questo libro puo davvero essere definito di fantascienza?

No, perche a parte il disastro cambiaclima (che comunque non si vede) potrebbe benissimo essere un libro horror in cui padre e figlio si perdono per anni in una terra ghiacciata disseminata di cannibali.

Mi ricorda un po l’esempio che faceva gamberetta sui colonizzatori che litigano per degli appezzamenti su marte e che in realta sono semplicemente dei cowboy nello spazio.

Qui la nomeclatura SF mi sa che serve solo per il Messaggio/Riflessioni che l’autore voleva fare sulla nattura umana, o no?

#41 Comment By Gamberetta On 4 gennaio 2010 @ 20:22

@???. Tradizionalmente questo genere di romanzi è catalogato come fantascienza, a meno che l’apocalisse non sia “magica”, ma non è questo il caso. Non mi sembra un romanzo di orrore: ci sono un paio di scene che possono dare fastidio, ma niente di che.

#42 Comment By zio Gil On 5 gennaio 2010 @ 13:28

È la prima volta che ti leggo e mi inginocchio di fronte alla tua mastodonzìa recensiva. Seriamente!

#43 Comment By demonio pellegrino On 5 gennaio 2010 @ 23:41

Ciao, osservazioni interessanti, ma mi trovo in disaccordo con alcune tue affermazioni, e ti spiego perche’. Il libro puo’ piacere o non piacere, e’ ovvio. Pero’ alcune cose che tu interpreti come debolezze del testo a me sono sembrate invece punti di forza.

Tu dici, ad esempio, che non succede mai nulla, e che e’ tutto un

disperarsi – avere fame – cercare da mangiare – ingozzarsi – disperarsi – avere fame – cercare da mangiare – fuggire dai cannibali – ingozzarsi – disperarsi – e così via.

E dici che e’ un problema. E invece io questo l’ho trovato uno degli elementi di forza del libro: quando ad un uomo togli tutto il resto, che cosa resta? Restano solo i bisogni primari e nient’altro, a prima vista. E mi pare che McCarthy abbia voluto e saputo trasmettere questa disperazione dei bisogni in modo netto, chiaro.

Dici di trovare stucchevole il discorso sulla bonta’, che invece e’ per me al centro di tutto il libro: quest’uomo cerca di insegnare al ragazzo dei principi di un’umanita’, di una distinzione tra bene e male, che il ragazzo per forza di cose non ha potuto conoscere se non nei racconti del padre, appunto.

Che uno possa trovare il tutto noioso ci sta, certo. Pero’ credo che McCarthy volesse proprio chiedere (e far si’ che ci chiedessimo): che cos’e’ l’uomo quando tutto il resto e’ finito? Si riduce ai suoi bisogni primari? O c’e’ dell’altro? L’uomo cerca d’insegnare al ragazzo che si’, c’e’ dell’altro. Cerca d’insegnare che cosa sia la bonta’, e in un mondo di cannibali postatomici (o qualsiasi fosse la catastrofe) non e’ poco. E soprattutto credo che il linguaggio utilizzato e la sintassi utilizzata sappiano trasmettere quest’urgenza, questa sensazione di morte imminente. Morte non solo fisica.

Ultima cosa. Riconosco che quella delle traduzioni e’ una fissazione mia, ma personalmente non ho trovato la traduzione italiana particolarmente buona. Ho letto il libro prima in inglese, e poi in italiano, per capire se e come la traduzione riuscisse a rendere l’urgenza di cui parlavo sopra. E ho trovato la versione italiana deludente sotto molti aspetti, ma soprattutto perche’ si perde quell’atmosfera di stringatezza che la sintassi inglese di McCarthy sa creare, e si travisa (a volte poco, a volte molto) il significato delle parole scelte una ad una da McCarthy.

Ci sono alcune scelte linguistiche particolari che non mi hanno convinto per niente. Al di la’ del “Boh!” che hai notato anche tu, c’e’ anche da fare un discorso sul termine “boy”, che in italiano e’ stato tradotto con bambino, ma che bambino non e’. Uno puo’ essere anche un boy di 19-20 anni, e anche oltre. E’ chiaro che nel libro il boy in questione 20 anni non li ha, non sto dicendo questo: dico solo che se McCarthy ha scelto un termine come “boy” e non “kid”, per esempio, lo si sarebbe dovuto tradurre diversamente. Ragazzo, per esempio.

E prendiamo anche il suono “impossibile da descrivere”, che tu hai indicato come una caduta di stile. In inglese il testo dice un’altra cosa, piu’ drammatica, e cioe’ “A sound without cognate and so without description”, e cioe’ “un suono senza pari (ma cognate sarebbe piu’ corretto tradurlo con “affini, consanginuei”), e quindi senza descrizione”. Non so te, ma per me una cosa e’ leggere di “un suono senza affini e quindi senza descrizione” (come dice McCarthy), mentre un’altra cosa e’ la traduzione italiana ufficiale che dice “un suono senza pari e quindi impossibile da descrivere”. Il suono non e’ impossibile da descrivere. E’ senza descrizione. Molto diverso.

E potrei farti altri esempi (perche’ tradurre lid con “barattolo”, quando e’ il “coperchio”? Perche’ aggiungere dei “ma”, quando nel testo inglese il but non c’e’?)

Se e’ vero che e’ sempre meglio – quando si puo’ – leggere un libro in lingua originale, nel caso di McCarthy non solo e’ meglio, ma credo che sia essenziale. Il suo linguaggio, la sua sintassi sono come un personaggio vero e proprio del libro. Non solo nella strada.

In ogni caso, buon anno, scusa il pippone, e buona continuazione.

#44 Comment By Gamberetta On 6 gennaio 2010 @ 00:21

@demonio pellegrino.

