Manuali 2 – Dialoghi
Introduzione
Questo è il secondo articolo dedicato ai manuali di scrittura. Il primo articolo, Manuali 1 – Descrizioni, si trova qui. Il terzo articolo, Manuali 3 – Mostrare, si trova qui.
Ricordo che questi articoli sono un invito alla lettura. Se l’argomento vi interessa, leggete i manuali via via segnalati. Li trovate tutti su gigapedia e molti anche su emule. In questo articolo c’è l’elenco completo dei manuali che ho scovato su gigapedia. Sì, lo so, sono in inglese. Ho aggiunto qualche nota bibliografica quando un manuale ha avuto un’edizione italiana, ma non posso farci niente se la traduzione è pessima o l’edizione italiana è fuori commercio. Se si intende scrivere fantasy o fantascienza con serietà, vale la pena investire del tempo per imparare l’inglese. Non è indispensabile, ma aiuta moltissimo.
* * *
Se pensate che i manuali di scrittura siano inutili o dannosi, prima di continuare date un’occhiata alle Risposte ai Miti.
A tal proposito, voglio aggiungere qualche altra parola.
Lo scopo è imparare a scrivere bene. Essere orgogliosi dei romanzi e dei racconti che si scrivono. Troppo spesso si confonde la buona scrittura con la pubblicazione (intesa in senso tradizionale: il romanzo in libreria). Scrivere bene e pubblicare sono due attività distinte. Qualche volta c’è un rapporto di causa-effetto (ho scritto un bel romanzo, vengo pubblicata), nella maggior parte dei casi non c’è alcuna particolare correlazione.
Ciò non vuol dire che non si debba aspirare a pubblicare, è un desiderio legittimo, ma non può essere la spinta a cercare di migliorarsi, perché scrivere più o meno bene non incide sulle possibilità di approdare in libreria. Se una persona mi chiedesse: “Ma in pratica, che vantaggio ho a studiare l’inglese? Leggere i manuali di scrittura? Darmi una disciplina nello scrivere?” la risposta sarebbe che non c’è alcun vantaggio pratico. Il “vantaggio” è che si potrà essere fieri di quello che si è scritto e, se qualcuno leggerà le nostre storie, non dovremo vergognarci.
Così come scrivere bene non porta necessariamente alla pubblicazione, allo stesso modo un romanzo non diventa automaticamente decente perché ha trovato una casa editrice. Scrive Ansen Dibell in Plot:
Bad writing, by any standard you care to name, sometimes reaches the printed page.
Print doesn’t sanctify it. I’ve read some really rottenly-written fiction over the years, and not all of it in dog-eared copies with garish covers, from used-book shops—how about you?
But competent writers have their lapses, too. In many cases where a major narrative blunder survives into print, it’s tolerated because the story shines like a jewel, flaws and all, and the momentary failure of craft is forgiven for the sake of the power of the whole.
Some boners are allowed great writers. Laughably bad technique is often tolerated from very popular writers. But you and I are interested in good craft, in understanding options and making choices on purpose. If you didn’t care about craft, you wouldn’t be reading this book. So you wouldn’t want to cite others’ blunders to justify your own anyway—right?
La cattiva scrittura, qualunque criterio si adotti per definirla, qualche volta raggiunge la pagina stampata.
La pubblicazione non santifica la cattiva scrittura. Nel corso degli anni mi è capitato di leggere narrativa scritta in maniera davvero schifosa, e non sempre si trattava di libri trovati su qualche bancarella, con i bordi delle pagine arricciati e copertine pacchiane. E a voi è mai capitato?
Ma anche gli scrittori competenti ogni tanto sbagliano. In molti casi, quando un errore vistoso arriva fino alla pubblicazione, è perché la storia risplende come un gioiello, difetti compresi, e una svista è oscurata dalla qualità dell’insieme.
Qualche strafalcione è concesso ai grandi scrittori. Una tecnica ridicolmente scarsa è spesso tollerata in scrittori molto popolari. Ma noi siamo interessati alla buona scrittura, siamo interessati a conoscere le alternative e vogliamo compiere scelte consapevoli. Se non vi interessasse la buona scrittura, non stareste leggendo questo libro. Perciò non vi metterete a citare gli errori degli altri per giustificare i vostri, giusto?
In altre parole: non si tratta di mettersi in competizione con autori già pubblicati, non si tratta di una gara per arrivare alla pubblicazione, si tratta di imparare a scrivere bene!
Imparate a scrivere una buona volta! Non costringetemi a usare il bokken: anche se è solo una spada di legno, fa molto male
Scopo dei dialoghi
La scopo principale dei dialoghi è caratterizzare i personaggi che vi partecipano.
I dialoghi sono uno strumento potentissimo per definire un personaggio, spesso ancor più delle azioni che compie:
Michele esce ogni sera con una ragazza diversa: le sue azioni lo definiscono come un certo tipo di personaggio.
Michele esce ogni sera con una ragazza diversa; a ognuna dice che l’amerà per tutta la vita e non la tradirà mai: le azioni sono uguali, ma il dialogo dipinge un Michele diverso.
Michele spara a Carlo: Michele è un certo tipo di personaggio.
Carlo dice a Michele che gli ha ucciso il figlio, Michele gli spara: stessa azione, ma il dialogo dipinge un altro Michele (e un altro Carlo, non più vittima innocente).
I dialoghi sono un mezzo favoloso per dare spessore a un personaggio. Oltre a questo si possono usare i dialoghi per arricchire le descrizioni, per spingere la storia in nuove direzioni, per accrescere la tensione o per smorzare il ritmo.
Discorso diretto e indiretto
Il discorso diretto è il riportare battuta per battuta quello che i personaggi si dicono:
«Ciao, come stai?» chiese Michele.
«Io sto bene» rispose Anna.
Quando si usa il narrato per riferire gli stessi concetti, è discorso indiretto:
Michele salutò Anna e le chiese come stava. Anna rispose che stava bene.
Il discorso diretto è mostrare. Il discorso indiretto è raccontare. Dato che la regola numero uno della narrativa recita: “mostrare, non raccontare!”, il discorso diretto è preferibile.
È preferibile perché è più preciso e concreto. “Michele salutò Anna” è vago, è generico, non consente al lettore di vedere o sentire. Quel saluto potrebbe essere uno qualunque di questi – e tanti altri:
«Ciao, bella!»
«Buongiorno, signorina Anna.»
«Lunga vita e prosperità.»
«Oh, tipa, sì tu, che ci hai da accendere?»
Ognuno dei quattro saluti aiuta a definire il personaggio di Michele e il suo rapporto con Anna.
La materia grigia del lettore è stimolata; nel suo cervello la scena si abbozza: anche se non scriviamo nient’altro è possibile che il lettore veda un Michele trasandato leggendo il quarto saluto e magari un Michele maggiordomo leggendo il secondo. Con “Michele salutò Anna” il lettore non vede niente.
Il discorso indiretto non funziona. È inchiostro sprecato e porta molto in fretta alla noia. Non è una scappatoia dal discorso diretto. Se io sono in difficoltà con le scene d’amore, ma la trama richiede che Michele confessi ad Anna che la ama alla follia, non posso scrivere: “Michele confessò ad Anna che l’amava”. Fa schifo. Devo impegnarmi, costruire il dialogo battuta per battuta; se non viene bene rifarlo, provare a leggere qualche romanzo rosa per avere ispirazione, ritentare e ritentare un’altra volta.
Se è vitale per la trama che Michele spieghi ad Anna come si atterra con un F-16 non posso scrivere: “Michele spiegò ad Anna come pilotare il caccia”. Fa schifo. Devo documentarmi e rendere il discorso diretto verosimile.
Il discorso indiretto può essere usato solo quando il discorso diretto risulterebbe ripetitivo o insignificante.
Esempio:
«Andrelli?» chiamò la maestra.
Un bambino alzò la mano. «Presente.»
«Bonzi?»
«Presente.»
«Carotoni?»
«Presente.»
La maestra continuò l’appello fino a Valvucci, assente.
“La maestra continuò l’appello [...]” è discorso indiretto. Ma è meglio così che non avere un elenco di trenta nomi con trenta “presente”.
O ancora: se sappiamo che Michele è il maggiordomo, dopo la prima volta che ha salutato Anna, le volte successive possiamo sì scrivere “salutò Anna”, perché il lettore sa di cosa stiamo parlando.
Altro esempio:
«Allora mi sono arrampicata sul muro. Ho usato le cesoie del contadino per tagliare il filo spinato. Ho aspettato che la guardia passasse e sono saltata a terra. Mi sono nascosta dietro il gabbiotto degli attrezzi. Ho forzato la serratura. Dentro ho trovato il fucile da cecchino e due caricatori. È stato facile ammazzare Don Calogero quando si è affacciato al balcone.»
Intanto era entrato in classe Michele. Anna spiegò anche a lui come superare il quinto livello di Hitman.
“Anna spiegò anche a lui [...]” è discorso indiretto, ma è preferibile che non ripetere le battute appena pronunciate.
I videogiochi di Hitman sono tra i miei preferiti, perché si possono garrottare le persone! Manca solo un mod che inserisca gli autori di fantasy italiani…
Però, qualche volta, le ripetizioni possono essere volute. Per esempio, supponiamo che Anna ogni volta che viene interrogata dal professore di matematica abbia una scusa per non presentare i compiti. “Li ha mangiati il gatto”, “Erano nella macchina dello zio che è finita nel fiume”, “Le macchie solari hanno sciolto l’inchiostro del quaderno”. Alla diciottesima scusa, si potrebbe scrivere: “Anna inventò l’ennesima scusa”. Oppure si può riportare la diciottesima scusa: ripetitivo, ma divertente.
Il discorso indiretto spesso è usato come forma di (auto)censura:
Il martello colpì il dito invece del chiodo. Anna imprecò.
Se non ci sono ragioni particolari – stiamo scrivendo un libro per bambini e vogliamo evitare le parolacce – è meglio trascrivere l’imprecazione:
Il martello colpì il dito invece del chiodo. «Cazzo che male!»
Se Anna invece non si lascia mai andare a espressioni volgari – può essere, non è di per sé inverosimile – allora non impreca neanche usando il discorso indiretto.
Si può impiegare il discorso indiretto per celare fatti al lettore:
«Non hai paura della polizia?» chiese Anna.
«È un piano perfetto. Non la vedremo neanche la polizia» rispose Michele. Quindi illustrò ad Anna i dettagli dell’operazione.
Anna sorrise. «Con la mia parte voglio comprarmi una villa ai Caraibi!»
Per non svelare in anticipo al lettore come si svolgerà l’assalto alla banca, si passa per un attimo al discorso indiretto. Non è grave, è una consapevole scelta che normalmente il lettore accetta di buon grado. Tuttavia con un po’ di sforzo si può evitare:
«Non hai paura della polizia?» chiese Anna.
«Se seguiremo alla lettera il piano del marsigliese non la vedremo neanche la polizia» rispose Michele.
Anna sorrise. «Con la mia parte voglio comprarmi una villa ai Caraibi!»
Se Anna conosce il piano del marsigliese e il lettore no, il risultato è lo stesso di prima, ma il Narratore non è dovuto intervenire. Un piccolo guadagno in verosimiglianza.
Punteggiatura nel discorso diretto
Appurato che nella maggioranza dei casi è necessario usare il discorso diretto, è utile ricapitolare quale sia la corretta punteggiatura. Non so perché, ma mi capita spessissimo di vedere manoscritti con dialoghi pieni di punteggiatura bizzarra e simboli strani. Non vale la pena fare gli originali: il lettore è abituato a un certo schema visivo, se lo si viola, si attira l’attenzione sui segni invece che sulla storia. Non è una buona idea.
Per delimitare il discorso diretto si usano o le virgolette alte (“) o le virgolette uncinate[1] (« ») o il trattino lungo (–). Bisogna usare lo stesso simbolo in tutto il romanzo o racconto. Inoltre basta un simbolo solo, non c’è bisogno di mettere un trattino dopo le virgolette, o due virgolette diverse di seguito.
Esempi:
“Oggi è una bella giornata.”
«Oggi è una bella giornata.»
– Oggi è una bella giornata.
La punteggiatura di solito è dentro le virgolette. Il trattino non va chiuso se non ci sono altre parole dopo la fine della battuta. Dopo le virgolette a inizio battuta e prima delle virgolette in chiusura di battuta non ci vuole lo spazio; ci vuole invece dopo il trattino in apertura e prima del trattino in chiusura.
Domanda & Risposta
Ma io non posso introdurre il dialogo con l’asterisco???
Sì che puoi farlo! Però i lettori continueranno a chiedersi: “Perché ci sono tutti questi asterischi?” e non presteranno attenzione alla storia.
Se si vogliono distinguere due tipi di dialogo, per esempio il parlato del protagonista e i pensieri del protagonista, si possono usare due simboli diversi: magari il trattino per i discorsi e le virgolette alte per i pensieri. Per i pensieri si può anche usare il corsivo, senza alcun simbolo di delimitazione.
«Oggi è una bella giornata» disse Michele. In verità fa schifo, pensò.
Se la battuta non è autonoma ma è introdotta da un verbo, ci sono varie alternative. Le più comuni sono le seguenti tre:
- Mettere uno spazio. «Oggi è una bella giornata» disse Michele.
- Mettere uno spazio e una virgola dentro la battuta. «Oggi è una bella giornata,» disse Michele.
- Mettere uno spazio e una virgola dopo la battuta. «Oggi è una bella giornata», disse Michele.
Non c’è un modo “giusto”: ognuno può scegliere quello che preferisce, l’importante è che si mantenga lo stesso stile nel corso dell’intero manoscritto.
Se la battuta termina con un punto di domanda o un punto esclamativo, di solito non si mette la virgola:
«Oggi è una bella giornata!» esclamò Michele.
Meglio le virgolette uncinate, quelle alte o il trattino? Anche qui è questione di gusti. Per curiosità ho preso dieci fantasy italiani pubblicati negli ultimi anni da editori diversi, questi sono gli stili:
Pan (Marsilio, 2008).
«Tre bussolotti, vedete» dice la Meravigliosa Wendy.
(Virgolette uncinate e spazio).
Gli Ultimi Incantesimi (Salani, 2008).
«Ora che lo so mi sento meglio» esplose Inskay.
(Virgolette uncinate e spazio).
La Ragazza Drago II (Mondadori, 2009).
«Per trovare te ho impiegato molti anni, lo sai» diceva a Sofia.
(Virgolette uncinate e spazio).
L’Eretico (Corbaccio, 2005).
«Il tenente Stark avrà il comando» riprese Ruesch.
(Virgolette uncinate e spazio).
Gli Eroi del Crepuscolo (Einaudi, 2008).
– È andato a farsi un bagno, – rispose, piano.
(Trattino e virgola dentro).
Il Signore del Canto (Delos Books, 2009).
– È quello che ho sentito – borbottò la ragazza.
(Trattino e spazio).
Wunderkind (Mondadori, 2009).
– Grazie – gracchiò il ragazzo.
(Trattino e spazio).
La Leggenda dei Cinque Ardenti (Armenia, 2007).
«Zitta. Siedi e mangia», la interruppe, senza neppure guardarla in faccia.
(Virgolette uncinate e virgola fuori).
Estasia 2 (Curcio, 2008).
“Non è del tutto vero ciò che dici” lo corresse il guerriero.
(Virgolette alte e spazio).
La Rocca dei Silenzi (Nord, 2005).
«Accomodati tra noi folli, dunque, Thal Dom Djèw», lo invitò Grèon en’Dhat.
(Virgolette uncinate e virgola fuori).
Le virgolette uncinate sono in maggioranza, ma c’è una bella varietà di stili. Addirittura Wunderkind e La Ragazza Drago II, pur essendo stati pubblicati lo stesso anno dalla stessa casa editrice, hanno stili diversi.
Copertina de La Ragazza Drago II. Non ci sperate, non lo recensirò
Se i simboli per delimitare i dialoghi possono essere scelti in base al gusto personale – pur nel rispetto delle convenzioni e dell’uniformità – la posizione dei dialogue tag ha un significato preciso. I dialogue tag sono quelle locuzioni usate per identificare chi parla e come parla; sono i “disse Michele”, “bofonchiò Anna”, “rispose allegramente Marco” e così via.
Questi tag possono essere messi in quattro posizioni.
Prima della battuta. È lo scolastico: due-punti-a-capo-aperte-virgolette. Esempio:
Michele disse:
«Oggi è una bella giornata.»
È pesante, appunto scolastico, può suonare addirittura biblico:
E Gesù disse:
«Beati quelli che sanno scrivere i dialoghi.»
L’enfasi che si pone sulla battuta è notevole. Non è il caso di usare questa posizione spesso.
Dopo la battuta.
«Oggi è una bella giornata» disse Michele.
Questa posizione è da usarsi solo se la battuta è breve, se il lettore riesce con gli occhi a cogliere subito il “Michele”. Infatti lo scopo primario dei dialogue tag è identificare chi parla, se la rivelazione avviene dopo dieci righe è finito lo scopo.
«Oggi è una bella giornata. Non come ieri però, ieri sì che c’era un bel sole, e non faceva neanche tanto caldo. Oggi invece è nuvoloso, e l’afa è fastidiosa. Dovrebbe alzarsi il vento, un bel vento a rinfrescare l’ambiente. Anche se spesso il vento mi fa venire il mal di testa» disse Michele.
Il passaggio sopra non funziona perché il lettore comincia a leggere, continua a leggere, e la sua comprensione è ostacolata dal fatto che a parlare potrebbe essere Michele come Carlo o Antonio – il lettore non sa quale personaggio deve immaginare con la bocca in movimento. Quando scopre chi è, è troppo tardi, il fastidio si è già fatto strada.
Perciò dialogue tag dopo la battuta, solo se la battuta è breve.
Nel mezzo della battuta.
«Oggi è una bella giornata» disse Michele. «Non come ieri però, ieri sì che c’era un bel sole, e non faceva neanche tanto caldo.»
Questa posizione va appunto bene quando la battuta è lunga, per identificare subito chi parla.
Si può anche usare questa posizione per introdurre una pausa:
«Sono stufo di vivere» disse Michele. «E sono stufo di mangiare pizza.»
È un ritmo più lento di:
«Sono stufo di vivere. E sono stufo di mangiare pizza» disse Michele.
Nessun tag. Può essere sottointeso chi parla.
Michele si alzò in punta di piedi e picchiò con le nocche il vetro della finestra. «Anna, sei sveglia?»
Il lettore non ha alcun problema a capire che ha parlato Michele. In generale, se a parlare è il soggetto della frase precedente, il lettore non ha difficoltà a fare l’associazione.
Il lettore non ha difficoltà anche nel caso le battute siano alternate tra due personaggi:
Michele si alzò in punta di piedi e picchiò con le nocche il vetro della finestra. «Anna, sei sveglia?»
«Che diavolo vuoi alle tre di notte?»
«Non stai guardando la TV?»
«No, stavo dormendo.»
«Sono arrivati gli extraterrestri!»
Questa soluzione di non usare alcun tag è un’ottima soluzione, essenziale ed elegante. Però si deve stare attenti a che sia chiaro chi parla:
Michele portò alla cassa dodici copie di Nihal nella Terra del Vento. La commessa lo fissò dritto negli occhi. «Mia sorella è una grande fan di Licia Troisi.»