E dici che e’ un problema. E invece io questo l’ho trovato uno degli elementi di forza del libro: quando ad un uomo togli tutto il resto, che cosa resta? Restano solo i bisogni primari e nient’altro, a prima vista. E mi pare che McCarthy abbia voluto e saputo trasmettere questa disperazione dei bisogni in modo netto, chiaro.

È vero, ma vale la pena scriverci un romanzo? È come se scrivessi un romanzo con un detenuto in isolamento. Dopo dieci anni il suo unico svago è dare testate al muro. Probabilmente è realistico, ma leggeresti 200 pagine di testate? Non basta essere verosimili, bisogna anche suscitare interesse. E McCarthy con questo romanzo non c’è riuscito molto, almeno per quanto mi riguarda.

Dici di trovare stucchevole il discorso sulla bonta’, che invece e’ per me al centro di tutto il libro: quest’uomo cerca di insegnare al ragazzo dei principi di un’umanita’, di una distinzione tra bene e male, che il ragazzo per forza di cose non ha potuto conoscere se non nei racconti del padre, appunto.

L’ho trovato stucchevole perché rimane discorso. Sono parole. Sarebbe stato molto più efficace se questa “bontà” fosse stata mostrata. Invece l’autore non spinge mai i protagonisti al limite della loro (dichiarata) bontà.

E prendiamo anche il suono “impossibile da descrivere”, che tu hai indicato come una caduta di stile. In inglese il testo dice un’altra cosa, piu’ drammatica, e cioe’ “A sound without cognate and so without description”, [...]

Sì, in inglese è meglio, ma rimane brutto lo stesso. Perché non è vero che tu senti suoni “senza pari e dunque indescrivibili”, questo è un raccontare successivo, non sono naturali pensieri del personaggio. È una costruzione vaga e artefatta. È brutto senza appello.

Per il resto non discuto: come detto ho controllato la traduzione solo qui e là e non mi è parsa oscena, non ho trovato niente del livello del personaggio che infila una rivista nella pistola (“magazine”…). Se però mi dici che nel complesso la traduzione non è un granché, ne prendo atto. Ci credo senza problemi.
Però tra “bambino” e “ragazzo” credo avrei tradotto anch’io “bambino”. È vero che “ragazzo” è la traduzione “giusta” di “boy”, però in inglese “boy” può essere più facilmente un bambino rispetto al “ragazzo” italiano. Non suona strano in inglese che l’uomo si carichi in spalla il “boy”, in italiano caricarsi in spalla il “ragazzo” è già più difficile.

#45 Comment By nove On 6 gennaio 2010 @ 12:18

“La strada” non è un romanzo fantastico né di fantascienza. Di conseguenza, recensirlo come tale è ridicolo. E anche un po’ patetico – adesso ci mettiamo a dare lezioni di scrittura anche a McCarthy? ma via, ragazzi… si è proprio perso il senso delle proporzioni.

#46 Comment By AryaSnow On 6 gennaio 2010 @ 12:48

“La strada” non è un romanzo fantastico né di fantascienza.

Perchè no?
Io non ho letto questo romanzo, te lo chiedo perchè sono curiosa…

E anche un po’ patetico – adesso ci mettiamo a dare lezioni di scrittura anche a McCarthy? ma via, ragazzi… si è proprio perso il senso delle proporzioni.

Non mi sembra che gli si voglia dare lezioni di scrittura. Semplicemente anche nei bravi (e anche nei grandi) scrittori si possono notare dei difetti. E’ normale, in romanzi di centinaia di pagine. Non c’è bisogna di essere più bravi di loro a scrivere per notarli.

#47 Comment By nove On 6 gennaio 2010 @ 13:01

Mi spiego subito.
Sul primo punto, McCarthy è uno scrittore- mondo, quindi sfugge a facili definizioni. Comunque , se vogliamo proprio definirlo, “La strada” è un romano metafisico.
Sul secondo punto, a tagliuzzare ed estrapolare una parola qua, una parola là, si finisce per fare l’editing anche alla Commedia dantesca. Non è questo il modo giusto di leggere. Davanti a un classico – e McCarthy lo è già, anche se ancora in vita – si legge per imparare. Altrimenti si ammette di non capirlo, di essere ancora troppo piccoli, o immaturi, e si passa ad altro.

#48 Comment By Okamis On 6 gennaio 2010 @ 13:14

A me sembra che Gamberetta abbia specificato a più riprese in questa recensione che lo stile di McCharthy è molto buono, se non ottimo. E’ però innegabile che ci sia sempre qualche frase che ci fa storcere il naso, pur non inficiando il risultato finale. Qui non credo si tratti di fare le pulci ai libri, ma cogliere quei piccoli difetti che, se impressi nella memoria, possono renderci tutti scrittori non dico migliori, ma quanto meno più attenti. Il mondo è pieno di romanzi meravigliosi, degli assoluti capolavori, ma nessuno di essi è perfetto. Fare le pulci, a mio modo di vedere, sarebbe sottolineare tutti i piccoli difetti di un buon libro e poi dire “a causa di queste quattro frasi stonate il libro X è una merda”; e non mi sembra proprio che sia quanto fatto da Gamberetta.

#49 Comment By nove On 6 gennaio 2010 @ 13:26

“possono renderci tutti scrittori non dico migliori, ma quanto meno più attenti”

Ma ragazzi, qua siamo tutti lettori! Chi sarebbero questi “scrittori”? Ma volete mettere i piedi a terra? Leggete i libri veri, invece di leggere queste recensioni senza né capo né coda, se proprio volete diventare “scrittori più attenti” – attenti a che, poi? Mah.

#50 Comment By Gamberetta On 6 gennaio 2010 @ 13:41

@nove. Evangelion o Haruhi potrebbero essere classificati come metafisica, La Strada è normale fantascienza. Aggiungo anche fantascienza non sempre convincente, visto che sbavature come il bunker o i prigionieri dei cannibali sono tipiche di un autore con scarsa dimestichezza del genere. Lo stile è buono, ma non mancano gli errori.
Ora, funziona così: io dico che paragonare delle finestre alla glassa sulla torta è una pessima idea, perché introdurre l’immagine di una torta nella testa del lettore stride con le 200 pagine precedenti, piene di cenere, fuliggine, nebbia, freddo e disperazione. Se tu invece pensi sia un’ottima similitudine, devi, testo alla mano, cercare di dimostrarlo. Dire: “È buona perché l’ha scritta McCarthy” non è un granché come ragionamento.
Se invece sei venuto qui solo per esprimere il tuo sdegno perché qualcuno osa criticare McCarthy, prendo atto. Sono sicura non ci dormirò la notte.

Non voglio cominciare il 2010 con altre polemiche inutili: se vuoi parlare di tecnica narrativa ti ascolto, se vuoi dare del patetico al prossimo perché non considera McCarthy un genio, l’hai fatto. Ora puoi anche cambiare aria. Grazie e ciao.

#51 Comment By nove On 6 gennaio 2010 @ 14:42

Missione compiuta.
Cambio aria. Ciao!

#52 Comment By caino On 6 gennaio 2010 @ 19:13

mi hai fatto sorridere, magari un giorno lo rileggi e magari rileggi la tua recensione.
e sorriderai.

#53 Comment By abo On 7 gennaio 2010 @ 12:15

Ciao Gamberetta, ho letto la tua recensione.
A me il libro è piaciuto parecchio, ma alcuni tuoi rilievi mi sembrano azzeccati (tipo quella “glassa” che stona con l’atmosfera generale, o quel “Boh” che non rende l’idea del testo originale).
Su altri punti non sono d’accordo, nel dettaglio:

Lo stile
A me sembra che ci sia un lavoro molto importante dal punto di vista stilistico. Può piacere o no (e a me lo stile “scheletrico” fatto di ellissi verbali e periodi secchi è piaciuto), ma in ogni caso credo che il risultato sia ottimo, non solo buono. E non parlo da un punto di vista qualitativo o estetico, ma funzionale. Suppongo che McCarthy, nel dipingere un mondo desertificato, abbia voluto applicare la stessa erosione al linguaggio. Il risultato è perfettamente riuscito, al punto che il senso di oppressione che si prova, quella “deliziosa atmosfera di disperazione” di cui parli, credo sia in buona parte da ascriversi al linguaggio utilizzato. Attribuire all’autore posizioni tipo “Adesso vi faccio vedere un esercizio di stile fine a se stesso” mi sembra un po’ eccessivo. Poi ognuno ha le sue idee, per carità.

La trama
Stesso discorso fatto per lo stile. Dici che “non succede niente”, e da un certo punto di vista puoi avere ragione. Però credo che anche questo sia funzionale alla storia. Se ci fossero state battaglie a suon di lanciarazzi e mosse di kung fu tra il padre e i cannibali, “La strada” non avrebbe avuto senso di esistere. Così invece abbiamo una storia solida, monotona come i paesaggi che le scorrono a fianco, e proprio per questo riuscita.

Il genere
Dici che nell’ambito della narrativa fantastica è insignificante.
Questo pone una questione: basta uno scenario apocalittico per rientrare nella narrativa fantastica? Secondo me no, soprattutto laddove non si spiega minimamente da cosa è stata causata la catastrofe. Penso che McCarthy volesse solo ambientare una relazione padre/figlio in un mondo allo sfacelo, senza altre pretese.

Detto ciò, trovo interessanti le tua analisi sulla pertinenza di alcune scelte fatte da McCarthy, adatte a una storia come questo ma che sarebbero fatali in un altro tipo di romanzo.
A rileggerti,
ciao

#54 Comment By Valentino On 7 gennaio 2010 @ 12:42

Onore al merito a Gamberetta per aver osato criticare senza sudditanze o inibizioni sua maestà McCarhty, ritenuto da molti uno dei più grandi scrittori viventi, nonchè potenziale premio nobel.

Non ho letto il libro e quindi non posso giudicarlo. Ho evitato di leggerlo, proprio perchè sospettavo che fosse una noia mortale, cosa che Gamberetta nella recensione sembra confermare.

Ricordo a proposito di fantascienza post-apocalittica l’ottimo racconto horror La città degli angeli (City of Angels, 1990), di J.S. Russell contenuto nella celebre antologia Splatterpunk in cui i sopravvissuti alla catastrofe sono molto più interessanti e divertenti di quelli di McCarthy e si danno allegramente al cannibalismo, neonati e organi genitali compresi. :)

Valentino

#55 Comment By Gamberetta On 7 gennaio 2010 @ 13:24

@abo.

La trama
Stesso discorso fatto per lo stile. Dici che “non succede niente”, e da un certo punto di vista puoi avere ragione. Però credo che anche questo sia funzionale alla storia. Se ci fossero state battaglie a suon di lanciarazzi e mosse di kung fu tra il padre e i cannibali, “La strada” non avrebbe avuto senso di esistere. Così invece abbiamo una storia solida, monotona come i paesaggi che le scorrono a fianco, e proprio per questo riuscita.