Chi ha parlato? Michele o la commessa? L’ultimo soggetto è la commessa, però il punto di vista è quello di Michele. È una frase ambigua, e le frasi ambigue disturbano il lettore. Meglio aggiungere il tag:
Michele portò alla cassa dodici copie di Nihal nella Terra del Vento. La commessa lo fissò dritto negli occhi.
«Mia sorella è una grande fan di Licia Troisi» si giustificò Michele.
* * *
Dicevamo che il ruolo primario dei tag è identificare chi parla. E dicevamo che può essere una buona idea eliminare del tutto i tag. Alcuni furboni, per coniugare le due cose, inseriscono nelle battute i nomi dei personaggi.
«Anna, la devi finire di infastidirmi.»
«Non essere così permaloso, Michele.»
«Anna, sono serio.»
«Michele, anch’io.»
Tanto per cambiare, dialoghi del genere fanno pena. Infatti è innaturale continuare a chiamarsi per nome in quella maniera. È raro citare esplicitamente il nome della persona con cui stiamo parlando. Quando succede, c’è una ragione precisa:
«Carotoni, vieni alla lavagna» disse la maestra.
La maestra deve per forza chiamare per nome, avendo di fronte trenta alunni.
Oppure si può inserire il nome poche volte, in battute chiave per dare maggior enfasi:
«Ho deciso di partire per Marte.»
«E io ho deciso di comprarmi un vestito nuovo.»
«Anna, non sto scherzando.»
In altri termini: l’inserire i nomi nelle battute ha uno scopo, e questo scopo non è quello di facilitare la vita allo scrittore che cerca di eliminare i dialogue tag.
L’altro ruolo dei tag è definire come un personaggio parla. Qui più si elimina, meglio è.
Il come deve essere implicito nelle battute o nell’azione.
«Ridammi lo stereo» disse rabbiosamente Michele.
Lo scrittore non deve raccontare che Michele è arrabbiato, lo deve mostrare.
«Ridammi lo stereo, oppure ti spacco quella cazzo di faccia da scimmia che ti ritrovi» disse Michele.
Ci sono dubbi sul fatto che Michele stia parlando rabbiosamente?
Oppure, senza tag, mantenendo la battuta originaria:
Michele puntò la pistola alla tempia di Carlo. Tolse la sicura. «Ridammi lo stereo.»
Ci sono dubbi sul fatto che Michele sia incazzato?
È sempre il solito discorso: il mostrare è più efficace del raccontare. Mettere un aggettivo o un avverbio è una scelta pigra. Lo scrittore vuole Michele incazzato ma neanche lui sa in che modo si manifesta l’incazzatura. E il lettore dovrebbe fare il lavoro al posto suo. Manco per niente! Lo scrittore deve vincere la pigrizia, togliere l’avverbio, e mostrare la rabbia di Michele.
Qualche volta si compie l’errore di mostrare e raccontare.
Michele accostò la bocca all’orecchio di Carlo. «Ridammi lo stereo» sussurrò.
Visto che gli parla all’orecchio, mi sembra scontato che sussurri, dunque si può togliere.
Anna arretrò fino all’angolo opposto della stanza. Il fuoco divorava la carta da parati, il letto era in fiamme, le travi del soffitto ardevano. «Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!» gridò.
Non credo che Anna chieda aiuto sussurrando…
Un’altra pratica fastidiosa è l’abuso del gerundio insieme ai dialogue tag.
«Oggi sei splendida» disse Michele, sorridendo.
«Qui dentro non si respira» disse Anna, tossendo.
O sorridi o tossisci o parli. Meglio:
Michele sorrise. «Oggi sei splendida.»
«Qui dentro», Anna tossì, «non si respira.»
Anche quando le azioni non si contraddicono, i gerundi sono meh, poco affilati.
L’ispettore Callahan puntò la pistola. «Coraggio, fatti ammazzare.»
È più netto e preciso di:
«Coraggio, fatti ammazzare» disse l’ispettore Callahan, puntando la pistola.
Infine, non c’è niente di male a usare “disse”. Non si vince un premio se si scovano tutti i sinonimi di “dire”. È meglio una ripetizione piuttosto che un termine balordo:
«Sulla i manca un puntino» arzigogolò Michele.
Sigh.
Non sono solo i dilettanti a cadere in questo tranello, basta leggere questo brano da una recensione del New York Times:
[...] Mr. Ludlum has other peculiarities. For example, he hates the “he said” locution and avoids it as much as possible. Characters in “The Bourne Ultimatum” seldom “say” anything. Instead, they cry, interject, interrupt, muse, state, counter, conclude, mumble, whisper (Mr. Ludlum is great on whispers), intone, roar, exclaim, fume, explode, mutter. There is one especially unforgettable tautology: ” ‘I repeat,’ repeated Alex.”
The book may sell in the billions, but it’s still junk.
[...] il signor Ludlum ha altre particolarità. Per esempio, odia la parola “disse” e la evita il più possibile. I personaggi in “The Bourne Ultimatum” raramente “dicono” qualcosa. Invece piangono, interferiscono, interrompono, rimuginano, dichiarano, controbattono, concludono, bofonchiano, sussurrano (il signor Ludlum è un appassionato di sussurri), intonano, ruggiscono, esclamano, sbuffano, esplodono, brontolano. C’è una tautologia particolarmente indimenticabile: ” ‘Ripeto,’ ripeté Alex.”
Il libro potrà vendere miliardi di copie, ma rimane spazzatura.
Chissà quando un giornale delle nostre parti avrà il coraggio di definire “spazzatura” un romanzo italiano che vende molto bene…
Copertina dell’edizione inglese di The Bourne Ultimatum
Domanda & Risposta
Ma Augusto Pepponi, che è un Grande Scrittore, usa un sacco di dialogue tag pieni di avverbi e aggettivi. Gamberetta, visto che ti sbagli???
E qui lascio la parola a Dean R. Koontz:
You can find published novels in which authors use one flashy dialogue tag after another. Don’t send me a list of those authors, please. I didn’t tell you that the frequent use of such tags would prevent you from being published. I only said that they indicate that the author is an amateur or that he lacks the sensitivity to appreciate the musical qualities of language. Books full of inept dialogue tags get published all the time. Of course they do. Not all published writers are good writers.
Si possono trovare romanzi pubblicati nei quali gli autori usano dialogue tag appariscenti uno dietro l’altro. Per piacere, non mandatemi una lista di questi autori. Non ho mai detto che l’uso frequente dei tag in quella maniera impedisca di essere pubblicati. Ho solo detto che un tale uso indica che l’autore è un dilettante che manca della sensibilità per apprezzare le qualità musicali del linguaggio. Vengono pubblicati di continuo libri pieni zeppi di dialogue tag orribili. Ovviamente succede. Non tutti gli scrittori pubblicati sono bravi scrittori.
* * *
Abbiamo visto come si delimitano e si introducono i discorsi diretti. Bisogna prestare attenzione alla punteggiatura anche nelle battute.
La virgola indica una pausa breve, ed è accettabile. Il punto indica una pausa più lunga, ed è accettabile. I puntini di sospensione indicano una pausa molto lunga. Così lunga che normalmente ha bisogno di essere mostrata.
«Ma io… io, ecco, non volevo… non volevo…» disse Anna
Non è un granché. Meglio riempire le pause:
«Ma io», Anna abbassò lo sguardo. «Io, ecco, non volevo.» Le guance le divennero rosse. «Non volevo.» Rimase in silenzio, ad aspettare la decisione della maestra.
Inoltre si deve ragionare bene se le pause sono volute o sono solo frutto di indecisione dello scrittore. Siamo sicuri che il personaggio è davvero così incerto? O magari siamo noi che non sappiamo bene quali parole mettergli in bocca?
Se il personaggio è davvero insicuro, mostrare l’insicurezza è molto più efficace di infarcire il dialogo con puntini di sospensione.
I punti esclamativi vanno usati con parsimonia e uno per volta è più che sufficiente. Come sempre è il mostrare che funziona, non il raccontare. Se io scrivo:
«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»
E se scrivo:
«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!!!»
Ho scritto due frasi con lo stesso significato, preciso identico. I punti esclamativi in più non portano maggior enfasi. Se voglio maggior enfasi devo mostrare:
Anna non riusciva a star ferma. Saltellava qui e là per la stanza. Fece una capriola e si rimise in piedi barcollando. Stappò lo spumante e ne bevve un sorso. «Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»
Il punto di domanda seguito dal punto esclamativo (?!) dev’essere usato solo in situazioni eccezionali. Di quelle che non capitano quasi mai.
Se si vuole dare enfasi alle singole parole è meglio usare il corsivo piuttosto del maiuscolo. Meglio:
«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»
di:
«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il MIO romanzo!»
Robe in stile fumetto, del tipo:
Darth Vader si prese la testa tra le mani. «NOOOoooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!!»
non fanno una bella impressione, a meno che consapevolmente non si stia cercando di imitare uno stile del genere. E anche in quel caso non vuol dire che sia una buona idea.
* * *
Il famoso scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998, usa uno stile particolare per i dialoghi. Ecco un estratto dal suo romanzo Le Intermittenze della Morte (2005):
Come responsabile del dicastero della salute, assicuro a tutti coloro che mi ascoltano che non c’è alcun motivo di allarme, Se ho ben capito quanto ho appena udito, osservò un giornalista in un tono che non voleva sembrare troppo ironico, secondo lei, signor ministro, non è allarmante il fatto che nessuno sta morendo, Esatto, anche se con altre parole, è proprio ciò che ho detto, Signor ministro, mi permetta di ricordarle che ancora ieri c’erano persone che morivano e a nessuno sarebbe passato per la testa che questo fosse allarmante, È naturale, la consuetudine è morire, e morire diviene allarmante solo quando le morti si moltiplicano, una guerra, un’epidemia, per esempio [...]
In pratica non ci sono né virgolette, né trattini, né a capo; l’unica indicazione che inizia una battuta è data dalla maiuscola che segue la virgola. Inoltre Saramago non usa né punti di domanda, né punti esclamativi.
Copertina de Le Intermittenze della Morte
Saramago ha spiegato che adotta questo stile non perché sì, ma perché gli sembra possa essere più verosimile. Quando le persone parlano non ci sono virgolette, né ritorni a capo, né punti esclamativi e di domanda. Il tentativo è quello di imitare il flusso della conversazione come si dipana nella realtà. È sacrificata la consuetudine in cambio di maggiore verosimiglianza. Una scelta consapevole.
Si possono stravolgere le regole se si ha ben presente cosa si sta facendo e perché. Poi è tutto da dimostrare che i vantaggi superino i problemi. Io quel romanzo di Saramago ho provato a leggerlo: ho fatto parecchia fatica a seguire i dialoghi.
Verosimiglianza
Seguendo i consigli della sezione precedente, si possono scrivere dialoghi corretti dal punto di vista formale. Non è sufficiente. Un buon dialogo è prima di tutto verosimile.
Il lettore deve credere che le parole che mettiamo in bocca ai personaggi nascano spontaneamente dai personaggi stessi. Il lettore deve avere l’impressione che i personaggi siano vivi e che non siano marionette.
L’autore ha una sola voce, i personaggi ne devono avere tante quanti sono. Il profugo bosniaco non può parlare come una fan tredicenne di Twilight che a sua volta non si esprime come un generale dell’esercito. Se vogliamo mettere in bocca a un ufficiale veterano le parole: “Edward è proprio uno gnokko!”, bisogna inserire una valida giustificazione.
I personaggi devono esprimersi in maniera consistente: se la fan tredicenne di Twilight parla come una cerebrolesa a pagina 5, deve farlo anche a pagina 100, a meno che nel frattempo l’autore non abbia mostrato il cambiamento nella personalità della ragazza.
Non è un invito ad adagiarsi in uno stereotipo: il barbone può avere tre lauree e il generale avere una passione morbosa per i vampiri, l’importante è che questi dettagli fondamentali siano mostrati.
Se il romanzo è ambientato in un mondo secondario c’è maggiore libertà, ma fino a un certo punto. Il contadino non può esprimersi alla stessa maniera del mago centenario che ha passato l’intera vita a studiare. Poi nessuno vieta di progettare un mondo in cui anche i contadini studiano i misteri della magia da mattino a sera – il lavoro manuale lo fanno gli gnomi da giardino a orologeria – basta essere consapevoli del problema. E rimane il vincolo della consistenza: è probabile che possa far parlare un drago come mi pare, ma se è una bestia che si esprime a ringhi a pagina 18, sarà ancora una bestia ringhiosa a pagina 97, a meno di non mostrare il mutamento.
I personaggi, in determinati ambienti (per esempio le forze armate), si esprimo in gergo. L’autore deve documentarsi su quale siano le convenzioni dell’ambiente in questione e far parlare i personaggi di conseguenza. Il ragionamento: “Chi se ne sbatte, tanto nessuno dei miei lettori è mai stato sommergibilista, mi invento quello che voglio” è sbagliato, perché:
- Al lettore basta il sospetto per perdere fiducia. Forse non sarà mai stato in Marina, ma lo stesso gli sembrerà molto strano che il Capitano del sommergibile si esprime proprio come il vicino di casa, di mestiere falegname. Comincerà a prestare maggiore attenzione a questi dettagli, e quando capiterà un particolare che il lettore conosce bene e l’autore no, il lettore avrà la conferma che l’autore è un ciarlatano. Dopo di che chiude il libro, si collega a Internet e comincia a parlar male dell’autore su tutti i forum che gli capitano a tiro.
- Lo si trova il lettore ex sommergibilista. Lui non ha bisogno di ulteriori conferme: butta il libro e si fionda su Internet!
- È una questione di rispetto per il prossimo.
Aprite il frigorifero e dovete chiudervi il naso per la puzza. La maionese è acida, la carne è nera, il latte scaduto, le verdure marce, il pesce è ridotto a una poltiglia. Pensate: “Be’ chi se ne sbatte, tanto stasera ho ospiti a cena”?
Io non credo proprio. Quando ci sono ospiti a cena magari si prepara un pasto più gustoso del solito. I lettori sono gli ospiti a cena: bisogna dar loro il meglio, non gli avanzi.
Una giusta preoccupazione è quella che il gergo possa rendere difficile la lettura. È vero, però con un po’ di furbizia lo scrittore può illustrare il gergo in maniera indolore. Per esempio i romanzi di guerra di Tom Clancy sono pieni di vampiri. I personaggi gridano disperati che i vampiri stanno per colpire la portaerei. Al che il lettore può essere spiazzato, può immaginarsi torme di ragazzotti sbrilluccicosi e con i denti appuntiti che si stanno avvicinando in canotto.
Ma se a questo punto mostro le scie di un nugolo di missili diretti contro la portaerei, nessuno avrà problemi a capire che “vampiro” è un termine gergale per “missile anti-nave”. È rispettata sia la verosimiglianza sia la comprensione del lettore.
Disguido semantico
Attenzione: il collegamento vampiro-missile deve essere implicito. Una cosa del tipo:
Il guardiamarina Michele osservò le scie lasciate dai vampiri. I missili anti-nave, che noi in gergo chiamiamo vampiri, sono un grosso rischio per la portaerei, si disse.
è un’atrocità. Pensieri e dialoghi non devono essere artefatti per informare il lettore. Ma su questo tornerò più avanti.
* * *
Un punto cruciale è bilanciare la brillantezza con la verosimiglianza. Quando la gente parla nella vita reale, spreca una quantità di parole impressionante. Il novanta percento dei discorsi che conduciamo sono chiacchiere inutili, banalità, o comunicazioni di servizio: “scusa non ti ho sentito pensavo ad altro oh squilla il telefono uh hai comprato la marmellata?” A riportare sulla carta discorsi del genere si otterrebbe massima verosimiglianza, ma nessuno avrebbe voglia di leggere un romanzo pieno di dialoghi condotti in questa maniera.
I personaggi in un romanzo devono esprimersi in maniera interessante. Catturare l’attenzione del lettore. Coinvolgerlo. Problema: un personaggio che dice sempre cose interessanti non è verosimile. I pareri a proposito sono discordi. James N. Frey in How to Write a Damn Good Novel è per la brillantezza; invita gli autori a meditare ogni battuta perché sia sempre intrigante, arguta o spiritosa. Gloria Kempton in Dialogue invece invita al massimo della spontaneità; non bisogna mai cercare apposta la battuta intrigante, arguta o spiritosa.
Entrambe le strade sono praticabili, ma entrambe sono difficili da seguire: ci vuole notevole talento sia per scrivere dialoghi brillanti, sia per scrivere dialoghi sempre verosimili ma che non siano noiosi e banali. Se proprio dovessi scegliere, in linea teorica propenderei più per le tesi della Kempton, anche se personalmente mi diverto molto di più a cercare di scrivere dialoghi brillanti piuttosto che dialoghi assolutamente verosimili.
Nelle light novel di Haruhi (ne ho parlato qui), Kyon, protagonista e narratore, non si esprime come un ragazzo. Kyon è cinico e sarcastico, non suona quasi mai come un sedicenne. Eppure i dialoghi funzionano benissimo: la brillantezza delle battute mette in ombra la scarsa verosimiglianza.
Nella quarta light novel, The Disappearance of Suzumiya Haruhi, la storia diviene drammatica e Kyon non può più esprimersi con il consueto, ironico distacco. I dialoghi sono meno vivaci, ma più verosimili. Forse è anche per questo che The Disappearance è più emozionante dei romanzi precedenti.
Una delle prime immagini del film tratto da The Disappearance of Suzumiya Haruhi, in uscita nella primavera del 2010
Riporto i due esempi di Frey sulla questione verosimiglianza vs. brillantezza, traducendo e adattando direttamente. Ognuno tragga le sue conclusioni.
Giovanni deve invitare Maria a uscire con lui per il prom, il ballo scolastico di fine anno.
Dialogo verosimile ma scialbo:
«Ciao» disse Giovanni a Maria.
Maria sollevò gli occhi dal libro che stava leggendo. «Ciao.»
Giovanni spostò il peso da un piede all’altro. Era convinto che tutti nella caffetteria della scuola lo stessero osservando. «Che fai?» chiese.
«Leggo.»
«Oh. Cosa leggi?»
«Moby Dick.»
«È bello?»
«È solo una storia di pescatori.»
Giovani si sedette. Si passò un dito nel colletto per asciugare il sudore che gli scendeva lungo il collo.
«Ah, avrei una cosa da chiederti.»
«Dimmi.»
«Er, vai con qualcuno al ballo?»
«Non vado al ballo.»
«Tutti vanno al ballo. Non ti piacerebbe andarci con me?»
«Uhm, ci penso, okay?»
«Non pensarci, vieni! Mi farò prestare la macchina dal mio vecchio. E avrò un bel po’ di soldi.»
«Mi sembra il minimo.»
«Potremmo cenare in pizzeria, al Benni.»
«Be’, allora okay.»
Dialogo brillante:
«Devo sedermi qui, è il mio lavoro» disse Giovanni.
«Oh?» disse Maria, alzano lo sguardo dal libro che stava leggendo.
«Già. La scuola mi paga cinquanta euro l’ora per studiare in caffetteria e dare il buon esempio.»
«Siediti dove ti pare, siamo in un paese libero.»
Giovanni le sorrise. «Conosco il tuo futuro.»
«Come fai a conoscere il mio futuro?»
«Leggo i Tarocchi.»
«Non credo ai Tarocchi, in famiglia siamo molto religiosi.»