Se tu mi dici che lo scopo del romanzo era trasmettere monotonia, non posso che darti ragione in pieno. Però Lone wolf and cub è altrettanto serio, drammatico, duro e disperato di McCarthy e ci sono battaglie ogni capitolo.
A me sembra che ci sia un pregiudizio, per cui le scene d’azione in sé non si accorderebbero con la “serietà letteraria”. E mi sembra appunto un pregiudizio, senza alcun fondamento. Fai il romanzo monotono/disperato/OMG-è-la-fine-del-mondo! e in più ci metti il kung fu, così i lettori non si addormentano.

Il genere
Dici che nell’ambito della narrativa fantastica è insignificante.
Questo pone una questione: basta uno scenario apocalittico per rientrare nella narrativa fantastica?

Di per sé no, ma qui mi sembra che lo scenario sia parte fondamentale della storia. Il rapporto padre/figlio non sarebbe quello descritto se fossero tranquilli a casa loro.
Tra l’altro, il “fantastico” mi sembra la parte migliore. Gran parte del fascino del romanzo è nello scenario. I due personaggi non mi hanno trasmesso alcuna particolare emozione.

#56 Comment By Aleagio On 7 gennaio 2010 @ 14:32

Salve.
il commento di abo e la risposta di gamberetta mi pare sintetizzino bene l’opposizione Literly Fiction Vs Genre Fiction. Se si guarda a “La Strada” come un libro letterario (nel senso non-di-genere) la monotonia non è un problema grave, perché è più importante lo stile, l’aderenza all’atmosfera, cose così. Questo non toglie che la noia sia un male, solo che è meno male. Un discorso simile per l’ambientazione: uno scenario post-apocalittico è una soluzione, se non originale, quanto meno poco vista, nell’ambito della letteratura non di genere (intasata di quotidianità e piccole cose), mentre è molto banale nel campo della SF.
Fermo restando che la glassa come metafora è infelice e che la noia non è mai bella e tutto il resto, poi uno valuta questo secondo la propria idea di letteratura.

#57 Comment By abo On 7 gennaio 2010 @ 14:41

Se il pregiudizio di cui parli c’è, è sicuramente sbagliato.
Però credo che troppa azione qui avrebbe snaturato tutta la costruzione del libro, che si svolge e ha una sua ragion d’essere proprio nella ripetitività, nell’impossibilità di arrivare da qualche parte.
Questione di gusti, probabilmente.

@Valentino:
scusa la pignoleria, ma se il libro non l’hai letto come fai a sapere che i personaggi di Russel sono molto più divertenti? Non voglio dire che non lo siano, e capisco che ti fidi della recensione di Gamberetta, però forse sarebbe più sensato se ti formassi una tua opinione leggendo il romanzo, non trovi?

#58 Comment By Valentino On 7 gennaio 2010 @ 14:58

@Abo:
se il mio tempo libero dedicato alla lettura fosse una risorsa infinita, sicuramente leggerei il libro di McCarthy.
Purtroppo, non lo è. E ho una lista enorme di cose da leggere che mi ‘sembrano’ più interessanti e divertenti, visto che io leggo per diletto (non per dovere professionale, come fa a volte Gamberetta).
Devo quindi per forza fidarmi dei pareri altrui, soprattutto se li ritengo autorevoli, per decidere cosa leggere e cosa no.
Poi possono benissimo sbagliare, anzi è inevitabile talvolta.

Valentino.

#59 Comment By AryaSnow On 7 gennaio 2010 @ 20:23

1) Ho il sospetto che ciò che rende un po’ noioso il libro non sia l’assenza di scene di battaglia. Dello stesso autore ho letto altri libri, tra cui Meridiano di Sangue. E’ pieno zeppo di battaglie, di stragi e di cattiveria. Però le azioni alla lunga diventano davvero ripetitive. Ci sono questi cacciatori di scalpi che vagano per tutto il tempo: strage in un villaggio, lunga descrizione paesaggistica, sbronza nella taverna di un altro villaggio, lunga descrizione paesaggistica… e poi riprende tutto daccapo :-P Adesso sto semplificando, non dico che ci sia solo questo, ma c’è questo meccanismo ripetitivo per cui a tratti mi sono annoiata.

2) Per me non c’entra niente fare literary fiction o meno, la noia è sempre ugualmente un male. Penso che nessuno voglia leggere allo scopo di annoiarsi. Anche perchè questa distinzione tra literary fiction e letteratura di genere, per quante definizioni abbia letto, non mi ha mai tanto convinta nè l’ho mai del tutto capita.

#60 Comment By abo On 7 gennaio 2010 @ 20:53

@AryaSnow
Su “Meridiano di sangue” sono perfettamente d’accordo con te, lì la ripetizione è davvero eccessiva e sfiancante, anche a causa della discreta lunghezza del romanzo.
“La strada”, e ovviamente è un gusto personale, io non l’ho trovato affatto noioso.
In un commento precedente ho parlato di monotonia, ma non intendevo assolutamente indicare che il libro sia un mattone; anche perché si legge in tre ore, se uno ci si mette.
Con monotonia intendevo più una sensazione di ineluttabilità, il fatto che la strada, in fin dei conti, non porti da nessuna parte.

#61 Pingback By [Il capolavoro del 2009] La strada – Il Forum ufficiale di Multiplayer.it, con discussioni, sondaggi e le ultime informazioni On 8 gennaio 2010 @ 00:24

[...] No, davvero. Merita tantissimo Ne avevo letto ultimamente in un luogo non propriamente amichevole Cymon Follow the Rabbit! Il primo risultato di Google se cercate "adolescenti [...]

#62 Comment By francesca On 8 gennaio 2010 @ 15:02

Mi trovo per lo più d’accordo con abo e demonio pellegrino. Comuqneu sto rileggendo il libro, e aggiungo che dal mio punto di vista non è vero che non succede niente: i nostri rischiano la morte abbastanza spesso.
Ad esempio dopo poche pagine il bambino è catturato da un cannibale e il padre lo (cannibale) spara in fronte. OK, questo è routine in certi romanzi, ma per i nostri personaggi, in cui (almeno in teoria, per me sì) il lettore si è nel frattempo immedesimato, è un evento piuttosto pesante. Poi, dpo il bunker dei cannibali, i due rischiano di essere presi, e mentre restano nascosti tra le frasche il padre ripassa: in caso di cattura, uccidere il figlio con pistola. Se pistola si inceppa, si chiede, sarò in grado di spaccargli la testa con un sasso? Poi fa ripassare al figlio ; in caso di cattura del padre, se lui ha la pistola, si dovrà sparare in bocca. Voi avete fratellini, figli ecc.? Potete immaginarvi di spaccargli la testa con un sasso per il loro bene, o di spieinsegnargli come uccidersi? Per me è abbastanza potente, quantomeno come conflitti interiori e tensione evocata. I nostri rischiano poi più volte di morire di fame e di freddo, e di essere sgamati dai cannibali. Sono circa a metà.
Per il bunker: durante gli anni 60-70, ovvero durante la guerra fredda e l’incubo della catastrofe nucleare, non era affatto strano per gli americani costruirsi un bunker antiatomico in giardino. Ci sono molte testimonianze fotografiche di ciò, e molti saggi. E’ abbastanza un topos americano, tipo il drive-in.
E’ invece davvero uno scivolone il fatto delle uova. E, aggiungo, c’è persino del burro! Chissà che buono.

#63 Comment By francesca On 8 gennaio 2010 @ 15:20

#64 Comment By francesca On 8 gennaio 2010 @ 15:29

Infine, mi lancio per ridere nell’esegesi della glassa: suona in effetti piuttosto male in italiano, ma posso forse capire la scelta del vocabolo inglese icing o frosting – che hanno entrambi la stessa radice di ghiaccio (come anche il francese glace) e dunque la connotzione di qualcosa di freddo e incolore.

#65 Comment By Gamberetta On 8 gennaio 2010 @ 15:56

@francesca.

mentre restano nascosti tra le frasche il padre ripassa: in caso di cattura, uccidere il figlio con pistola. Se pistola si inceppa, si chiede, sarò in grado di spaccargli la testa con un sasso? Poi fa ripassare al figlio ; in caso di cattura del padre, se lui ha la pistola, si dovrà sparare in bocca. Voi avete fratellini, figli ecc.? Potete immaginarvi di spaccargli la testa con un sasso per il loro bene, o di spieinsegnargli come uccidersi? Per me è abbastanza potente, quantomeno come conflitti interiori e tensione evocata.

È molto fiacco. Perché è raccontare invece di mostrare. Se arrivano due cannibali e acchiappano il bambino per le gambe e l’uomo ha un solo proiettile, cosa succede? Spara al bambino? Spara a uno dei due cannibali? Si suicida? Lascia perdere? Lascia perdere ma poi insegue i cannibali?
È così che c’è tensione e possiamo vedere motivazioni e psicologia dei personaggi. L’azione ha sempre più impatto emotivo delle chiacchiere.
Quando Itto Ogami decide di intraprendere la Via dell’Inferno, non è che si domanda oziosamente se avrà il coraggio di uccidere il figlio, dovesse il bambino rifiutarsi di seguirlo. Invece piazza davanti al bambino la palla e la spada: se il figlio farà la scelta sbagliata, lo ammazzerà. La tensione e la psicologia sono mostrati. È un metodo molto più efficace che non quello di McCarthy (e senza polemica, ma se ‘sto tizio è sul serio uno dei migliori scrittori viventi siamo messi male, altro che Troisi. Non che non sia bravo, ma non mi pare proprio un genio).

Per il bunker: non ho mai detto che non esistano, è solo molto sospetto che ne trovino uno proprio quando hanno bisogno. Anche il quinto cavalleggeri esiste, ma è un po’ strano che non si veda mai, tranne quando gli indiani stanno per superare le difese del forte.
Inoltre la storia non è ambientata negli ’60, ci sono vari riferimenti più recenti, non so nel 2006 chi, anche in America, ha un bunker e lo tiene così ben rifornito.

La glassa: non è solo la glassa, è la glassa sulla torta.

#66 Comment By francesca On 8 gennaio 2010 @ 17:08

Trovo invece che crei tensione perchè non sono pensieri oziosi, ma ci sono alte probabilità che l’evento si verifichi anche nell’immediato. Inoltre l’uomo è osessionato da questa eventualità ed essendo l’unico PDV, è logico e per me interessante che noi si sappia cosa succede nella testa dell’uomo: e nel momento del pericolo lui fa, come farebbe chiunque, queste considerazioni senza aspettare l’accadere dell’evento stesso. Capisco che a chi ama i libri d’azione o il genere fantastico questo possa non piacere, ma poichè La strada non è un libro di genere fantastico, e nessuno ha mai cercato di venderlo come tale, non è logico giudicarlo secondo i canoni del genere solo perchè è ambientato in un mondo apocalittico, non più di quanto sarebbe logico recensire Delitto e castigo come un noir solo perchè è incentrato su un assassinio o Lolita come un romanzo rosa perchè tratta della passione di un uomo per una donna. Per inciso anche questi due sono romanzi dove ci sono molti pensieri e meno azioni, però converrai che non sono malaccio.