Giovanni prese dalla tasca il mazzo di carte e lo mischiò. Girò la prima carta. «Otto di sera. Una 500 verde è sotto casa tua.»
«Davvero?»
«La sta guidando un ragazzo incredibilmente bello. Indossa una giacca da sera bianca.»
«Sul serio?»
«Lui ti porterà al ballo, proprio nella palestra della nostra scuola.»
«Ma va? E lo dicono le carte, vero?»
«Dicono questo e altro.» Giovanni mise via i Tarocchi. «Non voglio rovinarti tutte le sorprese.»
«Mi stai chiedendo un appuntamento?»
«Verrai al ballo con me?»
«Le carte dicono tutto, giusto? Allora dovresti già sapere la risposta.»
Il primo dialogo è insulso. Può essere verosimile, ma non suscita la minima curiosità nel lettore. Il secondo dialogo è un po’ più movimentato, più interessante. Però non è verosimile neanche per sbaglio. Il ragazzo che chiede un appuntamento con la manfrina dei Tarocchi? In quale film l’hai visto?
* * *
Dove si può essere verosimili senza compromessi è nella costruzione del contesto nel quale il dialogo si svolge. Un dialogo non si svolge nel vuoto, con due teste separate dal corpo che parlano. I personaggi si siedono o si alzano, vanno alla finestra, tirano un pugno alla porta, danno un calcio alla sedia, rovesciano la scacchiera, si mangiano le unghie e si mordono il labbro.
Un dialogo deve svolgersi in un contesto dinamico. Un dialogo statico annoia, perché il cervello del lettore non può vivere alcuna esperienza concreta. Ci sono solo chiacchiere; non ci sono capriole, coltellate, sberle. Per non tediare il lettore e per essere verosimili è necessario far agire i personaggi anche mentre parlano.
Come spiegato nell’articolo sulle descrizioni, la realtà non è mai una fotografia, non è mai fissa. Due persone sono al ristorante, si sono incontrate proprio perché hanno molto da dirsi: lo stesso mentre discutono mangiano e bevono, sono interrotte dal cameriere, sono distratte dal bambino che piange a due tavoli di distanza; fuori scatta l’antifurto di un’auto, inizia a piovere e la pioggia batte sui vetri; dalla cucina escono gli odori più diversi, alla cassa scoppia una lite perché qualcuno non ha apprezzato la birra annacquata. Il mondo è in continuo mutamento; magari non ce ne accorgiamo coscientemente, ma se all’improvviso tutto si ferma, subito sembra che ci sia qualcosa di sbagliato. Lo stesso accade nella narrativa: se il dialogo procede su uno sfondo immobile, con personaggi immobili, il lettore si infastidisce. Forse, se non è un lettore particolarmente attento, non saprà spiegare il perché di tale fastidio, ma il fastidio rimane.
Si pensi a situazioni ancora più formali, per esempio un interrogatorio (che sia da parte della polizia o da parte del professore di storia durante l’esame di maturità). Non ci sono solo domande e risposte. La vittima si tormenta le mani, si asciuga la fronte con un fazzoletto, muove i piedi, beve un caffè o un bicchier d’acqua, fuma una sigaretta, sorride a sproposito; l’aguzzino punta la lampada contro l’interrogato, si alza per incombere sul poveretto, fa gesti spazientiti di fronte alle risposte balbettanti e così via.
Si può fermare il mondo. Per poche battute. Il contesto può sfumare davanti al dialogo serrato dei due personaggi, ma è questione di istanti, poi il tempo deve tornare a scorrere. Altrimenti il lettore intuisce che qualcosa non funziona, e quando qualcosa non funziona in un romanzo, la prima reazione è chiudere il libro e mettersi a giocare con i videogiochi (ché si diventa più intelligenti).
Attenzione però a non far prevalere il contesto. Quando succede nella realtà, il dialogo si arena con frasi del tipo: “guardami quando ti parlo”, “ne parliamo domani”, “non parliamone in mezzo alla strada”. Se un personaggio si distrae di continuo, l’interlocutore si stufa in fretta della conversazione.
Attenzione anche alle elucubrazioni del personaggio punto di vista: può essere che il dialogo susciti nel personaggio mille pensieri, ma se vengono tutti riportati, il lettore avrà l’impressione che tra una battuta e l’altra passino le mezzore, e questo è inverosimile.
Già che ci sono: come sempre funzionano solo i pensieri concreti, che stimolino i cinque sensi del lettore. Anna e Michele discutono all’entrata del cimitero: Michele non deve rimuginare sulla morte in astratto, deve ricordare quando ha seppellito con le sue mani il corpicino del suo coniglietto.
* * *
La vita reale è piena di chiacchiere, nella narrativa un dialogo ha senso solo se è significativo per la trama e mette di fronte personaggi con obiettivi diversi. Se queste condizioni non sono rispettate, è meglio tagliare il dialogo o al massimo ricorrere al discorso indiretto.
Ci deve essere tensione tra i personaggi, ognuno deve avere desiderio di prevalere sull’altro. Ciò non significa che ogni dialogo debba finire in rissa (non che ci sia niente di male nella violenza – la scena dove la discussione tra cowboy degenera e poi sfasciano il saloon può non piacere, ma di solito non è noiosa), significa che in ogni dialogo ci deve essere un conflitto.
Giovanni vuole che Maria lo accompagni al ballo. Maria vuole continuare a leggere Moby Dick. Non finirà a botte, ma c’è sufficiente distanza tra gli obiettivi dei personaggi perché il dialogo possa interessare il lettore.
Se Giovanni vuole invitare Maria e Maria vuole invitare Giovanni, che dialogo può esserci? È come leggere i commenti degli amyketti al tale o tal altro romanzo: “bellissimo”, “capolavoro”, “mai letto niente di simile”, “sublime!” Dov’è il dialogo? Non c’è. Il dialogo nasce quando qualcuno commenta: “È cacca”. A questo punto può nascere il dialogo, perché ci sono due personaggi con obiettivi diversi: il fan che vuole difendere l’autore-amyketto e il detrattore che vuole difendere la buona narrativa.
«Esco» disse Anna.
«Torna per le undici, va bene?» disse la mamma.
«D’accordo.»
«Ok.»
«Ciao.»
«Ciao.»
E il lettore pensa: “Buon per loro, a me che frega?” Non c’è coinvolgimento.
«Esco» disse Anna.
«Torna per le undici, va bene?» disse la mamma.
«Torno quando cazzo mi pare.»
Il lettore è meno indifferente. Qualcuno penserà che Anna è una maleducata e che la mamma non dovrebbe più farla uscire di casa per un mese; altri saranno compiaciuti dalla reazione di Anna, così la mamma impara a voler imporre regole idiote. In entrambi i lettori dovrebbe nascere un minimo di curiosità rispetto a quello che farà adesso la mamma.
Giovanni vuole uscire con Maria, ma Maria vuole uscire con Marco; Anna vuole tornare alle sei del mattino, ma la mamma vuole che rientri per le undici; Michele vuole ordinare la pizza con le acciughe, ma Nicola preferisce quella con i peperoni; undici giurati sono pronti a condannare un ragazzo per omicidio, ma il dodicesimo non è d’accordo. Non importa se il dialogo è su questioni serie o su stupidate: ci deve essere tensione tra i personaggi, ci deve essere un conflitto.
* * *
Tre difetti comuni che intaccano la verosimiglianza:
Personaggi che hanno tutti la stessa voce. Ogni personaggio ha cultura diversa, ha vissuto esperienze diverse, viene da una famiglia diversa, ha obiettivi diversi: deve esprimersi in modo univoco. Non importa se le fan di Twilight sembrano tutte una massa di cerebrolese e dicono tutte le stesse cose con lo stesso linguaggio balordo: se i miei personaggi sono un gruppo di ragazzine fanatiche della Meyer, ognuna deve avere una voce distinta. Il lettore deve subito capire che ha parlato Simona e ha risposto Nicoletta; alle battute deve associare i nomi, non fan #1 e fan #2.
Fan di Twilight: Nicoletta è quella con la faccia intelligente
Per ottenere questo risultato, l’autore deve conoscere molto bene i propri personaggi. Deve sapere che Simona non parla mai di cioccolato da quando il fratellino è morto soffocato mentre mangiava un gianduiotto; deve sapere che Nicoletta in realtà non ha mai letto Twilight e frequenta le altre solo per non sentirsi sola – ogni tanto nei dialoghi la sua ignoranza emerge; deve sapere che Monica è convinta di avere sempre ragione, perciò non usa mai il congiuntivo o espressioni del tipo: “credo”, “penso”, “secondo me”.
Una scorciatoia è quella di creare tic linguistici specifici per i singoli personaggi, qualcosa che balzi subito all’occhio.
«Devi imparare le vie della Forza, giovane Jedi.»
A parlare può essere stato chiunque, ma:
«Le vie della Forza imparare devi, giovane Jedi.»
è una battuta che solo il maestro Yoda può pronunciare.
Attenzione: non è una scorciatoia facile da seguire, ci vuole poco per scadere nel ridicolo o nell’artefatto.
Personaggi che parlano al lettore invece di parlare tra di loro. Un errore classico: l’autore vuole informare il lettore su particolari che ritiene necessari per la storia e mette queste informazioni in bocca ai personaggi, che sia verosimile o no. È quello che i manuali inglesi chiamano: “As you know, Bob…” Sono quei dialoghi con battute così:
«Come lei sa benissimo, professor Spiegoni, il problema della tassellazione non può essere risolto con un algoritmo di complessità lineare.»
Ma se lo Spiegoni ‘sta cosa la sa già, cosa gliela dici a fare?
Anna si soffiò sulle mani per scaldarle. Il respiro le si condensava davanti alla bocca. «Oggi fa un freddo cane» disse a Michele.
«Sì, oggi fa molto freddo. È colpa dello strato di fuliggine che perennemente copre il cielo a causa della guerra nucleare di tre anni fa iniziata dopo l’affondamento accidentale della portaerei americana Enterprise da parte dei cinesi al largo delle coste della nord corea.»
Sembra un pochino strano che Anna non sappia che c’è stata una guerra atomica, e sembra altrettanto strano che Michele si metta di punto in bianco a elencarne le cause. È ovviamente un dialogo a beneficio del lettore e non dei personaggi: inverosimile in maniera dolorosa, è da evitare come la peste.
Attenzione: non si può risolvere il problema tramutando le battute in pensieri, rimane brutto uguale:
Anna si soffiò sulle mani per scaldarle. Il respiro le si condensava davanti alla bocca. «Oggi fa un freddo cane» disse a Michele.
«Sì, fa proprio freddo.» Già, che freddo oggi, pensò. È colpa dello strato di fuliggine che perennemente copre il cielo a causa della guerra nucleare di tre anni fa iniziata dopo l’affondamento accidentale della portaerei americana Enterprise da parte dei cinesi al largo delle coste della nord corea.
Domanda & Risposta
Ma io devo dire che c’è stata la guerra atomica, vero???
No. Tu devi mostrare i palazzi distrutti, devi mostrare il cielo sempre coperto, devi mostrare la gente che vive nei rifugi sotto terra, devi mostrare i mutanti nati dalle radiazioni: il lettore capirà da solo che c’è stata la guerra atomica.
Personaggi che parlano con la voce dell’autore. Sono quei personaggi che all’improvviso, senza apparente ragione, cominciano a pontificare sulle virtù del pacifismo, sul pericolo del riscaldamento globale, sul ruolo della donna nella società moderna o su quanto sia sporca la politica. Anche in questo caso il dialogo risultante rischia di essere inverosimile in maniera dolorosa.
Nel 2012 la razza umana come noi la intendiamo non esisterà più, a causa dei fotoni[2]. Duecento anni dopo, una spedizione aliena proveniente dal pianeta Nibiru sbarca in Italia. Gli alieni frugano tra le rovine. Trovano giornali e registrazioni risalenti al 2009. Commentano tra loro su quanto i giornalisti italiani dell’epoca fossero poco professionali e corrotti.
Tale dialogo tra gli alieni dicesi porcheria. Non è l’uso del fantastico come specchio deformante per fare affermazioni importanti sulla nostra realtà sociale bla bla bla, è fuffa. Se l’autore è interessato all’argomento, scriva un thriller con i giornalisti corrotti – meglio ancora un saggio, ma lasci stare i poveri alieni. Grazie.
Siamo così arrabbiati perché gli Americani non si ritirano dall’Iraq e i Giapponesi massacrano i delfini. Certo, è del tutto verosimile per noi alieni che abitiamo dall’altra parte della Galassia avere queste preoccupazioni. Infatti ne parliamo di continuo…
Un errore analogo è quello di avere tutti personaggi politicamente corretti. L’autore è cosi scollato dalla realtà che il dialogo perde verosimiglianza.
Michele si infilò il costume del Ku Klux Klan. «Sono pronto.»
«Prendiamo il tram?» chiese Anna.
«No, non mi piace usare i mezzi pubblici, perché non gradisco la presenza degli extracomunitari.»
Michele, membro del KKK, si esprime così? Secondo me no, secondo me il dialogo si svolge come segue:
Michele si infilò il costume del Ku Klux Klan. «Sono pronto.»
«Prendiamo il tram?» chiese Anna.
«No, non mi piace usare i mezzi pubblici, sono sempre pieni di negri che puzzano di merda.»
Il timore dell’autore è che se inserisce un personaggio apertamente razzista, il lettore potrebbe pensare che anche lui autore è un razzista. Lo scrittore ha paura di essere giudicato come persona in base a quello che i suoi personaggi fanno e dicono.
È un timore infondato? Per niente. Sarete giudicati in base ai vostri personaggi. Basta fregarsene.
There is a technical term for someone who confuses the opinions of a character in a book with those of the author. That term is idiot.
(attribuita a Robert A. Heinlein).
C’è un termine tecnico per chi confonde le opinioni di un personaggio in un libro con quelle dell’autore. Il termine è idiota.
(attribuita a Robert A. Heinlein).[3]
Bisogna rimanere fedeli alla storia e ai personaggi, e chi se ne importa se questo ci mette in “cattiva luce” con gli idioti.
Dialogo obliquo
Cynthia Whitcomb distingue tre tipi di collegamento che possono mettere in relazione due battute consecutive.
Un collegamento diretto:
«Che ore sono?» chiese Michele.
«Le cinque e un quarto» rispose Anna.
Un collegamento obliquo o indiretto:
«Che ore sono?» chiese Michele.
«Dovresti riaccompagnarmi a casa» rispose Anna.
Oppure una disconnessione:
«Che ore sono?» chiese Michele.
«Guarda, sei proprio un cretino» rispose Anna.
Più la connessione è labile, più la scena si carica di tensione. Il collegamento diretto esaurisce la suspense, il dialogo perde la sua energia: “Che ore sono?” “Le tre” e il lettore pensa, “E allora? Chi se ne sbatte!”
Tuttavia, più un dialogo è sconnesso, più rischia di suonare inverosimile. Se io vado a chiedere l’ora a cento persone, amiche o sconosciute, dubito che anche una sola mi darà della cretina. Il compito dello scrittore diviene allora progettare la storia in modo che un dialogo sconnesso risulti verosimile. Magari chiedo l’ora a Licia Troisi!
Se scrivere dialoghi sconnessi richiede molta pianificazione e non sempre è fattibile, il secondo livello, il collegamento indiretto, richiede solo un minimo di attenzione e spesso è più verosimile del collegamento diretto. Meglio:
«Ordino la costata?» chiese Michele.
«Sono vegetariana» rispose Anna.
di:
«Ordino la costata?» chiese Michele.
«No» rispose Anna.
«Perché?»
«Non mangio mai la carne.»
«Come mai?»
«Sono vegetariana.»
Tre usi per un dialogo
Dialoghi che accelerano il ritmo. In parte avviene per la natura tipografica dei dialoghi stessi. I paragrafi in un dialogo sono in media più corti rispetto ai paragrafi durante la narrazione. Il lettore termina di leggere le pagine più in fretta, e ha la sensazione di procedere nella storia con più velocità.
In parte è dovuto al fatto che nelle descrizioni spesso non c’è conflitto e il lettore è meno coinvolto. Il mare liscio come l’olio. Il sole alto in cielo. I gabbiani che volano bassi. Le nuvole pigre. L’unica nave che procede lenta all’orizzonte. La gente che cammina con calma, si asciuga il sudore sulla fronte, si mette a chiacchierare agli angoli delle strade. Anna osserva tutto ciò dalla finestra dell’albergo. Come ammira in lontananza le montagne, i boschi verdi, i cucuzzoli bianchi, ecc. ecc. zzz. Poi Anna si gira e dice a Michele che aspetta un bambino. Non da lui. E il padre è un vampiro.
I dialoghi danno uno strappo alla storia, imprimono maggior spinta rispetto alle descrizioni o alle elucubrazioni solitarie del personaggio punto di vista.
Dialoghi che rallentano il ritmo. Se si passa da una (violenta) scena d’azione a un dialogo, la sensazione è quella di un rallentamento. Questo perché, pur essendo un buon dialogo dinamico, non sarà comunque così movimentato come una scena d’azione. Per quanto sia vivace il dialogo tra i guerrieri nell’accampamento dopo la battaglia, non può essere più burrascoso della battaglia stessa.
L’elfo e il nano che bisticciano su chi abbia ucciso più orchi è un conflitto, e può reggere un dialogo, ma non c’è la stessa adrenalina di quando elfo e nano gli orchi li ammazzavano sul serio.
Ho ucciso più orchetti di te, gné gné gné
Dialoghi per descrivere. Basare una descrizione interamente su un dialogo non è una grande idea. Ci sono situazioni dove è naturale (la guida al museo che descrive lo scheletro del dinosauro, il professore che fa lezione, ecc.), ma troppo spesso si intuisce la forzatura: il personaggio parla e descrive non perché lo voglia, ma perché deve dare una mano all’autore.
Tuttavia, con le dovute accortezze, può essere opportuno descrivere alcuni particolari attraverso un dialogo. Per esempio: Anna e Michele passeggiano per il centro, ogni tanto si fermano a guardare le vetrine dei negozi. Il punto di vista è quello di Anna. Anna non avrà problemi a descrivere le vetrine dei negozi di abbigliamento e delle librerie, ma quando si fermano davanti a un negozio di elettronica?
Ad Anna non frega un tubo dell’elettronica, dunque osserva distratta e, anche fosse interessata, non conoscendo l’argomento, non dispone della terminologia adatta: per lei sono tutti cosi. Se per la trama è importante sapere cosa espone quel negozio di elettronica, come si fa? Si chiama in causa Michele: lui è così appassionato di elettronica da non sapersi trattenere dall’illustrare il contenuto della vetrina ad Anna.
Avvertenze:
- Suona inverosimile che Michele di punto in bianco si scopra appassionato di elettronica. Questo suo hobby deve essere mostrato in precedenza, in tempi non sospetti.
- Anna prima o poi prende Michele per un braccio e lo trascina via. Per quanto Michele sia appassionato, si può tirare la corda del personaggio punto di vista solo per un numero limitato di battute, oltre diventa inverosimile.
- Infine questo è un esempio. Se in un romanzo vero si evitano i cliché del tipo tutte le ragazzine giocano con le bambole e tutti i bambini con i soldatini, è meglio. Grazie.
Ricapitolando
Il discorso diretto è preferibile al discorso indiretto.
Bisogna studiare bene come introdurre il discorso diretto e come gestirne la punteggiatura.