#67 Comment By abo On 8 gennaio 2010 @ 17:15

Quel che dice Gamberetta è vero, ed è una delle prime cose che si possono imparare nei corsi di scrittura creativa.
Resta il fatto che la formula “Show, don’t tell” è una linea guida di massima, un impronta da seguire per rendere il racconto più vivo, “visivo”.
Secondo me però non va presa come un dettame che non può MAI essere messo da parte, neppure per un secondo. Ci sono romanzi che rompono la regola in più di un passaggio, senza per questo essere carta straccia.
In questi giorni sto leggendo Pan, che Gamberetta ha recensito in passato, giudicandolo un bel romanzo. Anche Dimitri ogni tanto racconta qualcosa invece che mostrarlo, ma questo non inficia minimamente la qualità della sua opera (che fino ad ora sembra anche a me buona).
Non siamo troppo rigidi, altrimenti la scrittura diventa matematica, e credo siamo tutti d’accordo che non sarebbe un miglioramento.

#68 Comment By Gamberetta On 8 gennaio 2010 @ 17:51

@abo. Il principio dietro lo show don’t tell, ovvero il concreto invece dell’astratto (“Anna premette la pistola contro la tempia di Michele” invece di “Anna minacciò Michele”) è stato dimostrato. Se riesci a essere abbastanza concreto, attivi le zone del cervello del lettore corrispondenti alla situazione descritta. Ovvero il lettore “simula” quello che sta succedendo come se fosse lì.
Ciò non vuol dire che lo devi fare sempre. Non hai nessun vantaggio a costringere il lettore a “simulare” situazioni noiose, banali o ripetitive. Oppure altri lettori potrebbero trovare sgradevole la simulazione di scene di sesso o violenza. O magari vuoi comunicare un concetto ma non ti viene proprio in mente come mostrarlo. Pazienza, un buon raccontato può essere meglio di niente.
E un romanzo può essere un ottimo romanzo anche se pieno di errori. Ma è nonostante gli errori, non per merito di questi. Come spiegavo nell’articolo sul senso del meraviglioso: il romanzo di Stapledon può piacere nonostante lo stile particolare; ma perché ha altre qualità, non perché lo stile abbia dei meriti.

Ora, McCarthy non è vero che non segue il principio dello show don’t tell. Il suo romanzo è quasi sempre mostrato. Anche le preoccupazioni del personaggio vanno bene, è naturale che abbia quei pensieri. Però si poteva fare di più. Se alle giuste preoccupazioni pensate si aggiungevano preoccupazioni concrete, mostrate, sarebbe stato meglio.

#69 Comment By francesca On 8 gennaio 2010 @ 19:49

Inoltre la storia non è ambientata negli ’60, ci sono vari riferimenti più recenti, non so nel 2006 chi, anche in America, ha un bunker e lo tiene così ben rifornito.

sì, io ho immaginato che la catastrofe fosse annunciata, o prevedibile, e dunque, come negli anni ’60, la gente si fosse messa a dotarsi di rifugi simili o ristrutturato i vecchi: magari la guerra con un paese dotato di atomica o che so un meteorite che da qualche anno si sapeva avrebbe colpito la terra.

#70 Comment By Andrea On 8 gennaio 2010 @ 20:52

Credo che se andassimo a spulciare ogni riga di qualsiasi romanzo, di certo troveremmo qualche sbavatura, qualche “errore” o caduta di stile. Nonostante l’autore e l’editor siano bravi, è davvero arduo che una frase, un paragrafo, risultino sempre perfetti.
Così McCarthy, che da insegnare, perdonami, sulla scrittura ne ha davvero tanto.

La strada, secondo me, è un romanzo bellissimo e agghiacciante insieme. Non ricordo se alle volte un dialogo traballava, ma la maggior parte dei dialoghi li ricordoinvece perfetti. Le descrizioni evocativi, capaci come poche di disegnare una desolazione silenziosa, penetrante.
Certo, non accade niente. Non c’è una guerra stile Ken shiro, non ci sono alieni.
C’è l’uomo. La solitudine. E un bambino. In viaggio verso la vita.
Questo è forse poco?
Il romanzo procede a flash, paragrafi che illuminano quei pochi momenti importanti delle lunghe e disarmanti giornate di un viaggio allucinante.
Naturalmente, ognuno poi ha i suoi gusti, le proprie preferenze. Tuttavia, questo non è un romanzo post-apocalittico, o di fantascienza.
E’ un romanzo. Un gran bel romanzo.

#71 Comment By igorilla On 9 gennaio 2010 @ 18:47

@Gamberetta

ho visto che hai aggiustato i link delle graphic novel che ho segnalato

gli hai dato un’occhiata?

#72 Comment By Gamberetta On 10 gennaio 2010 @ 00:00

@igorilla. Ho scaricato ma non ho ancora guardato niente. Negli ultimi quindici giorni non ho combinato molto, a parte leggere La Strada e istupidirmi di dolci.

#73 Comment By Emanuele On 14 gennaio 2010 @ 20:41

Liquidare “La strada” come un romanzo monotono, con un finale pessimo e privo di idee originali sottolinea non tanto i difeeti del libro o le mancanze di chi lo ha scritto, quanto la superficialità,la mancanza di capacità critica, l’incapacità di analisi di chi il libro lo ha letto e quindi giudicato.
Che poi il libro in questione possa piacere o meno è tutt’altra faccenda, ci mancherebbe; ma liquidarlo in modo così banale, senza dedicargli quell’attenzione che merita, significa non aver capito niente di quello che si è letto, e la colpa non è certo di McCarthy.
Del resto dire che la strada è un “fantasy” già la dice lunga; prendere a suffragio delle proprie banali affermazioni il fatto che pur avendo vinto un pulitzer non ha neanche ottenuto un nebula, o un hugo o un qualche altro premio del genere sottolinea non tanto la pochezza del libro, ma l’ignoranza di chi non capisce che “La strada” non è certo un fantasy, dimostrando che chi si lancia in tali avventurosi giudizi non sa neanche cosa sia un fantasy; cosa invece ben chiara nella mente di chi tali premi assegna. Ma anche ammettendo una bestemmia come questa, non è certo l’assegnazione di un premio a sancire la bellezza di un libro, e pensare il contrario significa essere ben miseri lettori.
“La strada” appartiene al vasto panorama della narrativa contemporanea e non ha bisogno di essere etichettato come romanzo fantasy o di fantascienza, proprio perchè di fatto non appartiene nè ad un genere nè ad un altro; narrativa, pura e semplice. Volerlo etichettare forse da più sicurezza e senso di controllo a chi per comprendere un libro ha bisogno di circoscriverlo in un genere, ma non per questo corrisponde al vero.
In quanto alla mancanza di originalità ovviamente non si può dire che sia un’idea nuova quella di immaginare e descrivere un futuro post-apocalittico, ci mancherebbe, ma costruire una situazione del genere intorno al rapporto tra un padre e un figlio che in questa ambientazione si muovono, far reggere l’intera narrazione sul delicato e costante dialogo tra i due, beh, non è certo cosa da poco.
La mancanza di una spiegazione concreta a ciò che è accaduto, l’assenza di altri personaggi chiave, l’evanescenza di altri ancora servono proprio a non interrompere tale rapporto, la vera chiave e la vera originalità del romanzo, ed insieme a rendere il tutto ancora più crudo e vero. E anche in questo caso, se non si capisce questo aspetto, la colpa non è certo di McCarthy.
In quanto ai presunti esercizi di stile dell’autore, sono nulla rispetto a quelli di chi ha scritto tale recensione richiamando qua e là estratti del libro e salendo in cattedra per dare lezioni a chi di lezioni come queste probabilmente non necessita.
E non perchè si chiami McCarthy, ci mancherebbe.
Non è la sudditanza psicologica a rendere bello “La strada”, neanche il pulitzer, ma il suo contenuto, le sue righe, il suo significato, che non tutti, evidentemente riescono a cogliere, al di là che possa piacere o meno.

#74 Comment By Skalda On 15 gennaio 2010 @ 12:27

Ma perchè per difendere Cormac McCarthy bisogna per forza appellarsi al Principio di autorità?
Magari rispondere sul merito aiuterebbe la comprensione delle ragioni di tutti.

Quanto al pregiudizio (tutto italiano, temo) secondo il quale ci sono scrittori alti e scrittori di genere, e ovviamente i secondi sono geneticamente inferiori ai primi, forse è ora di finirla.

E sì, gli scrittori alti, quelli che vincono i premi, e fanno tanta Cultura, scrivono, a volte, romanzi di genere.

#75 Comment By Mauro On 24 gennaio 2010 @ 13:47

E intanto sembra che il film non verrà distribuito in Italia.

#76 Comment By Denis On 23 ottobre 2010 @ 22:14

francamente ….. sto leggendo “la strada” e devo dirti che sebbene lo stile freddo, il dialogo a due, una monotonia dovuta alla storia in se ….. a me piace.
Sono un appassionato di fantascienza post apocalittica, da ragazzo amai “Testimoni dell’uomo” di Algis Budrys e “il lungo silenzio” di Wilson Tucker.
Mi sono sempre appassionato delle storie dove l’uomo, il singolo, torna ad essere protagonista e dove la sopravvivenza è uno dei temi principe.
Forse “the road” presenta meno azione di altri romanzi, ma sai….mentre mio figlio dorme nella sua stanza, mi si forma un groppo allo stomaco pensando di doverlo proteggere, che questo diventi il mio unico pensiero. Un mondo grigio, ormai in disfacimento, dove un semplice dente cariato potrebbe trasformarsi in un problema. “moriremo?” chiede il bambino. Va bene è un romanzo, ma mentre sono sprofondato nel mio letto e penso al bimbo in camera sua, mi incupisco. Nella tua critica hai sorvolato due passaggi che invece mi hanno colpito e poco fa, a cena, ho fatto leggere a mia moglie: 1) quando il padre da tutta la cioccolata calda al figlio e questi lo rimprovera: una situazione semplice, probabilmente banale in un romanzo. La semplicità di un gesto d’amore. 2) quando in una stazione di servizio, in quel che ne resta, trova una lattina di coca cola e la offre al figlio.
Credo che in un mondo ormai disfatto una coca in più o in meno non faccia differenza, in particolare se, come il bimbo della storia, non sai neanche cos’è.
Ma se l’hai sempre bevuta, l’hai data scontata come tutti noi per anni, in quel momento, quando ma mesi e anni ti muovi in un mondo morto, dove tutto ciò che conoscevi ed amavi si è perso, quella lattina si trasforma in un doloroso ricordo di ciò che era e non sarà più. L’assaporeresti pensando ….non l’assaggerò più, è l’ultima.
“the road” è un bel romanzo? è scritto bene? non lo so, a me piace perchè evoca in me tutti questi stati d’animo.
Probabilmente il mio commento è OT in un articolo di critica stilistica. Semplice parere da lettore.
Un saluto

#77 Comment By Serbelloni_mazzanti On 1 dicembre 2010 @ 12:41

ciao a tutti,
innanzitutto grazie per recensione senza la quale non avrei mai letto questo libro.
Detto ciò, l’ho trovato un buon racconto anche se mi ha un po’ inalberato il fatto che racchiudesse un sacco di potenzialità alla fine purtroppo inespresse.
Avanzando con la lettura mi dava la sensazione che il colpo di scena sarebbe stato dietro l’angolo ma…niente.
D’altronde la recensione era stata chiara :)
Non sono d’accordo pero’ sulla parte riguardante la villa Mostra spoiler ▼

Per il neonato invece Mostra spoiler ▼

Per quanto riguarda la glassa sulla torta, per me quella frase è dovuta alla fame disperata del protagonista che vede nei palazzi sciolti dalle esplosioni atomiche “miraggi” di torte, e lo posso capire, che poi stilisticamente stia male…
Ora sto leggendo La città proibita e anche stavolta ti devo dire grazie per la soffiata: anche se mi sembra un’avventura piu’ “western” che postatomica, mi sta prendendo molto.
Approfitto per chiedere altri consigli su libri di questo tipo
grazie a tutti

#78 Comment By Gamberetta On 1 dicembre 2010 @ 13:23

@Serbelloni_mazzanti. Il problema della villa non è fare scorte, ma fare scorte di carne viva. Dovrebbero acchiappare la gente, ammazzarla e metterla sotto sale. Se la tieni viva le scorte si consumano ogni giorno che passa.