Il dialogo deve suonare naturale, deve essere verosimile.
Per raggiungere questo scopo:
- I personaggi devono parlare rispettando sempre la propria cultura, educazione, esperienza.
- Il dialogo deve essere calato in un contesto dinamico.
- Il dialogo deve essere interessante, deve mettere di fronte personaggi con obiettivi diversi e deve contribuire a portare avanti la storia.
Non si deve:
- Far parlare il barbone come il Re e il Re come il barbone.
- Far parlare i personaggi nel vuoto, come fossero teste senza corpo.
- Impostare un dialogo che manchi di conflitto.
- Mettere in bocca ai personaggi nostre idee estranee alla storia.
- Far parlare i personaggi tra loro in modo artefatto per fornire informazioni al lettore.
- Far parlare tutti i personaggi alla stessa maniera.
Un dialogo obliquo o addirittura sconnesso, se ben progettato, può aumentare tensione e verosimiglianza.
Si possono sfruttare i dialoghi per tenere sotto controllo il ritmo della storia o per facilitare determinate descrizioni.
* * *
E adesso l’ultimo consiglio: non tenete conto di tutti i suggerimenti che ho elencato!
Non nella prima stesura. Cercare di scrivere dialoghi a tavolino, sudando su ogni battuta, è rischioso: c’è la concreta possibilità di sfornare dialoghi artefatti. Durante la prima stesura conviene scrivere i dialoghi di getto, senza contorno, senza dialogue tag, senza niente tranne le battute: così si imposta uno scheletro di conversazione che suona naturale. Poi, pian piano, si ripassa il dialogo e lo si cambia quando sono evidenti delle pecche. A questo punto è sì utile soppesare ogni virgola e ogni parola.
Bisogna anche mettersi nella disposizione d’animo che i dialoghi potrebbero cambiare la trama: Giovanni vuole invitare Maria al ballo, Maria preferirebbe rimanersene a casa o andarci con Marco. Io devo buttarmi nel dialogo con queste premesse, senza aggiungere: “nella scaletta è previsto che Maria accetti ed esca con Giovanni.” Se il dialogo nel suo incedere naturale sfocia in Maria che accetta, ottimo. Se invece appare chiaro che Giovanni è uno sfigato fastidioso e Maria non accetterà mai, bene lo stesso. Vorrà dire che la trama subirà qualche mutamento. Magari per uscire insieme a Maria Giovanni dovrà ricattarla, o Maria dovrà scoprire che Giovanni è malato terminale e che uscire con lei è il suo ultimo desiderio prima di tirare le cuoia.
Forzare lo scorrere di un dialogo per accomodare la trama prevista porta a dialoghi fasulli in maniera vistosa. Se proprio si deve, conviene riscrivere il dialogo da zero, alterando le condizioni di partenza (Maria ha appena litigato con Marco e vede nell’appuntamento con Giovanni un modo per ingelosirlo).
Per scrivere buoni dialoghi bisogna essere schizofrenici. Immergersi senza remore, senza timori, nella testa dei personaggi. Bisogna compiacersi di essere un volontario che impiega ogni minuto del suo tempo libero per aiutare il prossimo, si deve essere orgogliosi di aver passato la notte all’addiaccio per dare una mano alla vecchietta in difficoltà; così come si deve godere quando il giovanotto annoiato ammazza di botte un barbone e poi gli dà fuoco che ancora si dibatte, si deve essere fieri di aver ripulito le strade da un altro rifiuto umano.
È difficile scrivere dialoghi davvero naturali e verosimili senza questo tipo di partecipazione emotiva.
Quali manuali leggere
Le fonti primarie per questo articolo sono state:
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Dialogue: Techniques and Exercises for Crafting Effective Dialogue di Gloria Kempton (Writer’s Digest Books, 2004). |
E i capitoli dedicati ai dialoghi in:
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Stein on Writing di Sol Stein (St. Martin’s Press , 1995). |
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How to Write a Damn Good Novel di James N. Frey (St. Martin’s Press, 1987).
Edizione italiana: Come scrivere un romanzo dannatamente buono (Le Fonti, 2009). |
Il testo della Kempton è l’unico che ho trovato dedicato solo allo scrivere i dialoghi. È un manuale decente, ma la Kempton si sperde troppo. Manca di sintesi, gira a vuoto prima di arrivare al punto. Le 200 pagine circa sarebbero potute essere la metà senza perdere niente.
Alcuni capitoli lasciano perplessi, come quello dedicato all’Enneagramma: onestamente non mi pare uno strumento utile per lo scrittore, mi pare un’emerita stupidaggine. Così pure il capitolo dedicato ai tipi di scrittura diversa a seconda dei generi è molto superficiale: non ci vogliono dialoghi “magici”(sic) in un fantasy.
Gli esempi variano in qualità: alcuni centrano molto bene la questione, altri sono bruttini o poco attinenti a spiegare la teoria.
Nel complesso può valere la pena leggere questo Dialogue, basta non prendere per oro colato tutto quello che dice la Kempton.
Dei manuali di Stein e Frey parlerò più diffusamente in un altro articolo. Comunque i capitoli dedicati ai dialoghi sono buoni; danno consigli concreti e sensati. Frey in particolare ha uno stile molto deciso e piacevole, ma qualche volta quelle che afferma essere verità auto-evidenti non lo sono poi tanto (vedi la questione verosimiglianza vs. brillantezza).
Compiti a casa
Vi propongo due immagini. La prima pare tratta da una classica storia di primo contatto[4]:
Topo alieno
C’è un signore alle prese con un topo alieno sul letto. Cosa vorrà il topo? Chi è? Da dove viene? Immaginate il contesto, fornite a entrambi i personaggi degli obiettivi, scegliete un punto di vista e scrivete il dialogo tra uomo e ratto extraterrestre. Come sempre siete liberi di fantasticare e di inserire elementi nuovi rispetto all’immagine. Potete anche abbozzare una storia e descrivere con dovizia di particolari, ma qui l’esercizio è scrivere un buon dialogo. Il resto è solo un di più per sfizio.
Se i topi di Saturno non vi ispirano, date un’occhiata a quest’altra immagine:
Edward mi aspetta!
Una ragazza in divisa scolastica con un mazzo di fiori in mano che si aggira in un edificio diroccato. Immaginate che stia guardando un altro personaggio (licantropo/vampiro/coniglietto/ragazzo/ragazza/quello-che-vi-pare) e ideate il dialogo. Pensate a una ragione bizzarra perché la ragazza con i fiori sia lì nel palazzo in rovina, e cercate di far trasparire le sue motivazioni dal dialogo: attenzione però, dovete essere subdoli, il lettore non deve avere la sensazione di essere imboccato.
È questo è tutto. Divertitevi!
* * *
note:
[1] ^ Dette anche virgolette basse, virgolette a caporale o “caporali”. Sono simboli non presenti sulla tastiera italiana. Per farli apparire si può ricorrere ai codici ASCII, digitando Alt + 174 per « e Alt + 175 per ». Significa tenere premuto il tasto Alt (di solito in basso a sinistra sulla tastiera) e mentre Alt è premuto digitare 1, poi 7, poi 4, oppure 1 7 5.
Una soluzione più pratica è ricorrere alle funzioni di autocorrezione degli elaboratori testi. Praticamente tutti i programmi di videoscrittura offrono la possibilità di convertire al volo uno o più simboli in altri.
Di seguito è illustrato come trasformare >> in » usando l’autocorrezione di Microsoft Word 2007 e OpenOffice.org Writer 3.0 – se usate un altro programma di videoscrittura consultatene il manuale.
Microsoft Word 2007. Per raggiungere questa finestra di dialogo usare: simbolo di Office (la sfera in alto a sinistra) -> Opzioni di Word -> Strumenti di correzione -> Opzioni correzione automatica…
OpenOffice.org Writer 3.0. Per raggiungere questa finestra di dialogo usare il menu Strumenti -> Correzione automatica…
OpenOffice offre un’altra interessante opzione per quanto riguarda la correzione automatica: sostituire le virgolette alte, singole o doppie, con i simboli che vogliamo. Qui ho sostituito le virgolette alte doppie (“) con le virgolette uncinate. Il bello è che se digito le virgolette alte, OpenOffice inserirà il simbolo delle virgolette uncinate aperte («), se digito di nuovo le virgolette alte, OpenOffice si accorgerà che c’è una battuta “aperta” e inserirà automaticamente le virgolette uncinate chiuse (»).
Il problema è che poi avrò qualche difficoltà se voglio mettere proprio le virgolette alte. Ma se uso i “caporali” per i dialoghi e per esempio il corsivo per i pensieri, non ho più bisogno di virgolette alte
[2] ^ Cito dal libro di Roberto Giacobbo 2012. La Fine del Mondo?
Di fatto, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del XX secolo, nell’atmosfera terrestre ha improvvisamente fatto la sua comparsa una presenza inedita: un numero sempre crescente di particelle di luce dette “fotoni”.
Particelle che assomigliano molto alla luce che, secondo la profezia maya interpretata da José Arguelles, dovrebbe investire il nostro pianeta quando i Maya Galattici giungeranno ancora una volta sulla Terra per aiutare l’uomo a realizzare il suo salto evoluzionistico…
Ringrazio Hellfire per la segnalazione.
Copertina di 2012. La Fine del Mondo?
[3] ^ Tuttavia S. M. Stirling, riportando la citazione nel suo romanzo Conquistador, lascia presumere che sia attribuibile a Larry Niven.
[4] ^ L’immagine è presa da The Arrival di Shaun Tan. Trovate il libro completo su gigapedia, qui. Tecnicamente è l’edizione francese, ma dato che sono solo immagini, senza testi, non ha importanza. È una storia illustrata di immigrazione new weird. Però, prima di guardarla, fate i compiti, altrimenti potreste essere influenzati!
Copertina di The Arrival
Approfondimenti:
Dialogue su Amazon.com
Stein on Writing su Amazon.com
How to Write a Damn Good Novel su Amazon.com
Come scrivere un romanzo dannatamente buono su iBS.it
Il sito di Gloria Kempton
Il sito di Sol Stein
Il sito di James N. Frey
Un post dedicato alla punteggiatura nei dialoghi sul forum di Edizioni XII
José Saramago su Wikipedia
Ipotesi sul 2012 su Wikipedia
2012. La Fine del Mondo? su iBS.it
The Arrival su Amazon.com
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20 agosto 2016 alle 18:29
[…] Dialoghi: http://fantasy.gamberi.org/2009/11/18/manuali-2-dialoghi/ […]
18 febbraio 2015 alle 11:08
Un bell’articolo.
Tnks.
22 gennaio 2015 alle 16:32
[…] per fare un esempio, accenna alla questione nel paragrafo “Verosimiglianza” del suo manuale sui dialoghi. Nello scrivere, possiamo riassumere, bisogna tenere il giusto equilibrio fra verosimiglianza di […]
26 dicembre 2014 alle 11:11
Ho una domanda: secondo te come bisogna comportarsi col discorso indiretto?
Te lo chiedo perché un autore che ho letto lo ha utilizzato in un passaggio altrimenti impossibile da gestire col discorso diretto. Il passo era più o meno questo (non lo cito parola per parola):
Era a cavalcare, quando vide due figure muoversi tra i massi. La gola era franata da anni, come avevano fatto a passare?
Portò il cavallo davanti alla scarpata. Erano X e Y, quelli che lo avevano fatto scappare dalle segrete. Avevano scarpe consumate e i vestiti stracciati.
Gli offrì la sua borraccia, li fece montare sul cavallo al posto suo e li porto a casa.
Appena sua moglie li vide entrare dalla porta della capanna, corse subito a dargli una pagnotta di pane. Yorsh li fece sedere e gli chiese che cosa stava succedendo.
Erano gli orchi, risposero, gli orchi avevano attaccato Varil, la città che ospitava, e solo la cittadella resisteva ancora. Aveva visto pure lui che dopo che lo avevano fatto scappare se n’erano andati via. Se il giudice li avesse presi avrebbero fatto una fine peggio di quella che doveva fare lui.
Li avevano vissuto per quei dieci anni, senza che nessuno gli desse fastidio. Certo, li spolpavano poi con le tasse, ma almeno nessuno gli voleva strappare le unghie. Due settimane prima però erano arrivati gli orchi.
“scusate, ma l’esercito non li ha fermati?”
I cavalieri? Quegli ormai non erano buoni più a far nulla. In quegli anni di pace giusto qualche esercitazione avevano fatto, a parte le parate che facevano al compleanno del re. Piuttosto, lui aveva ancora il drago? Ah, era morto… Peccato, perché un drago contro gli orchi una bella figura l’avrebbe fatta. Va Be’, se ne sarebbe fatto a meno: sarebbero bastati i suoi poteri da elfo.
“Ma il sistema di chiuse non l’avete usato?”
Volevano allargare la piana, ma gli orchi lo avevano sabotato. Sicuramente era stata colpa del giudice, quel grandissimo bastardo. Li aveva aiutati lui gli orchi, chi altro poteva essere stato? In cambio dei vigneti di Z. Che i demoni lo portassero all’inferno. Ora le loro figlie Erano dentro la cittadella a rischiare ogni secondo la vita. Se gli orchi le avessero prese poi… Non ci volevano neanche pensare. [...]
Ho riassunto. Il passo durava circa due pagine. È facile capire che usando il discorso diretto trazionale per questa conversazione ci sarebbero volute pagine e pagine. Sì lo so che in alternativa si può finire il paragrafo quando lui li trova e iniziarne un altro quando lui parte per salvare la città, però a questo punto a inizio paragrafo bisogna fare un lungo inforigurgito, anche se mascherato nei migliori dei modi, che stoppa la narrazione.
29 ottobre 2014 alle 20:01
Rispondo a Danny:
«Senti Anna: stavo pensando che… .»
«Non mi interessa cosa pensi.»
Inserire un punto di seguito ai puntini di sospensione è un errore! Come tutti i segni di punteggiatura, i tre punti di sospensione non possono né precedere, né seguire altra punteggiatura! (Sarebbe come mettere una virgola prima di un punto…)
Questa è la forma corretta:
«Senti Anna, stavo pensando che…»
«Non mi interessa cosa pensi.»
15 ottobre 2014 alle 13:29
Ho una domanda sulla punteggiatura. Se un dialogo termina coi puntini di sospensione, dove si mette il punto? Andrebbe bene scrivere così, o si può fare di meglio?
«Senti Anna: stavo pensando che… .»
«Non mi interessa cosa pensi.»
Grazie ciao
Danny
15 agosto 2014 alle 16:28
[…] - Stepford Smiler su TvTropes - Woobie su TvTropes - Not So Stoic su TvTropes - I dialoghi su Gamberi Fantasy - I dialoghi su writeworld.tumblr.com - I cinque modi migliori di far sembrare le […]
6 marzo 2014 alle 15:46
Per quanto riguarda il “documentarsi” ho di recente visto un’intervista a Goro Miyazaki relativamente a “La collian dei papaveri”, in cui descrive il tempo che il suo staffa impiegato per documentarsi su coem era Yokohama negli anni 50, su cosa facevano le liceali dell’epoca, su come era il traffico portuale e su ogni dettaglio… a cui poi si aggiungevano imembri dello staff residenti a Yokohama che lo correggevano dicendo che la stazione non è fatta in un determianto modo, che la vista dal aprco era sbagliata ecc… consiglio (se non di vedere il film che a tratti sembra una soap opera, ma Goro non è Hayao) di ascoltarsi l’intervista.
3 settembre 2013 alle 14:32
[...] Manuale sui Dialoghi [...]
11 gennaio 2013 alle 13:34
@ Stefano
Ovviamente non mi sogno neppure di modificare stile a metà storia. Se mai dovessi cambiare idea, andrei a riscrivere tutti i dialoghi.
Comunque sto usando la punteggiatura all’interno, quella esterna mi dà troppo l’idea di una frase in sospeso.
Il correttore di word continua a sottolinearmelo, e non c’è verso di fargli cambiare idea.
10 gennaio 2013 alle 16:04
@Vale
Generalmente io uso la punteggiatura fuori dal trattino lungo alto (io uso quello, mi piace di più). In ogni caso se cominci con uno stile poi devi andare avanti con quello ma non credo che sia meglio una scelta piuttosto che un’altra. Vorrei sentire qualche altra campana, comunque. Magari mi sbaglio e non lo so…
Per il resto non posso aiutarti, mi spiace :(
10 gennaio 2013 alle 13:18
Salve, ho una domanda per Gamberetta, ma anche per chiunque voglia rispondere.
Secondo voi è meglio la punteggiatura dentro («Ciao.») o fuori («Ciao».) dalle virgolette uncinate?
Io preferisco il primo metodo, perché mi sembra dia più tono ai dialoghi, ma ho notato che molti libri preferiscono il secondo. Forse perché è più elegante a vedersi? Anche il correttore word è un fan del secondo metodo.
A proposito del correttore word, qualcuno sa come disattivare la segnalazione degli errori in verde, lasciando quella dei rossi? Continuo a provare tutte le opzioni, ma non ci riesco.
11 novembre 2012 alle 12:16
@andrea: ti do il mio consiglio, anche se non mi intendo di thriller.
Se non hai esperienza sul metodo di scrittura cerca “How to write a Damn Good Novel” con google, si trova una versione pdf online, ma è in inglese.
Visto che hai intenzione di scrivere thriller devi puntare sulla suspense, sui colpi di scena che creino una tensione sempre crescente fino ad arrivare al climax, quindi un consiglio sempre valido è conoscere il genere di cui scrivi e quindi leggere thriller.
11 novembre 2012 alle 10:34
Grazie Ettore per il consiglio, il problema sai qual’è? e che probabilmente non ho una preparazione per scrivere un libro. E’ un desiderio che ho da molto tempo (ho cinquantanni), ma non vorrei correre il rischio, come mi è capitato leggendo libri, di arrivare a nemmeno a un quarto della lettura, chiuderlo e metterlo nello scaffale, ecco non vorrei fare quella fine, 1° per non deludere chi avesse intenzione di leggerlo, 2° per me stesso.
Lavoro nel mondo dell’Arte (sono uno scultore) anche se il termine scultore oggi non è corretto, realizzo installazioni, e video arte, sono un assemblatore più che uno scultore.
Il tema trainante della mia arte,e la fragilità della psiche umana, attraverso la testimonianza storica e drammatica dei manicomi.
Il libro che vorrei scrivere e proprio una storia legata a questo tema, un Thriller noir, con dentro una buona dose di fantasy.
Ti ringrazio ancora per i consigli che mi hai dato
10 novembre 2012 alle 20:52
@Andrea
Se posso darti un consiglio, non partirei con l’idea di scrivere un “libro” o un numero fissato di pagine, ma lascia che la storia venga lunga quanto serve. Sul serio, non c’è numero di pagine che valga quanto il contenuto.
9 novembre 2012 alle 10:32
Ciao, complimenti per il tuo blog, lo trovo molto interessante, a tal punto che avevo cominciato a scrivere una storia, ma ho buttato via tutto e ho ricominciato da capo, seguendo i tuoi consigli.