Per quanto riguarda romanzi simili: ce ne sono a mucchi. Il sottogenere della narrativa post apocalittica è pieno di opere.
Te ne segnalo tre che mi sono piaciute:
Morte dell’erba di John Christopher.
Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller, Jr.
Io sono leggenda di Richard Matheson.
E come bonus il racconto lungo di Harlan Ellison “Un ragazzo e il suo cane” che è un piccolo capolavoro.

#79 Comment By Serbelloni_mazzanti On 1 dicembre 2010 @ 15:48

Grazie per i libri Gamberetta, poi mi sono spiegato male:
secondo me i prigionieri già si mantengono in vita mangiandosi tra di loro.
Chiaro, dopo un po’ di tempo non ce ne sarebbero piu’ ma intanto quelli che sopravvivono contribuirebbero a far da cibo ai loro carcerieri.
Se non avessi modo di conservare carne macellata Io farei lo stesso.

#80 Comment By Ewan On 27 dicembre 2010 @ 17:51

Ciao Gamberetta, ogni tanto leggo il tuo blog ma in genere non commento. Qui però volevo puntualizzare che nell’edizione in brossura dell’Einaudi la frase “the last host of Christendom” è resa, correttamente, con “l’ultima ostia della cristianità”. Che a me sembra un’immagine potente, ma questo è soggettivo.

#81 Comment By skorpio On 3 gennaio 2011 @ 18:06

senza voler entrare troppo nel merito nè del romanzo (che a me è piaciuto moltissimo) nè del film (idem), volevo segnalarti che le uova che il padre e il bambino trovano nel rifugio sono probabilmente uova LIOFILIZZATE, facilmente reperibili in commercio negli USA, mentre da noi sono poco diffuse, specialmente tra i privati cittadini, mentre per gli usi “professionali” (ad esempio in pasticceria) quasi sempre sono usate quelle…

#82 Comment By Gamberetta On 3 gennaio 2011 @ 20:05

@skorpio. L’edizione inglese non parla di uova liofilizzate da nessuna parte, dice che cuociono “scrambled eggs” (uova strapazzate). Data la precisione con cui McCarthy descrive ogni particolare, se ci fosse stata di mezzo la liofilizzazione l’avrebbe detto.

#83 Comment By skorpio On 4 gennaio 2011 @ 11:23

proprio per la precisione con cui scrive ogni particolare mi pare strano che si sia lasciato sfuggire lo svarione che rilevi tu (“Persino uova, che non si capisce come siano rimaste commestibili dopo anni”): peraltro (a quanto ho letto) reidratando e scaldando uova liofilizzate l’aspetto di ciò che si ricava è proprio quello delle uova strapazzate…

http://mtkilimonjaro.blogspot.com/2007/12/powdered-whole-eggs-scrambled.html

#84 Comment By Symbolic On 16 gennaio 2011 @ 12:45

La strada ha poco o nulla a che vedere con la fantascienza.
Come giustamente affermato da Gamberetta manca il sense of wonder. Il punto è che non era nelle intenzioni dell’autore scrivere un romanzo di fantascienza. McCarthy sfrutta il grigiore dello scenario post-apocalittico come cornice di un romanzo sul rapporto padre figlio, come affermato tempo fa dallo stesso autore in un’intervista a Oprah:

(riporto una risposta significativa dell’intervista che potete leggere qui in italiano)
McCarthy – Sì. Abbiamo preso una stanza nel vecchio albergo della città. Una notte, saranno state le due o le tre del mattino, mentre mio figlio dormiva, mi sono messo a guardare fuori dalla finestra e a osservare questa città: non si muoveva nulla e si sentiva in lontananza il solitario suono dei treni che arrivavano e ripartivano. Improvvisamente si è formata l’immagine di come potrebbe apparire questa città fra 50 o 100 cento anni. 

Quindi, allo stesso modo in cui quella porcheria di Twilight non può essere considerato un libro sui vampiri ma “romanzo rosa per tredicenni”, La strada non può essere inserito nella categoria della “fantascienza post-apocalittica”.

Pollice su per Io sono leggenda di Matheson da quel punto di vista, come suggerito da Gamberetta.

Ho una nota sul finale e la bontà.
Per molti l’opera di McCarthy è stata costellata di opere dalle tematiche oscure, come una sorta di “antologia del male”. E molti dei suoi personaggi principali sono espressione di una malignità quasi primordiale: Il Giudice di Meridiano di Sangue, Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi, Lester Ballard di Figlio di dio. Credo che con questo episodio – soprattutto per il tema padre figlio – volesse fare l’inverso, suggerendo un barlume di speranza dove non ci si immagina di trovarla. Io stesso mi sono stupito che non finisse con un banchetto di carne umana a favore dei cannibali.


URL dell'articolo: http://fantasy.gamberi.org/2009/12/31/persa-per-strada/

Gamberi Fantasy