Fatta questa premessa, ti volevo chiedere questo:mi puoi dare qualche consiglio su come riuscire a portare avanti una storia senza far stufare chi la legge, mi spiego, 1° non sono uno scrittore, e la prima volta che cerco di scrivere un libro, mi accorgo però che sono molto sintetico, e chiudo gli argomenti in fretta, in pratica se vado avanti così, sto libro non lo porto neanche a 100 pagine, ho provato a dilungarmi più a lungo nella storia, ma se mi metto nei panni di chi la legge, credo si possa stufare, ti metterai a sorridere leggendo quello che ti ho scritto, ma credimi sta diventando un chiodo fisso, alle volte penso di più al numero di pagine che ho scritto, che al contenuto.
Se volessi darmi qualche consiglio, ti ringrazio.
11 ottobre 2012 alle 15:41
Ciao, ecco l’esercizio sui dialoghi :) ho scelto la seconda vignetta con la ragazza ed è collegato all’esercizio che ho pubblicato sul manuale 1 descrizione.
Giorno 11 Ottobre, zona centrale della “Red Rabbits”, quartiere periferico 331, obiettivo numero 1435.
Millequattrocentotrentacinque come il numero di missioni affidate al sergente “Ombra”.
John Kraul portava i suoi lenti passi in superficie, in quel cumulo di silenzio e desolazione: pavimenti sfrattati, pareti impolverate, soffitti umidi, odori mefitici, valzer di luci psichedeliche provocate da scintille di cavi mordicchiati dai ratti.
John proseguiva tranquillo, a suo agio, con le mani nei tasconi del giaccone nero. Essendo finito nel mezzo di un corridoio anfratto, la direzione da prendere era a senso unico.
Camminò per tre minuti e quarantasette secondi prima di bloccarsi, togliere la mano destra dalla tasca, inserirla nella giacca e portarla sulla schiena.
«Fermo!» implorò la ragazza davanti a lui. «Ti prego…» aggiunse in fretta, mentre il tono di voce si spegneva nella penombra del corridoio.
«Io non sono come le altre, devi credermi!»
«Muori» rispose John, secco.
«No!» ribadì la fanciulla, portando la mano in avanti e mostrando un mazzo di rose rosse.
«È per te» disse con un caldo sorriso ad occhi chiusi mentre John si bloccava con le orecchie drizzate, calmandosi.
«Io adoro le rose» continuò lei alzando gli occhioni curiosi fino a perdere il sorriso. «Sai, il loro colore ne determina il significato» si voltò alla sua destra per afferrare un cavo a penzoloni e tornare su John con un altro sorriso.
«Per esempio il rosso significa passione d’amore, quando sei innamorato di una persona non c’è dono migliore!» disse corrucciando le labbra ancora sorridenti e giocherellando con il filo.
“Passione d’amore?” si ripeté John tra sé e sé. “Che assurdità” concluse facendo sfilare la mano dal giaccone fino a bloccarsi di nuovo.
«Ma avrei voluto che fossero rosa» disse sibillina la bambola. «Cioè amicizia, affetto…» staccò la mano dal cavetto. «Pace» abbassò gli occhi, corrucciando le labbra senza sorridere.
«Che ne sarà di me?» chiese infine con gli occhi lucidi.
Ma John non disse nulla, fece solo quattro passi lenti verso di lei e allungò la mano sinistra. Un sorriso maligno si materializzò nel volto della ragazza. Un movimento secco del pollice e dal mazzetto di fiori partì un proiettile luminoso che finì per frantumarsi in scintille sui cordoni del soffitto, alle spalle di John. Qualcosa aveva deviato la traiettoria del colpo spostando il braccio della femmina e non solo, quel qualcosa aveva bloccato il suo intero corpo rendendola inerme a qualunque tipo di attacco.
«Maledetto! Cosa stai facendo?! Dimmelo mostro!» disse la donna con tono rabbioso, mentre cercava di svincolarsi da quel nulla che l’aveva avvolta su se stessa.
John ricambiò il sorriso, mostrando i denti da squalo, fino a perforare l’altra con un’occhiata di morte. Il tutto mentre finiva la sua estrazione.
«Tu non hai sentimenti, dentro di te non provi nulla, vuoi solo trasformarmi in una caramella e mangiarmi. Non hai niente che si avvicina a quelli come me, non hai nemmeno un nome. Tu, non sei altro che un numero»
Concluse spingendo l’mk11 sulla fronte della bambola, premendo il grilletto e lasciandola trapassare da un foro di 55 millimetri. Poi nulla, solo un mazzo di fiori che rovinò a terra imbrattando il pavimento di rosso.
5 gennaio 2012 alle 15:57
Ciao Gamberetta, ho letto moltissimi tuoi post e ti ringrazio per quello che fai e che hai già fatto. Complimenti per la competenza.
So di essere fuori tempo massimo, non so se rileggerai ma posto qui di seguito il mio compito per casa. L’immagine ovviamente è quella del topastro.
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Il topo non si decideva a dare ordini.
Roman si bilanciò sul piede destro, attese, spostò il peso sul sinistro, smise. Si scrocchiò le dita: indice, medio, l’anulare no, non gli dava mai soddisfazione. Si chinò ad allacciare una scarpa, ma era un mocassino. Sospirò e lo guardò negli occhi. Niente. Un’immobile macchia grigia su fondo blu.
Roman si schiarì la voce una prima volta, e ancora. Niente. “Quindi?”, chiese infine.
Il topo corse sul letto fino al cuscino. Gli rivolse il muso e lo squadrò come se non l’avesse mai visto. “Morta?”, chiese.
“Morta”, confermò Roman. Agitò il forchettone. “Un colpo secco alla nuca, come avevi detto tu”.
Le zampette sfregarono veloci sulla testiera, coprendo un eccitato squittio.
Roman scosse il capo. “Eh?”
“Buo-no i-ni-zio”, scandì il topo.
“Inizio di cosa?”
“Fine di uomo”.
Roman si avvicinò di un passo. Abbassò il capo e disse: “Allora è come volevi tu”.
Il topo resse lo sguardo e replicò: “Anche tu vuoi, uomo. Oppure non devi iniziare, mese fa”. Sbattè la coda sul cuscino. “Oppure”, aggiunse, “tu ami uomini”.
Roman si morse il labbro. Si rialzò, cercò qualche dito da scrocchiare, ma non ebbe soddisfazione.
“Capo, io voglio che muoiano, mica li amo”.
“Allora fai cosa dico”.
“Se non comandi, cosa faccio?”
La lampadina crepitò. Un cupo rombo, fuori.
“Accusa Mossad”, disse il topo.
“Mossad, Mossad… E come ce lo tiro dentro il Mossad? Esther era dei loro”.
“Tu accusa con intervista. Tu fai intervista stasera a Jolenko. Tu fai dire che ha sospetti. Tu”, ridacchiò sotto i baffi, “buono manipolatore parole”.
Roman arricciò il naso, deglutì saliva che non c’era. “Mi scopriranno, stavolta… stavolta non ci riuscirò”. Appoggiò il forchettone a terra, vicino alla porta.
“Se vuoi fine di uomo, riesci”.
Roman si grattò la guancia. “Tu non capisci. Jolenko non è Fattori – quell’idiota di Fattori, non è Fisher che andava coi ragazzini, non è Esther che sono bastati due biglietti per… Ah!”
Abbassò gli occhi e incontrò quelli del topo appena sopra il suo piede sinistro. La lunga lingua dell’animale stava stritolando la caviglia di Roger.
Scalciò per staccarlo da lì, ma il topo si tenne ben stretto. “Molla!”
Altro calcio, scrollata. Nessun risultato. Una giostra divertente per il suo partecipante. Non sentiva più il piede.
“Dai, capo, lasciami!”, esclamò Roman. Poi si fermò, gli occhi bagnati dal dolore. “Farò come vuoi, ma… Ahi, lasciami!”
Il topo staccò la presa. “Uomo, io capo. Accusa Mossad”.
Roman si bilanciò sul destro e ruotò l’altro piede. Sì, sembrava tutto a posto
“Dirò a Jolenko, beh, dirò che era una talpa, allora”.
“No! Non tu, lui deve dire!”
“Farò dire, intendevo. Ma i russi non sono…”
“Non sono!”, lo interruppe il topo, sbattendo forte la coda a terra. “Non? Uomini, sono! Russi, ebrei, americani, ONU, uomini! E noi vuole fine di uomo”.
Roman tacque.
Il topo tornò sul letto, si rizzò sulle zampe e lo guardò dall’alto in basso. “Buono”, disse.
Roman si rialzò e barcollò per un istante sulla gamba sinistra. Annuì e si avviò verso la porta.
“Fine di uomo!”, proclamò il topo, ergendosi in tutta la sua altezza e agitando le zampette anteriori.
Roman uscì e richiuse la porta. Tre mandate, due catenacci. Accese la luce del corridoio si diresse verso la stanza dalla parte opposta. Aprì la porta di legno scheggiato e rabbrividì: per quanto fosse piccolo, era sempre un locale freddo. Freddo come Ludmila, con le braccia conserte sul maglione sformato, la migliore collega per chi non vede l’ora di staccare presto dal lavoro. Proprio la sua stanza. Anche la vernice scrostata si intonava alle sue guance avvizzite.
“O mi date l’aumento o io domani non torno”, le disse, andando verso la cassetta di medicazione. Si rimboccò i calzoni, guardò il brutto segno rosso circolare, prese un pezzo di cotone, vi spruzzò sopra il disinfettante e iniziò a medicarsi.
Fece una smorfia di dolore al contatto col liquido. “Sono state le due settimane peggiori della mia vita”, ribadì. Buttò il cotone sporco di sangue nel cestino e rimise a posto i risvolti.
“Completamente andato”. Si spostò dal lato opposto, aprì il frigorifero, estrasse una lattina e la stappò.
Lei si alzò dalla sedia e si spostò contro al vetro rigato dalle gocce del temporale, le mani ancora strette al seno.
“Quindi?”, la sollecitò.
“Non ha neanche tre giorni davanti”, mormorò lei, inseguendo con lo sguardo una goccia che correva rapida sulla strada tracciata dalla precedente.
“Ma ha tre secoli dietro”, la rimbrottò. Riuscì a scrocchiarsi il medio della sinistra, non l’anulare. Mai una soddisfazione. “E con i suoi otto compari, centinaia di morti sulla coscienza. No, coscienza no. Quella non ce l’hanno”.
Ludmila fece una pausa prima di replicare. “E’ l’ultimo.”
“Quello di Johannesburg?”
“Morto ieri”.
“Meglio”. Tirò una lunga sorsata. “Si sa perché?”
“No, come gli altri. Neanche il loro scienziato capiva la malattia”.
“Los Angeles. E’ stato il primo a crepare. Almeno la coerenza non gli è mancata”.
Guardò una donna che correva sul marciapiede fradicio, il bavero alzato e una sporta nella destra. “Bell’atmosfera che abbiamo. Quarantott’ore e tutti erano spacciati”, disse Ludmila.
“Studenti veloci, con la nostra lingua e con la nostra morte”, borbottò.
“Lui”, accennò col capo verso la porta che dava sul corridoio che dava sulla cella, “è proprio l’ultimo”, disse lei, appoggiando il capo alla finestra.
Sorseggiò prima di ribattere. “Eh, ho capito, l’hai già detto.”
“No, cioè… quello di Edinburgo ha detto che loro erano gli ultimi della razza. Avevano solo nove capsule, gli altri sono morti lassù”.
“Gli sta bene. Così imparano a lanciarsi in mezzo alle città con quei cosi”. Una smorfia di dolore, lo sguardo che corre ai pantaloni. “Nove”. Un’altra sorsata. “A Edimburgo il chiacchierone. A Los Angeles il medico, a Perth lo storico… perché quello matto doveva cadere qui?”
“Non è matto!”, gridò. Sciolse le braccia e gli agitò contro un dito con lo smalto mangiucchiato. “E’… malato!”
“Ogni matto è malato”, rispose calmo Roman. “E noi siamo qui per curarli”.
“Con gli uomini è più facile”, sussurrò Ludmila. Tornò a sedersi al tavolo e iniziò a scrivere.
L’ultima sorsata. Tonfo della lattina nel cestino.
“Ci vediamo domani”.
“Ci vediamo domani”.
###
Ciao e grazie ancora.
30 agosto 2011 alle 15:52
C’è un altro scrittore che non delimita i dialoghi fra virgolette, stanghette e quant’altro: Cormac McCarthy, l’autore di “La Strada”, il romanzo da cui è stato tratto il film “The Road”.
Dà un effetto curioso in effetti, all’inizio ti sorprende, poi però ti immerge più nella storia. La pecca è che spesso non riuscivo a capire chi stesse parlando, aveva bisogno di mettere una virgola e dire: disse il bambino.
Esempio: è buona, disse il bambino.
Solo che se siccome non c’è una delimitazione non ti aspetti il dialogo e non comprendi abbastanza in fretta che qualcuno sta per parlare, e solo dopo, quando dice “il bambino”, capisci che è stato lui, mentre con una limitazione lo si sarebbe potuto intuire. (Certo, lo si intuisce un attimo prima di leggere il bambino, ma si fa più fatica, e la cosa ti fa uscire dalla storia, effetto opposto a quello voluto dallo scrittore.)
23 maggio 2011 alle 16:23
@C.M. I problemi non cambiano se i personaggi di un dialogo invece di essere 2 o 3 sono 5 o più. Forse l’unico accorgimento è magari non lesinare con i tag (disse Andrea, disse Maria, disse Silvia, ecc.) perché con così tanti personaggi il lettore difficilmente può capire chi pronuncia una battuta solo dal flusso del dialogo.
D’altra parte puoi apposta eliminare i tag se vuoi dare l’impressione che tutti parlino contemporaneamente (se magari la discussione è accalorata) tanto che neppure il personaggio punto di vista distingue chi dice cosa.
22 maggio 2011 alle 12:06
Salve, Gamberetta, e complimenti per il sito.
Perdonami se la mia domanda ti sembrerà scema, ma volevo chiederti se per caso ci sono degli accorgimenti particolari quando si scrivono dialoghi tra un gran numero di personaggi (diciamo da 5 a 15, tutti abbastanza importanti ai fini della storia).
Ad esempio, come si fa con i dialogue tag?
Grazie in anticipo per una tua eventuale risposta. Se invece eviterai di rispondermi, scusa per la domanda cretina.
19 maggio 2011 alle 10:33
@Danju. Il problema di scrivere i dialoghi come nel tuo esempio è che nessun altro scrittore lo fa, dunque il lettore rimane perplesso, invece di seguire la storia si domanda perché imposti i dialoghi con una punteggiatura così bizzarra.
Hai due soluzioni. Se vuoi lasciare il nome del personaggio prima della battuta la forma più “corretta” è:
Ma come spiegato nell’articolo questo modo di impostare i dialoghi li carica di molta enfasi e non sempre è il caso. Meglio:
19 maggio 2011 alle 04:35
Non so se è corretto “secondo le regole”, ma è orribile secondo il buongusto ^_^
Sembrano i dialoghi di “Dune”, che erano pietosi ^_^
19 maggio 2011 alle 01:53
Ciao, Gamberetta.
Prima di tutto volevo farti i complimenti per il tuo blog.
Cmq, secondo te è tanto brutto o sbagliato scrivere i dialoghe così ?
-Reed:Grazie dell’interessamento capitano.
-Kane:Ora vai pure a casa.
Sai, tento di scrivere un libro…
14 aprile 2011 alle 16:44
@Mauro. Sei saldo nel punto di vista di Aurora, basta che scrivi:
Tenendo presente che è comunque una frase meh, perché Marco non sta facendo niente per cui debba bloccarsi, in più il bloccarsi è un po’ raccontato. Confronta con:
Ed è implicito che Marco ha visto il personaggio PdV e si è bloccato.
13 aprile 2011 alle 17:09
Sto poco per volta rimettendo mano al mio compito; non so quanto lo cambierò, ma intanto ci provo.
Lavorandoci, mi è venuto un dubbio; questo pezzo:
è diventato:
perché Aurora non penserebbe a Marco come a “Il ragazzo”, quindi se il punto di vista è lei allora ci va il nome; però non penserebbe a sé stessa come “Aurora”, quindi il pezzo “Quando vide Aurora si bloccò” mi sa più di narratore, che di evento filtrato dal POV (stesso discorso per “Quando la vide”). Se quanto detto finora è giusto, c’è un modo di rimanere in terza persona filtrando però quel pezzo, o cose simili sono insite nella terza persona?
19 marzo 2011 alle 12:02
@Geppetto. Guarda qui. I link alle edizioni inglesi probabilmente non vanno più perché devo ancora sistemarli per farli puntare a library.nu, tuttavia i dati bibliografici italiani sono sempre validi. Leggi anche i commenti.
Inoltre ho segnalato tempo fa un manuale italiano presente su emule, vedi qui.
18 marzo 2011 alle 22:36
Molto bello il manuale!
Dato che vorrei approfondire l’argomento, sto cercando dei libri sull’uso dei dialoghi, scritti in italiano e non in inglese.
Qualcuno sa se esistono? Nel caso in cui qualcuno lo sapesse, potrebbe scrivere qui i titoli.
I libri che ha elencato gamberetta, sono tutti titoli inglesi fino ad ora ho trovato solo il libro di james frey in italiano.
2 febbraio 2011 alle 00:15
ah dimenticavo …gamberetta @ sul fatto della doppia identità sono d’accordissimo! infatti ho cercato di mostrare fin dalle prime sue apparizioni che è una persona molto instabile, che nasconde qualcosa, che ha paura e reagisce male a determinati discorsi. Spero di esserci riuscito ò__ò
2 febbraio 2011 alle 00:08
beh io mi trovo d’accordo con entrambi alla fine …infatti ho deciso che i riferimenti alla guerra ci saranno, ma senza esagerare. Penso che lo inserirò in un dialogo sulla situazione politica attuale, che è influenzata completamente dall’esito della guerra. Non parlerò della guerra ma delle sue conseguenze, come potrebbero fare due persone che oggi parlano della questione palestinese e delle sue origini …. vi sembra sensato? mumble …
per la magia credo che utilizzerò l’espediente del mago che si sbaglia … senza calcare troppo la mano, il resto in effetti verrà da se durante il romanzo. l’unica cosa che temo è l’effetto “il grande mago non poteva pensarci alla prima pagina?” che tanto spesso si vede nei fantasy ç_ç
insomma nel mio mondo la magia è regolata da presenze soprannaturali, possiamo chiamarli “dei”, che pongono dei limiti specifici a coloro che la usano. Volendo un mago può contravvenire a questi divieti, ma rischia la vita e la sua stessa stirpe. (insomma una visione un po’ greca del rapporto divino-umano etc etc )
ecco questo devo farlo capire in qualche modo… altrimenti quando il mago alla fine del libro compirà un incantesimo più grosso del solito (e ci resterà ovviamente secco XD) questo atto verrà spogliato del suo valore …. o no ? :/
1 febbraio 2011 alle 01:50
So che rischio la vita a dirlo ma… non sono del tutto d’accordo. Il modus operandi di colui che pratica omicidio influisce molto sul definire la persona stessa. Quando uccideva nel campo di concentramento godeva nel farlo ed applicava particolare violenza e passione? Oppure era freddo e calcolatore usando precisione clinica. Quando uccideva come infermiere lo faceva per un gesto di eutanasia non richiesta ma che secondo la sua visione era caritatevole nei confronti di un presunto accanimento terapeutico o semplicemente amava giocare a fare Dio con le vite altrui?
Questi che possono sembrare dettagli ininfluenti, sono invece molto importanti per sapere ora come vive la sua nuova identità. Se di notte ha gli incubi o vede dappertutto i volti di coloro che ha ucciso per rimorso. O se invece era sicuro di essere nel giusto e di averli liberati delle spoglie mortali e dunque è tranquillissimo. Se vive in modo caotico o se invece come killer preciso abbia uno stile di vita al limite della nevrosi per il controllo delle sue azioni. Secondo Freud e la sua teoria della sublimazione, un chirurgo ed un serial killer hanno lo stesso tipo di pulsione, solo applicata in maniera diversa. Ed in effetti a pensarci bene, ci vuole una freddezza incredibile per poter “aprire” una persona e fare ciò che fa un chirurgo, tanto quanto ci vuole una freddezza incredibile per agire come alcuni serial killer che praticano amputazioni ecc.
Tornando al discorso principale, è necessario che un lettore sappia tutto ciò? Probabilmente no, ma è fondamentale secondo me che lo sappia chi sta scrivendo. Il background deve essere impresso a caratteri cubitali in chi scrive per non muovere poi il personaggio in maniera incoerente con se stesso. Un freddo serial killer che vive nel disordine, un passionale omicida calmo e rilassato, un praticatore di eutanasie che salta sui piedi ad ogni accenno di polizia, un ex assassino da campo di concentramento in guerra che la sera beve una camomilla e si fa sane dormite, fanno perdere di credibilità al tutto. Soprattutto se poi lo scrittore in futuro vuole rivelarlo al lettore come colpo di scena. Non devi dire che c’è stata una guerra ed egli è un ex SS, basta che lo mostri nel suo modo di agire odierno di doppia identità, mi sta bene. Però questo non significa che l’importante è solo che abbia una doppia identità, altrimenti tutti i criminali sarebbero e si comporterebbero allo stesso modo, cosa oggettivamente non vera.
Per alcuni magari questo aspetto non è importante, ma è come se un appassionato di armi leggesse in un libro che la Colt M1911 utilizzata dal protagonista uccide un tizio dopo 10 colpi sparati in aria quando al massimo la suddetta arma ne può contenere meno. Sbaglierò, ma la penso così.
31 gennaio 2011 alle 19:39
@Gamberetta
Mentre lo scrivevo mi accorgevo del continuo inforigurgito, ma non sapevo come altro metterlo. Volevo fare una storia con un finale ‘a sorpresa’ e utilizzare il dialogo spiegando ciò che era accaduto prima, per preparare così il lettore al colpo di scena.
Poco chiaro? E’ vero, lo è. Ma ho una
buonamotivazione: se avessi dato più dettagli la storia sarebbe venuta ancora più lunga, e non volevo esagerare. Alla fine, altrimenti, sarebbe venuto fuori un vero e proprio racconto, magari con tanto di flashback.Comunque non temere: appena mi verrà l’ispirazione riproverò quest’esercizio, questa volta con il coniglietto spaziale. Eviterò gli avverbi, l’inforigurgito e le ripetizioni dei nomi, o almeno spero.
Il dialogo non l’avrà vinta, trionferò su di lui, conquisterò il mondo! bwahahahah…
Ok, stacco prima di delirare del tutto.
Grazie delle correzioni.
E’ tardi, è tardi assai.
31 gennaio 2011 alle 17:00
@IlBianConiglio. Uhm. A parte il continuo ripetere “Clara” che probabilmente si può tagliare, il tutto ha l’aria molto inforigurgitosa. Si ha l’impressione che i due parlino per raccontare quello che è successo al lettore e non per perseguire i propri obiettivi. E tra l’altro non è che proprio si capisca quello che è successo: lui ha cercato di violentare Clara? Lei è venuta a scuola con una bomba? E ha appiccato un incendio? L’amica cos’era lì a fare? Mah.
Direi che di fondo c’è il problema già visto con altri dialoghi, ovvero: qual è lo scopo di lei nel parlare con lui? Qual è lo scopo di lui? Quali sono le basi del conflitto?
Non un brutto brano, ma un dialogo così così.
@pu*pazzo. In generale se senti il bisogno di spiegare qualcosa significa che non devi spiegarla. Se il personaggio ha un passato oscuro, emergerà da mille piccoli dettagli (ha paura di parlare con la polizia anche se è solo per un gatto scomparso, dorme con la pistola a portata di mano, per nessuna buona ragione è sempre pronto a traslocare, ecc.), ed è questo l’importante, non la guerra.
Il punto è la doppia identità (adesso rispettabile, prima criminale), non credo cambi tanto se invece di essere criminale di guerra era criminale comune. Se invece di uccidere le sue vittime in un campo di concentramento le uccideva nel suo lavoro di infermiere. Dunque non ti focalizzare su un dettaglio – la guerra –, ma sul punto centrale: la doppia identità. Poi, certo, va bene anche la guerra, ma non è vero che il lettore ha bisogno di informazioni sulla guerra, il lettore ha bisogno di vedere che il personaggio non si comporta come dovrebbe.
La magia: a meno che non sia il fulcro della storia, anche qui lascerei perdere di spiegare. Mostra quello che succede e stop. Le spiegazioni annoiano e non danno particolare credibilità.
30 gennaio 2011 alle 15:57
Padain Fain arriva nel villaggio dicendo che Logain si è proclamato Drago Rinato. E’ così contemporaneo che quando Rand si trova a Caemlyn, Logain è stato catturato da poco e viene condotto a palazzo per essere mostrato al popolo e alla regina.
Per quanto riguarda le distanze e i tempi penso sia un po’ come se a Milano scoppiasse una guerra e Emond’s Fields si trovasse in Sicilia. Giustamente in Sicilia si interessano.
A ben vedere, su Gesù hai ragione. Non l’avevo visto dal punto di vista della superstizione/religione.
Per quanto riguarda quell’infodump bisogna vedere cosa si intende per infodump. Io intendo una marea di informazioni (quasi sempre noiose) sul comportamento di un popolo/magia/macchina. Quattro pagine sulla storia dei Fiumi Gemelli sono decisamenti Infodump pesanti. Tu mi dici che sono servite a spronare gli abitanti dei FG, io dico che Robert Jordan si sarebbe potuto limitare a (volendo esagerare) una pagina di storia o a qualche altro stratagemma… Certo, bisogna considerare come vengono dipinti “testardi” e orgogliosi gli abitanti dei FG, ma se una che io considero strega e che sto per linciare venisse a spiegarmi che discendo dai Romani, popolo che ha governato il mondo, non cambierei mica idea.
Non so, ne abbiamo già un po’ discusso su Anobii da qualche parte su come considero pesante il primo libro e su come sia delineati male i personaggi e i cattivi.
Non sono d’accordo.
Io non so da che famiglia discendi tu e se hai nonni in vita a cui poter chiedere, ma la mia che ha 80 anni e faceva la contadina non ti saprebbe dire niente di Cesare perché quando lei era giovane doveva solo badare a sopravvivere. Le scuole le hanno insegnato solo a leggere (e lei era una di quelle fortunate, altre vicine di casa di 80-90 anni non sanno nemmeno fare questo).
Potrebbe certo parlarti di Mussolini (naturalmente positivamente “ah, quando c’era lui “un c’eranu tutti sti cosi cca. Una putia jjiri allu jummi a lavari i panni senza mu si spagnava ca cci hacianu ancuna cosa”… quando c’era lui non succedevano tutte ste cose, Una ragazza poteva andare a lavare i panni al fiume e non doveva aver paura d’essere stuprata.”) ma oltre ai treni che partivano in orario, saprebbe ben poco.
Si ma qui confondi, a mio parere, le informazioni che si danno al PG e quelle che si danno al lettore.
La famosa scena di Moiraine che infodumpa per tutte quelle pagine è importante per il lettore? No…si potrebbe spiegare a tappe in avanti con la storia. E’ importante per il PG? Forse. Ma siccome un libro si scrive in funzione del lettore e non del PG, tutto quello che al lettore non importa o deve essere eliminato o deve essere ridotto al minimo.
Comunque mi sa che siamo andati ampiamente OT.
LoL.
30 gennaio 2011 alle 14:13
Fate, fate pure. L’impero SIAE è già sulle vostre tracce. U_U (xD)
30 gennaio 2011 alle 13:50
Ma infatti, nelle Cronace della Ribellione di Robert il perché e il percome (il ratto di Lyanna) lo conoscono solo i Lord dell’epoca e i loro figli: per il popolino è solo stata “la guerra contro il Re pazzo Aerys”. Che è più o meno, nell’immaginario collettivo attuale, quello che è la WWII: “la guerra contro quel pazzo di Hitler”.
non esattamente: Padain Fain arriva nei Fiumi Gemelli e dice che, grosso modo, è un annetto che Logain s’è proclamato falso drago, e che le Aes Sedai gli stanno alle costole. Che è più come dire che in Senegal c’è al guerra civile e che le forze onu si stanno muovendo (LOL).
Con la differenza che i contadini di Emond’s Field la prendono molto sul serio e se ne preoccupano.
Mi trovo a dissentire. Nei fiumi gemelli di Arthur Hawking si sa solo il nome, delle guerre trolloc, la guerra delle dieci nazioni e via dicendo proprio nulla.
L’unica cosa che ricordano è che 2000 anni prima le Aes Sedai “praticarono un foro sulla prigione del Tenebroso e distrussero il mondo”: che è la base della loro religione. E’ come dire che tutti ricordano che Gesù Cristo è morto crocifisso per i nostri peccati [A PRESCINDERE che uno ci creda o meno: è solo un ESEMPIO!!]. E’ un elemento religioso, nessuno tranne gli studiosi sa cosa la Guerra dell’Ombra fu di preciso, molti neppure che ci fu.
Da qui la spiegazione di Moirane, che IMHO non è infodump: lei ha bisogno di motivare le persone e di fare un’immediata impressione su di loro per contrastare i Trolloc, creature mostruose alla cui esistenza nessuno crede: lo shock da superare è quindi fortissimo, e lei avendo valutato il carattere orgoglioso degli abitanti del luogo fa leva su loro presunte radici ancestrali ben sapendo che nominare i loro antenati li spronerà. E comunque non funziona con tutti (Mat, i Coplin, Buie ecc.).
Infatti è così che fanno o_O Sanno comunque che la guerra esiste e quant’altro (Mazrim Taim, La Guerra Aiel) ma in casa loro non è mai arrivata: infatti sono un popolo di agricoltori, pastori, commercianti, dalle scarse risorse locali e per questo curate particolarmente (vendono sulla qualità, non sulla quantità).
Sbagliato :) Per Poitiers è vero, ma l’esempio l’ho fatto sulle Termopili non a caso: con 300 di Miller sono rientrate nell’immaginario collettivo. Ma in generale, se immaginiamo una società meno moderna, già solo un secolo fa tutti sapevano che Cesare aveva sconfitto i Galli in francia: il fascismo puntava molto sulla glorificazione dell’impero romano. E’ abbastanza normale che in un certo regno vengano ricordate le imprese di guerra del passato: i Francesi ancora oggi ricordano Napoleone e le sue campagne, noi Mussolini (e ci sono pure i nostalgici), gli Inglesi la Guerra dei Cent’anni e via dicendo.
No, ma non ce n’è bisogno. Basta sapere che è esistita quella guerra. Io mi sono apposta tenuto molto sul vago, citando il solo Hitler. Erano spunti su come si potesse introdurli nella storia senza infodump. Oltre a Hitler e Mussolini tutti sanno delle camere a gas e degli ebrei (magari scordando i 5 milioni di negri, omosessuali ecc.). Come dire: se il suo problema è che il Maestro dell’Ottava Torre di Magia è così chiamato non perché di torri ce ne sono più di 5, ma perché si chiama Otto Von Kampf ed è un ex-SS :D non c’è bisogno di parlare, che so, dei bombardamenti di Dresda: bastano accenni a Hitler, gli Ebrei, il capo suicida e gli ufficiali che scappano in sudamerica. Informazioni MOLTO stringate, non un infodump di 3 pagine.
Stile Martin, e siamo d’accordo: ma a seconda della situazione non è detto che tu lo possa sempre fare – e dipende anche il COME farlo.
Sulla Guerra dell’Ombra di Jordan, che è al centro della religione locale, le cose funzionano come dici tu: per averne informazioni precise dovremo aspettare il IV libro e un “tuffo nel passato”; per il resto è allo stesso tempo un evento famoso ma banale perché arcinoto (parte del catechismo!). Nessuno ci chiacchiera sopra.
Ma ad esempio, quando Moirane deve spiegare del Manetheren, lì la “lezioncina” la deve tenere: i suoi ascoltatori sono più capre dei lettori! xD
E così in Martin: del Torneo della Falsa Primavera abbiamo solo accenni, di Sala dell’Estate quasi nulla, della Ribellione di Robert ci facciamo un’idea abbastanza precisa attraverso il PdV di molti che ci parteciparono o vissero all’epoca, o ne vennero toccati (Dany attraverso Viserys, Cat, Ned, Tyrion, Jaime più avanti…).
Però quando è il momento di parlare della Guerra dei Draghi (Targaryen contro Blackfire), Maestro Aemon deve spiegarla per sommi capi a Jon (o Sam? non ricordo bene), che ne sanno poco (e sono pure nobili istruiti!).
Quindi insomma, esistono le guerre antiche, e allora O sono arcinote (termopili, guerre rilevanti localmente es. Cent’anni in francia / inghilterra) O sono sconosciute, e in questo caso le devi giocoforza far spiegare da un sapiente a un ignorante. Però se all’inizio del libro questo si evita è meglio. Se poi è elemento centrale dell’ambientazione, tipo la Guerra dell’Ombra allora -> accenni -> e più avanti spiegazione.
Per quanto riguarda spiegare la Magia, l’idea di Alberello piace anche a me (te la frego! xD), in più ti consiglio di raccontare le sensazioni della magia attraverso i PG: Jordan, Hobb, Sanderson usano molto questa tecnica. Il PG si accorge che può vedere i flussi di potere, e wow, può muoverli con la forza della
gnoccamente!! Fantastico!In più puoi buttare un occhio a questi post, molto specifici sull’argomento.
30 gennaio 2011 alle 03:57
Non necessariamente. Prova ad usare un trucchetto tipico dei film in cui il protagonista sente sullo sfondo una radio o una televisione accesa o passando per strada uno strillone che vende giornali. In questo modo sia il personaggio che lo spettatore apprendono ciò che il regista vuole senza necessità di narratore.
Nel tuo mondo non c’è questo tipo di tecnologia? Non fa niente, potrebbe essere il sindaco, l’assessore, il tiranno, l’arcimago, barbapapà ecc. Chiunque detenga una sorta di potere sul resto della popolazione che ricorda quell’evento mentre il personaggio che ha il punto di vista sta passando in quel momento. Immagina l’azione dinamica, non statica. Oppure per esempio Genoveffa si alza quella mattina, apre la finestra per dare aria alla stanza ed ode questo.
In questo modo si scopre che nel tuo mondo esistono i coltelli, gli ombrelli ecc. Ma non è infodump, soprattutto se non metti tutto il messaggio ma lo fai arrivare piano e lo lasci sfumare come se il tizio stesse passando e non sia fermo sotto la finestra. Chi sente è Genoveffa, chi legge deve leggere ciò che lei sente. Metti l’indispensabile.
Oppure puoi fare il contrario, lei è per strada, uno apre la finestra e: Sorpresa!
Oppure passa e trova il manifesto della ricorrenza appeso ad una parete con scritto tipo: “Oggi, 4 pignembre, si ricorda ai cittadini che verranno celebrati i caduti della battaglia delle more. Pochi diedero la vita per la libertà di molti, non lasciamo che il loro gesto sia dimenticato.”
Insomma pensaci su, sono certo che qualcosa ti verrà in mente. :)
30 gennaio 2011 alle 03:14
ahh interessante quello del mago che sbaglia … è un ottima idea! la utilizzerò sicuramente!!
Quella della ricorrenza è un idea interessante … però anche li necessita di un certo infodumping … mumble mumble …
ps. no non ci sono elfi XD (neanche troll, orchi, goblin, nani, vampiri, angeli e draghi XD)
30 gennaio 2011 alle 03:07
il guardiano @ mi trovo abbastanza d’accordo con te, infatti ho eliminato molte delle informazioni su quella guerra che non servivano prettamente alla trama. In ogni caso, sempre per restare nel nostro mondo, la guerra in questione possiamo vederla un po’ come la seconda guerra mondiale per Israele …insomma abbastanza lontana ma comunque molto famosa perche ha cambiato totalmente il destino del paese.
gli altri dubbi che ho riguardano invece le informazioni sulla magia e sul suo funzionamento. Che ne dite? sono utili o no? io penso che lo siano, per evitare la sensazione di “posticcio” e di “è così perché si” tipica di alcuni fantasy …però non vorrei scadere nel manuale per giovani maghi ecco ;) (prima che me lo chiediate si, la famosa studentessa verrà istruita anche sulla magia, visto che lei non ne sa proprio nulla di nulla)
GRAZIE A TUTTI PER L’AIUTO, davvero :)
30 gennaio 2011 alle 02:56
@pu*pazzo
Andando per logica, secondo quanto hai scritto, la guerra non deve essere molto antica se il maestro di cui parli vi ha partecipato ed è ancora vivo. A meno che nel mondo che hai creato i suoi abitanti non vivano per molti anni (se hai usato gli elfi giuro che ti disconosco xD) o altre trovate.
Premesso questo, ti posso consigliare in ogni caso di usare come artifizio la ricorrenza. Decidi che in quel giorno nel tuo mondo si ricorda la fine della guerra in questione o un evento significativo di quel periodo. Sia per motivi di gioia, come può essere la festa del 4 luglio, l’indipendenza per gli americani o per motivi di mestizia, come può essere il 27 gennaio, la giornata della memoria per diverse nazioni europee. Questo dipende molto dal tipo di guerra che hai pensato, da quanto è stata cruenta, dalle conseguenze geopolitiche che ha avuto, se i tuoi protagonisti sono i vincitori o gli sconfitti, la loro filosofia riguardo la guerra (Tipo: «Non esistono grandi guerrieri. La guerra nessuno grande fa» Yoda). Ci sono alcune popolazioni che dopo aver conosciuto l’orrore della guerra non ne vogliono più sentir parlare, altre che ormai ci sono abituate come fosse l’aria ed altre ancora che la cercano a tutti i costi.
A questo punto mostri ciò nell’ambiente in cui svolgi la vicenda. Il capo della nazione che tiene un discorso mentre la tua allieva passa per la piazza, oppure festeggiamenti di altro tipo. In questo modo hai un motivo per il quale poi il maestro abbia un’aria contrita o mostri nervosismo, visto che questo giorno gli ricorda sempre il suo oscuro passato. Potresti far chiedere all’allieva il perché di quella tensione al che potresti lasciar rispondere un semplice: “Non preoccuparti, non è niente…” Quando è chiaro che invece è qualcosa di importante, ma il lettore non lo sa però se lo scrivi bene si incuriosisce e lo tieni legato a te almeno finché non lo scoprirà. Ti consiglio la visione del film Seven Swords. Uno dei personaggi principali è un maestro di arti marziali che tiene celata la sua identità inizialmente in quanto era un torturatore per la precedente dinastia (ALLARME CLICHÉ!!! Scherzo xD).
Per quanto riguarda il sistema fisico della magia, potresti sfruttare la dabbenaggine di un altro mago o allievo o chiunque usi la magia. Esempio, fai passare il maestro per il giardino e si vede un mago che sta usando un incantesimo in un determinato modo, sbagliando. Al che interviene il maestro spiegando poi al tizio anche il perché abbia sbagliato introducendo le regole che tu hai stabilito. Oppure fai sbagliare il maestro per distrazione o per volontà nascosta (dipende dal tipo di pedagogia che hai scelto di fargli applicare).
L’apprendimento per prove ed errori è da sempre il più efficace metodo per insegnare qualcosa, sia per il mago in questione che per il lettore stesso.
“E’ sorprendente vedere come gli studenti possano perdere una parte della loro paura di sbagliare, profondamente radicata in loro, quando si trovano con un insegnante che non chiede loro di essere nel giusto, ma soltanto di unirsi a lui nella ricerca dell’errore: del suo come del proprio” (Neil Postman, 1981)
Non sono leggi assolute quelle che ho scritto, solo consigli che mi sono sentito di darti sui pochi dati che hai fornito, ovviamente sei libero di scrivere ciò che più ti aggrada. ^^
30 gennaio 2011 alle 00:29
La Ribellione ne “le cronache del ghiaccio e del fuoco” è un evento più recente della WWII…è tipo 20 anni prima, nemmeno una generazione. Una guerra così recente non può non avere strascichi. Già una guerra di 60-70 anni prima (come la WWII), in una società dove l’istruzione è inesistente, è abbastanza nebulosa. Il popolo saprà (si ricorderà) soltanto che i tedeschi sono dei crucchi, i francesi c’hanno rubato la monnalisa, i russi sono comunisti e gli americani bombardarono i civili assieme agli inglesi.
Il Falso Drago Logain in “la ruota del tempo” era contemporaneo alla storia narrata. Logain si proclamava Drago Rinato all’inizio del libro e a fine libro già era catturato se non sbaglio.
Visto che parliamo de La Ruota del Tempo, dico solo due cose:
La prima è che IO non riesco a mandar giù il fatto che guerre successe 600-700 o 2000 anni prima siano così recenti nell’immaginario collettivo. E’ una scemenza, soprattutto se negli ultimi 200 (400?) anni nei Fiumi Gemelli non ci sono stati conflitti conflitti; la gente tenderebbe a dimenticare la guerra e vivere nell’abbondanza o comunque nel miglioramento della qualità della vita dovuto alla mancanza di conflitto.
La seconda è questo Infodump pesantissimo, un esempio da evitare. Un modo per dire “guardate che bravo scrittore sono, ho inventato un intero mondo con tutta la sua storia!” (lo metto in spoiler perché è abbastanza lungo):
Mostra spoiler ▼
Tornando al discorso di prima, Poitiers non è più “da storici” rispetto alle Termopili, eppure non sono argomenti che rientrano nella “giornata tipo” di due persone non addette ai lavori.
Quando ti è capitato di parlare delle Termopili o Poitiers, se non perché giusto in quel momento stavano passando un documentario alla TV?
E oltre a Hitler e Mussolini, l’italiano medio conosce altri “eroi” dell’epoca? Eichmann, Himmler, Borghese, Galeazzo Ciano sono solo dei grandi punti interrogativi. Quasi non saprebbero chi è stato Salvo D’Acquisto se non c’avessero fatto un film.
Non so, forse è una questione di gusti personali, ma a me le storie delle grandi battaglie non piacciono, soprattutto in una dose massiccia. A volte preferisco che i PG ne parlino tra di loro come se a loro fosse noto tutto, come se fosse la banalità più banale del mondo e far rimanere il lettore smarrito, salvo poi capire qualcosa qualche riga dopo che spiattellare tutto in una volta sola e dargli un pugno in un occhio.
29 gennaio 2011 alle 17:22
Se hai già tagliato tutto il tagliabile…
bè, partiamo dall’inizio: guerra recente (es. WWII) o guerra antica (es. Poitiers)?
Evento noto perlopiù agli studiosi (Poitiers) o a chiunque (WWII)?
Se è recente e noto a tutti (WWII) non serve parlarne: i PG ne parleranno spesso, come di cosa nota. Ci saranno battutine in merito (la sai quella di Hitler e il pagliaccio?), modi di dire (“malvagio come hitler”), riferimenti anche cittadini (sì, questo palazzo è stato tirato già dai bombardamenti). Es. La Ribellione di Robert ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.
Se è recente e noto a pochi (es. guerra civile in africa) un buon modo per proporlo potrebbe essere far incotrare al PG un attivista per i diritti umani o un mercante di passaggio o giù di lì. Quello lo riempie di spam e il lettore pure. Es. il Falso Drago Logain ne La Ruota del Tempo (I libro).
Se è antico e noto a tutti (es. le Termopili) due amici potrebbero veramente parlarne nei toni di cui parlava Il Guardiano, cioè tipo “se i persiani avessero vinto, a quest’ora saremmo tutti induisti e la civiltà occidentale non sarebbe mai esistita!”. Non è una cosa così strana. Es. La Guerra dell’Ombra, sempre ne La Ruota del Tempo.
Se è antico e noto a pochi… taglialo :P Verrà fuori quando sarà il momento, semmai lascia qualche indizio sparso qua e là. In generale è qualcosa che il PG NON E’ tenuto a sapere, e quindi nemmeno il lettore. Es. la I Ribellione Angelica in Queste Oscure Materie.
29 gennaio 2011 alle 16:39
beh per riportarlo nel mondo nostro è come se il tuo professore universitario fosse un ex criminale di guerra che ha cambiato identità….
insomma è parte importantissima della trama ^^’
sto cercando come ho gia detto di eliminare tutte le info inutili e di centellinare, dosandole un po per volta, quelle utili ma non troppo …ma le info basilari per la trama non posso toglierle…altrimenti il lettore non capisce piu niente… o no? :/ il punto non è come toglierle ma come metterle senza scadere nel infodumping o nel posticcio :((
29 gennaio 2011 alle 16:30
Ma quanto è stata importante questa guerra?
Oggi continuaiamo a pensare a cosa sarebbe potuto accadere se carlo martello (giusto per dire qualche cosa) avesse perso la battaglia di poitiers? No…
E se Hitler avesse vinto la sua guerra? Si, ma abbastanza superficialmente…già ora non gliene frega quasi niente a nessuno.
Eppure (così mi dissero alle superiori, di storia non ne capisco granché) sono 2 eventi che avrebbero potuto cambiare il mondo.
Spesso nei fantasy ci sono guerre e battaglie di centinaia di anni prima che se perse (o vinte) sarebbe cambiato l’intero destino del mondo ma che possono interessare il lettore solo marginalmente, giusto per capire in che mondo vivono i personaggi mentre al lettore non gliene può fregare di meno di chi ha vinto quale guerra, se questa guerra non ha risvolti immediati.
Il problema, e lo vedo anche con “grandi” scrittori come Robert Jordan o Tolkien è che sono troppo innamorati del mondo e della storia che hanno costruito; da una parte gli dispiace non mettere in mostra tutto quello che hanno fatto, dall’altra pensano che tutto sia interessante; e si sbrodolano con infodump o discussioni storiche inutili (quando potrebbero rimanere all’essenziale).
Se poi alcune parti della guerra sono davvero importanti, preferisco – da lettore – che mi vengano mostrate un po’ per volta anche perché le divagazioni storiche tendono a essere dimenticate già il rigo dopo averle lette. Meglio dosarle.
29 gennaio 2011 alle 15:45
heeem ci provo … allora le info d dare sono varie …è un fantasy ambientato in un mondo diverso dal nostro perciò gia questo impone un minimo di spiegazioni. Ad esempio si deve scoprire piu avanti che il tutore in questione ha fatto determinate cose (inaspettate) durante la famosa guerra. Perciò il lettore prima di arrivare a scoprire questo deve almeno sapere che c’è stata una grande guerra, e, piu o meno come è finita…anche a grandi linee via!
altra informazione : come funziona la magia. Non mi piacciono i fantasy dove la magia esiste e basta. Mi piace dargli un minimo di senso, di fisica ecco. Anche qui sfrutto il dialogo allievo-studentessa. Ma non mi piace abusarne.
le info da dare sono moltissime … dovrei trascrivere tutto il libro XD
Non utilizzando quasi mai (e sto lavorando per togliere anche quel quasi) il narratore onniscente ma dovendo comunque consentire al lettore di capire gli ingranaggi di un mondo abbastanza complicato mi trovo in difficolta! non so spiegarmi meglio mi spiace :(
29 gennaio 2011 alle 11:52
@Pupazzo: puoi spiegarti un po’ meglio? tipo, perché quegli elementi sono importanti per la storia?
29 gennaio 2011 alle 10:57
Arrivo tardi, ma arrivo.
Nota: ho scritto fin troppo perchè, lo ammetto, mi sono fatto prendere più dalla storia che dall’esercizio. Chiedo scusa in anticipo. Se non volete leggere quanto segue (e questo vale anche per Gamberetta, ovviamente) non siete obbligati.
Procedo a piccoli passi, un braccio teso e la mano a palpare il muro, così da trovare la strada. C’è buio qui dentro, un buio che non mi sarei mai aspettata.
L’ultima volta era diverso. C’era luce, tanta…
I piedi strisciano sul pavimento lercio. Ogni tanto rischio di inciampare in qualche mattonella rotta, o sui grossi cavi che un po’ pendono dal soffitto un po’ giacciono dormienti a terra, come serpenti in una giungla. Le pareti hanno perso l’intonaco in più punti, vetri e cocci scricchiolano sotto le mie scarpe.
Era diverso. Un tempo non era così.
FinalmenteDopo l’ennesima curva, arrivo in quella parte del corridoio dotata di finestre: l’arancione del sole al tramonto colora in parte l’ambiente, mi permette di distinguere i profili dei calcinacci, le maniglie sferiche delle porte. Giocando con l’oscurità disegna nuove ombre, la mia e quella delle varie macerie che mi circondano.Avanti, vai.
Allungo una mano, la stessa che prima era appoggiata al muro, verso la porta. E’ aperta, basterebbe una piccola spinta per spalancarla, ma mi trattengo. La paura è troppa.
“Non credevo saresti venuta, Clara.”
Riconosco la voce. Sapevo di trovarlo qui. Mi volto e lo vedo: per metà bagnato dalla luce del sole, per metà avvolto dalle tenebre. Mi sorride.
“Sono per me quelle?” Indica il mazzo di rose che tengo stretto nell’altra mano. Rose rosse. “Solitamente è il ragazzo che regala i fiori, non il contrario.”
La sua voce è così calma, a tratti ironica. Proprio come un tempo.
Scuoto la testa. I fiori non sono per lui, e lui lo sa.
Fa un passo in avanti, verso di me. La maglietta che indossa è quella dell’ultima volta, a mezze maniche, stretta, che mette in risalto i suoi muscoli. Il viso è squadrato, il mento marcato, il naso piatto.
“Ti sono sempre piaciuto, Clara.” Dice lui, come mi avesse letto nella mente. “Mi morivi dietro fin dalla prima volta che mi hai visto. Come fanno tutte le ragazze, del resto.” Il suo sorriso si amplia ancora di più.
Distolgo lo sguardo. “Vattene,” bisbiglio.
Lui mi ignora.
“Hai indossato la vecchia uniforme scolastica. Mi piacevi tanto con quella gonna lunga…”
No, no. Non voglio. Lasciami andare… ti prego lasciami andare…
“Vattene.” Più forte questa volta.
Mi fai male, ti prego, mi fai male. Io ti amo, io ti amo, io ti…
“… e ancora di più mi piacevi senza.”
“Ho detto vattene!”
Lui ride. E’ lo stesso riso di quella volta.
“Anche allora urlavi così, Clara. Supplicavi che ti lasciassi andare, cercavi di graffiarmi, gridavi ti amo. Oh com’eri bella in quel momento. La tua paura.” Si passa la lingua sulle labbra, passa con gli occhi in rassegna tutte le curve del mio corpo. Si sofferma sui seni, scende fino alle gambe. “La tua paura mi eccitava, Clara. Mi eccitava non sai quanto.”
“Bastardo!” Senza accorgermene inizio a piangere, non so se per la rabbia o per la vergogna.
“Te lo ricordi ancora, vero? Era il tramonto, proprio come adesso, ma queste finestre erano ancora integre, i muri della scuola pieni di poster. C’eravamo solo noi due.”
Non è vero, c’era anche lei. Mi aveva accompagnato all’appuntamento, si era intrufolata nella scuola con me. L’aveva fatto perchè avevo paura, per tenermi compagnia finchè non arrivava lui.
“Doveva essere gelido il banco, vero? Quando ti ho sollevata e ti ci ho sbattuta sopra hai mandato un grido: era per il dolore o per via della schiena nuda? Dio, quanto mi eccitavi.”
“Smettila, assassino!”
Il sorriso gli muore sulle labbra, sostituito dalla rabbia. Avanza ancora, scavalca uno scatolone, arriva a pochi centimetri da me. Metà del suo corpo è ancora in ombra; anche se è vicino non riesco comunque a vederla. Riesco però a sentire il suo odore: sudore misto a qualcosa che non riesco a riconoscere, qualcosa che però ho già sentito, che mi disgusta e mi dà la nausea.
“Stupida. Non sono io l’assassino, e tu lo sai.”
“E’ stata colpa tua! Solo colpa tua!” Le lacrime continuano a scendere. Provo a trattenermi, ma è inutile.
“L’hai uccisa te, Clara.” Nella sua voce è tornato lo scherno.
“Io non sapevo fosse lì, credevo se ne fosse andata dopo avermi accompagnato. Non è stata colpa mia, non volevo. Non volevo!”
“Non volevi? Sei stata tu a fuggire in aula di chimica.”
“Io…” La mia mente fatica a ragionare. Il suo odore è sempre più forte, fatico a trattenere i conati. “Io scappavo da te…”
“Sei stata tu a preparare quell’esplosivo.”
“No… Io…” In quel momento realizzo che cosa sia quell’odore: è carne, carne che brucia.
“Tu hai bruciato mezza scuola, tu hai appiccato l’incendio che ci ha uccisi, a me e alla tua amica nascosta nell’armadietto. Sei tu l’assassina, Clara. Non io.”
Lui si gira, così da mostrarmi la parte del suo corpo fino allora rimasta in ombra. E’ una massa rossastra e marrone, informe, sollevata in bubboni e creste nerastre. Dalla testa si staccano brandelli di carne, il sangue gocciola fino a terra a formare un lago scuro. Il teschio appare sotto lo scalpo, l’orbita è vuota e dalla cavità cola un liquido giallognolo. Il lato della bocca è piegato in un ghigno.
“E adesso porti quei fiori alla tua amica? Credi che ti perdonerà per averla uccisa?” Alza la voce e allunga lo scheletro della mano sulla mia guancia. Rabbrividisco ma non mi sposto, non ci riesco.
Lui mi tocca, accarezza il mio volto. Qualcosa di viscido e molliccio mi scende fin sul collo.
“Tu ci hai ucciso, Clara. Tu ci hai ucciso.”
Chiudo gli occhi e mi abbandono a terra. Piango, piango finchè il sole non scompare del tutto e vado avanti anche dopo che è già sorta la luna. Soltanto allora mi rialzo. Il fantasma se ne è andato, ma so che prima o poi tornerà.
Mi volto verso la porta socchiusa. E’ lì dentro che è successo tutto, lì che è morta Lucia. Se aprissi la porta mi troverei davanti anche lei, e dovrei affrontarla. Ma non ho il coraggio, non posso. Getto i fiori sull’ingresso e fuggo. Corro nelle tenebre, inciampo nei cavi sparsi al suolo, sulle mattonelle rotte. Mi ferisco coi vetri, sbatto contro le pareti annerite dal fumo. E’ tutto inutile: il dolore che sento dentro non passa.
28 gennaio 2011 alle 23:55
ecco il solito pu*pazzo … aiuto ç_ç
nei primi capitoli del mio libro ho necessità di spiegare alcune informazioni fondamentali per capire la trama. ho gia eliminato quelle “non indispensabili” tramite faticosa cesellatura in questi giorni! Però appunto mi rimane parecchia roba da spiegare.
Ora volendo evitare come la peste l’infodumping avevo pensato fin dall’inizio di impostare la cosa come dialogo.
cominciamo dal primo capitolo:
scena classica allieva-tutore. Lui interroga la studentessa sulla storia di una certa guerra passata (utile appunto al lettore) Può essere valido? meglio che la ragazza risponda con un lungo insieme di periodi, esaurendo cosi la mia necessità di informare in una sola botta/risposta o è meglio molte domande con risposte brevi? il primo caso non fa tanto infodumping rozzamente celato ? e il secondo non fa interrogatorio della questura? help!! ç__ç
28 gennaio 2011 alle 20:43
Visto che AllChars è un progetto un po’ morto, segnalo UniChars; ancora in fase di sviluppo, ma già molto valido.
3 gennaio 2011 alle 20:12
Sì, il trattino lo conosco. Però in romanzi italiani non l’ho mai trovato e non vorrei che fosse visto in modo negativo da un editor o comunque da una casa editrice.
Comunque, grazie ^_^
3 gennaio 2011 alle 20:03
@Aldebaran. Sì, lì i puntini di sospensione si possono usare, anche se per le parole troncate preferisco usare il trattino come fanno gli inglesi:
Quando usare i puntini di sospensione? Quando c’è una pausa. Ma d’altra parte se “mostri” la pausa è più interessante. Perciò i puntini di sospensione sono alla stregua degli avverbi: meno li usi, meglio è.
3 gennaio 2011 alle 13:28
Ma se ci fosse una parola spezzata?
«Che le prende, maestro? È trop…» non fece in tempo a finire che lui la colpì con un pugno.
In questo caso si possono usare i puntini di sospensione?
Se no, cosa allora?
28 dicembre 2010 alle 21:11
@Gamberetta
ops, in effetti mi ero troppo concentrata sulla scena, come hai detto tu…
nella mia mente bacata Cassandra era stata mandata da Ludwig per uccidere Kyle e quindi essere iniziata alla confraternita dei Reali, della quale suo fratello è a capo. Lei non vuole ucciderlo, quindi in teoria (cosa che avrei dovuto mostrare nei dialoghi) Cassandra avrebbe dovuto cercare di far capire a Kyle che le dispiace e che non vuole ucciderlo, magari cercando di avvertirlo in tempo prima che il fratello arrivasse e fosse troppo tardi.
Ad esempio avrei potuto scrivere:
Cassandra sussurrò «Io non voglio farlo, m-ma lui… sta arrivando…»
«Cosa? Non ti capisco, parla più forte.»
«Se scappi io… resterò pulita… ti prego, scappa!»
Kyle sgranò gli occhi «Ma da cosa? Non capisco quello che dici!»
Lei iniziò a tremare «H-ho troppa paura…» e si mise a piangere.
E da lì la parte della lacrima e della cravatta.
Ovviamente (sempre nella mia mente bacata) Kyle cerca di comprendere i “farneticamenti” di Cassandra, ma ci arriva troppo tardi.
Ahimè (gioia e champagne), muore.
Grazie mille per le dritte, ti sono molto riconoscente! Chissà, forse questa demente riuscirà a scrivere qualcosa di buono prima o poi… intanto: bisogna farsi il culo! (scusa l’espressione poco ortodossa)
27 dicembre 2010 alle 19:14
Sono seduto sul bordo del letto malandato. Fisso l’orologio sopra la porta. Le quattro meno cinque. Sta tardando.
Tamburello con le dita sul materasso, senza produrre alcun suono. La porta si spalanca.
- Ciao, Rudolph – dice Florence.
Sorrido appena. – Eccoti, finalmente! Pensavo non saresti più venuta.
- Oh, scusami. – E’ diventata tutta rossa. – Sai com’è. La profa mi ha messo in punizione e…
- O forse non vuoi più venire da un povero vecchio barbone come me.
- Non dire sciocchezze. Come gli scout ho preso un impegno che manterrò.
Mi stringo sulle spalle.
- Vieni, siediti.
Come al solito, sembra un po’ disgustata da quelle lenzuola luride. Il suo sguardo corre alla fonte dello squittio che ha sentito. Un topo appare per un attimo, poi sparisce in uno dei molteplici buchi.
- Dovresti trovarti una sistemazione – mi ammonisce.
- Io sto bene qui. – Mi arriccio la barba incolta con la mano.
- Non dire sciocchezze. Non affittiamo più l’appartamento vecchio agli immigrati da quando non hanno incominciato col subaffitto. Non ci costa niente darti un posto dove stare.
- Sono vissuto in questa topaia. Non me ne andrei mai da qui. E poi ora sto meglio di prima. – Le sorrido. – Almeno ho sempre un pasto caldo.
Il suo volto si illumina. – A proposito, ti ho portato delle rose.
Le prendo in mano.
- Hanno un buon odore.
Mi alzo e le sistemo in un vaso.
- Rudolph, non mi sembra una buona idea metterle lì. – dice Florence. – Si seccheranno.
- E che importanza ha? La vita finisce, prima o poi. Non per questo la sprechiamo a cercare la formula dell’immortalità.
- Forse hai ragione – ammette.
- Sei giovane, devi ancora fare tanta esperienza…
- Di certo non sprecherò la mia vita in una scuola diroccata.
Mi guarda, sollevando un sopracciglio.
Io le sorrido tristemente.
26 dicembre 2010 alle 23:23
@Rachele. Non saprei, non c’è molto dialogo: lui dice qualche frase di circostanza, lei balbetta, e più o meno è tutto. La scena in sé con la sua conclusione cruenta non è neanche male, è scritta decentemente, ma come dialogo non ci siamo molto.
Qual è lo scopo di lui nel parlare con lei? Quale obiettivo vuole raggiungere?
E lei? Parla con lui, perché?
Un nota tecnica: come detto nell’articolo, va bene eliminare i dialogue tag, però deve essere chiaro chi parla. E qui non sempre lo è. Esempio:
Nella prima frase il soggetto è la ragazza, perciò instintivamente pensiamo che la battuta successiva sia sua. Invece no. Certo, con il ragionamento il lettore ci arriva, ma se il lettore deve ragione non è un buon segno.
Qui lo stesso: ok, è facile capire che se lei ha nascosto il viso tra i fiori forse non è lei a ridere, ma perché costringere alla deduzione? Metti il soggetto del ridere.
Idem come sopra. Nota poi che se un lettore non ha visto l’immagine (e devi partire dal presupposto che non l’ha vista), non è chiaro che la cravatta rossa sia di lei.
24 dicembre 2010 alle 21:52
Kyle si sedette in un angolo. Sopra di lui le stelle brillavano oltre le travi scoperte del capannone in rovina.
Una folata di vento gli scompigliò i capelli; si strinse nella giacca a vento.
Davanti a lui apparve una ragazza. Era bassa, minuta e in mano teneva un mazzo di rose.
La ragazza rimase ferma a fissarlo, mentre lui si grattava il capo e arrossiva.
«Ehm… serve qualcosa?»
Non rispose.
Kyle mise le mani a coppa e ci alitò dentro, sfregò le braccia e si alzò appoggiandosi al muro.
Mi sa che è meglio se mi cerco un altro nascondiglio…
La superò, ma lei gli prese un angolo della giacca e lo trattenne.
Aveva la testa chinata, la lunga frangia le copriva gli occhi.
«Qualche problema?»
«Io…»
«Hm?»
«Io…» ripetè con voce flebile.
Kyle aggrottò le ciglia e si abbassò all’altezza di lei. «Ti sei persa? Hai bisogno di un aiuto?»
La ragazza nascose il viso nel mazzo di fiori.
«Ehi!» rise «Non essere timida, non ti mangio mica!»
Kyle le mise le mani sopra le spalle e accarezzò le maniche della camicia bianca.
Sorrise. «Una studentessa non dovrebbe aggirarsi di notte in luoghi pericolosi come questo.»
Lei mollò la giacca a vento di Kyle e prese a giocare con una fune che pendeva da una delle travi.
Come ti chiami ragazzina?
«Cassandra.»
«Cosa ci fai qui tutta sola? E il mazzo di rose?»
Scuotè la testa, il cappellino bordeaux in tinta con la divisa scolastica cadde e lei iniziò a singhiozzare.
«Mi… mi spiace.»
Kyle raccolse il cappellino e glielo porse «Di cosa?»
Un baluginio in mezzo alle rose.
«Io… ma il fratellone…» Una lacrima le solcò il viso.
Kyle le scostò i capelli dagli occhi. «Ehi… tranquilla… vuoi che ti porti a casa dalla mamma? Però… però devi aspettare. Dei brutti ceffi mi stanno cercando. Appena sarà il caso abbandoneremo l’edificio, tu tornerai a casa e io cercherò un altro luogo dove nascondermi.»
Cassandra iniziò a tremare e pianse.
«No! Non fare così… ehi! Dai…»
Ecco, oltre a fuggire da quei dannati Reali mi tocca pure fare da babysitter.
«Ehi… non piangere. Su, un sorriso.»
Una lacrima cadde sulla cravatta rossa.
«Non piangere, o rovinerai il-»
Sulla cravatta era stata cucita in oro una corona.
«Il… f-fratellone ha detto che…»
«Il fratellone ha detto che anche la sorellina deve far parte dei Reali.»
Kyle si girò. Ludwig e i suoi scagnozzi comparvero dal corridoio alla sua sinistra. Erano in cinque.
Cazzo!
«Ludwig, posso spiegare. Restituirò tutto, interessi compresi, ma devi darmi tempo.»
«Sono stufo di sentire la stessa stronzata da due mesi. Cassandra!»
Una lama penetrò il fianco di Kyle da dietro. Sulla maglia comparve una macchia scura di sangue che andava via via allargandosi.
Ruotò il capo.
Tutte le rose erano cadute e Cassandra teneva in mano un lungo pugnale affilato sporco del suo sangue.
Kyle cadde a terra, il cappellino della ragazza ancora in mano.
Sbattè la testa, la vista si offuscò e tutto diventò buio.
«Ucciso… stata iniziata… dei nostri…»
11 dicembre 2010 alle 09:31
@Gamberetta
Sul POV avevo parecchi dubbi, in effetti.
Grazie mille per le note.
11 dicembre 2010 alle 01:29
@Mario Falco. Non funziona molto come buon dialogo. Come spiegato, se vuoi costruire un buon dialogo devi mettere due personaggi con obiettivi opposti. Qui invece non è così. Reiko non intende far smettere a Stephenie di scrivere attraverso il dialogo. La violenza va bene, ma come ultimo anello della catena, come parte conclusiva del dialogo. Se due discutono amabilmente del più e del meno e poi all’improvviso il primo personaggio spara al secondo, non è stato un buon dialogo. La sparatoria dev’essere la diretta conseguenza del dialogo.
Parlando più in generale, il punto di vista non è gestito bene. È meglio se durante una scena tieni il punto di vista di un solo personaggio.
Qui il pdv è di Reiko (perché se sei Stephenie lo sai bene di avere un accento americano).
Qui il pdv passa a Stephenie (perché chiama l’altra giapponese).
Qui il pdv torna a Reiko (perché se Stephenie cammina davanti è improbabile che si accorga dei problemi alla gonna di Reiko, e comunque non penserebbe a sé come “studentessa straniera”).
Qui il pdv passa a Stephanie (perché Reiko di spalle non può vederle i canini, notare che ho dovuto rilegge il brano più volte prima di capire che i canini spuntavano a Stephenie).
Ora, puoi anche decidere che vuoi usare il punto di vista del narratore e in questo caso va bene così (aggiustando i passaggi più ambigui, come l’ultimo sui canini): non entri mai nella testa dei personaggi, riprendi solo in maniera neutra quello che succede. Però se riesci a offrire al lettore un avatar con il quale identificarsi di solito è meglio. Perciò se scegli un solo personaggio e rimani su di lui dall’inizio alla fine viene un brano più di impatto.
10 dicembre 2010 alle 18:05
@Mauro
Grazie per la segnalazione, mi era sfuggita. Mi eserciterò a inserire il “padding” senza spezzare la fluidità.
10 dicembre 2010 alle 17:36
Mario Falco:
In caso non l’avessi ancora letta, qui c’è la risposta per il “lentamente” nel caso del mio esercizio.
10 dicembre 2010 alle 11:10
Ho qualche difficoltà a fare a meno degli avverbi quando devo “rendere” un’azione fluida. Infatti mentre le scene concitate vengono discretamente (con frasi brevi e secche) l’effetto opposto (cercato attraverso parole lunghe, virgole e congiunzioni) mi piace molto meno. Senza usare un “lentamente” o un “delicatamente” mi sembra di non riuscire a comunicare la stessa cosa.
Fluido, deliberato, con gusto:
Rapido, impulsivo, rabbioso:
Esempio un po’ farlocco, scusate. Suggerimenti?
10 dicembre 2010 alle 01:09
@Hammurabi.
Tieni conto che nella narrazione – ovvero battute dei dialoghi esclusi – gli avverbi sono un’eccezione. Nel senso che sono necessari una volta in 500 pagine o giù di lì. Dunque se li togli tutti va bene.
Come spiegato nell’articolo sul mostrare, se non ci sono appigli concreti, le parole non hanno impatto. Se tu dici:
E
Dici la stessa-identica-cosa. Non lo hai reso più stupido. Per renderlo più stupido devi scrivere:
Lo stesso vale per tutti gli avverbi. Ora, non riesci a “dare concretezza” all’avverbio? Toglilo. Senza remore.
10 dicembre 2010 alle 00:22
Ecco il mio compito sul dialogo. Scusa la lunghezza.
—
- Non avresti dovuto seguirmi!
- Senpai… – Reiko abbassò gli occhi velati di lacrime, cullando un mazzo di rose rosse.
- Questo posto è pericoloso, io sono pericolosa! – urlò Stephenie tradendo l’accento americano.
Si avvicinò alla giapponese: svettava di un buon palmo, ma Reiko non indietreggiò.
- Questi sono per te. – disse Reiko sollevando i fiori.
Lo sguardo di Stephenie si fece meno duro e si posò sulle rose.
- Perché?
Reiko arrossì e senza alzare lo sguardo sussurrò: – Perché io ti amo.
Stephenie si guardò intorno. Di là del muro mezzo crollato un uomo le stava osservando senza smettere di camminare, poi rivolse lo sguardo nuovamente dritto di fronte a sé e si allontanò.
- Vieni con me, qui siamo troppo vicine alla strada.
Stephenie si inoltrò nel vicolo. Scavalcò un blocco di cemento da cui spuntavano tondini di ferro arrugginiti e contorti.
Reiko la seguì. La gonna le si impigliò. Si fermò per sganciare l’orlo. Guardò i jeans della studentessa straniera. Si morse il labbro inferiore.
Salirono molte rampe di scale. Reiko riprese fiato mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità.
Stephenie aveva in mano una catena e un lucchetto. Di fronte a sé una porta aperta.
Con un cenno del capo invitò Reiko a entrare.
Un materasso in un angolo, una finestra chiusa con assi inchiodate, quattro sedie, un tavolo.
- Questa è la mia tana. Qui vengo quando voglio stare da sola. O da sola con qualcuno.
Reiko annuì con un accenno di sorriso sulle labbra.
- C’è silenzio – continuò Stephenie – e nessuno viene mai a disturbare.
Chiuse la porta con la catena e agganciò il lucchetto.
- Qui possiamo fare quello che vogliamo – continuò, sempre dando le spalle a Reiko.
I suoi canini appuntiti spuntavano in un sorriso sadico, si passò la lingua sulle labbra.
- Era esattamente quello che speravo – disse Reiko, il tono improvvisamente sicuro.
Stephenie si voltò giusto in tempo per ricevere il mazzo di rose in piena faccia.
Indietreggiò urlando, le mani le coprivano il viso.
Quando le abbassò una serie di graffi cremisi le traversavano la fronte e le guance.
I canini sfoderati sulle labbra contorte, gli occhi due fessure.
- Cosa cazzo… mi hai fatto male!
- E questo è solo l’inizio – soggiunse Reiko, un angolo della bocca sollevato in un ghigno.
Stephenie iniziò a piagnucolare: – Mi hai fatto tanto male. Ma perché? Cosa accidenti ti ha preso? Un secondo fa ti scioglievi per me!
Reiko si avvicinò brandendo il mazzo di rose. Molti petali si erano staccati e ornavano il pavimento polveroso.
- Perché? Sei ancora più ottusa di quello che pensassi! Non ci arrivi da sola?
Stephenie scosse il capo, indietreggiando. Singhiozzava e tremava.
- La tua stessa esistenza è un sacrilegio, – Reiko continuò ad avanzare – la terra che calpesti è inquinata, l’aria che respiri putrida.
- Io so-sono qu-quella ch-che sono. I va-vampiri no-non sono malva-
- Ma quale vampiro e vampiro! Tu sei solo una troietta metrosessuale con le protesi sui canini. Il crimine efferato a cui mi riferisco è il tuo libro: CREPUSCOLO!
Stephenie arrivò con le spalle al muro. I suoi singhiozzi erano diventati convulsioni. Scivolò lungo la parete fino a terra e svenne.
***
Stephenie si risvegliò bagnata. Era bloccata a una delle sedie con diversi giri di cavo elettrico di cui una lunga crepa nel muro testimoniava la provenienza. Reiko era in piedi di fronte a lei, un barattolo vuoto in mano.
- Bentornata tra noi.
- Cosa vuoi da me? Perché mi fai questo?
Stephenie guardò Reiko gettare in un angolo il barattolo.
- Dove hai preso l’acqua? – le chiese – Qui non c’è l’acqua corrente!
Reiko stava esaminando una sedia. Rispose senza voltarsi:
- E chi ti dice che fosse acqua?
Il significato di quella frase non arrivò immediatamente a Stephenie.
Quando lo fece il suo volto si contrasse in una smorfia: – Ma è disgustoso! Tu sei una pazza furiosa, lasciami andare subito!
- Ah no, non finché non avremo finito la lezione.
- Lezione?
- Già. Lezione dal titolo “Sono una cagna e ora che lo so non scriverò mai più niente in vita mia, nemmeno la lista della spesa”.
- Lasciami andare subito! Io sono un’ospite, in questo paese! Il consolato americano farà un casino!
Reiko guardò attraverso una fessura tra le assi della finestra. C’era una bella vista sulle luci di Tokyo.
- Il mio paese, visto che osi nominarlo, ha contribuito in maniera rilevante a formare l’immaginario collettivo contemporaneo in quasi tutte le forme artistiche e le categorie concettuali. Dal fumetto all’animazione, dalla musica al videogioco, dalla letteratura alla cinematografia. Dall’horror all’hentai, dal misticismo tradizionale alla science-fiction, dal dramma psicologico allo splatter. Tu, all’opposto, col tuo romanzetto imbecille hai impoverito ulteriormente i cervelli di tante ragazzine. In qualche nazione è persino reato, si chiama “circonvenzione d’incapace”… anche se sono quasi sicura che tu otterresti le attenuanti.
Stephenie aveva gli occhi sgranati, la bocca semiaperta.
Reiko sdraiò la sedia su un fianco, salì in piedi su una delle gambe, che si spezzò.
La giapponese raccolse il pezzo di legno acuminato.
Stephenie divenne pallida, il suo respiro accelerò.
- Ragioniamo, ascolta un attimo. Ti prego, non mi puoi uccidere. Hai detto che non sono un vampiro, giusto? Non ha nessun senso conficcarmi quel coso nel cuore!
Reiko soppesò il paletto. Toccò la punta. Sorrise.
- E chi ti dice che te lo voglia conficcare nel cuore?
9 dicembre 2010 alle 20:26
@Gamberetta
Grazie dei consigli e di esserti presa la briga di leggere il mio delirio. Effettivamente mi sono reso conto che era lungo ma mi stavo divertendo quindi mi sono lasciato prendere.
Ho letto tutti e 3 i tuoi manuali e li ho trovati molto interessanti, ma, come hai potuto appurare tu stessa, tra il dire e il fare…..
Ad ogni modo terrò a mente i tuoi consigli, però devo ammettere che non sapevo come far svolgere il dialogo in maniera un minimo credibile. Insomma non riuscivo proprio a capire cosa ci fosse andato a fare un alieno tecnologicamente avanzato nella stanza da letto di uno sfigato. Neanche riuscivo ad immaginare un motivo plausibile (che non fosse stato già usato) per cui lui volesse intavolare un discorso.
Inoltre mi stavo chiedendo, come faccio a capire quando gli avverbi sono davvero di troppo? Generalmente è bene non usarli (e ti dico solo che nel racconto mi sono trattenuto XD) però come faccio a capire se ne sto abusando? Ad esempio quel “seriamente” mi sembrava necessario per sottolineare la convinzione nella sua idea. Forse avrei dovuto usare un altro metodo per rafforzare?
Thanks in advance.
e complimenti per il blog.
9 dicembre 2010 alle 00:53
@Hammurabi. Scusami se non entro molto in dettaglio, ma il racconto che hai postato è molto lungo per essere il tema dell’esercizio. Comunque, a parte i soliti consigli, tipo…
… togli gli avverbi inutili! Esempio:
devo dire che il dialogo a tratti è anche divertente, ma manca di tensione. Quali sono gli obiettivi dei personaggi? Cosa vuole uno dall’altro? Il succo di un buon dialogo è che un personaggio vuole qualcosa e l’altro personaggio vuole l’opposto. Se i due, come qui, vanno tutto sommato d’accordo il lettore rimane indifferente.
La soluzione più semplice, anche usata da altri, è che l’alieno vuole vitto e alloggio e l’umano lo vuole fuori da casa sua prima di subito. Non è il massimo, ma è un punto di partenza. Magari invece l’alieno ha bisogno di una mano per riparare l’astronave – no, non nel senso che ha bisogno di aiuto, nel senso che proprio vuole la mano, dita, carne, ossa e pelle compresa – e l’umano medita di vendere l’alieno al circo. Quello che vuoi, ma devi ideare un conflitto.
7 dicembre 2010 alle 23:44
A Gamberè, daje, beccate sto racconto. Non so che ho creato, ma mi sono divertito :)
“Lo Sborone”
Cazzo!, pensò Giuseppe guardando l’ospite inatteso che si trovava sul suo letto. Lo sapevo io che doveva esserci qualcosa che non andava. L’affitto di questa lurida topaia era troppo basso perché non ci fosse la fregatura. Avanzò lentamente facendo scricchiolare le assi sconnesse del pavimento sotto il suo peso. Il rumore non sembrò disturbare l’animale. Chiuse con cautela la porta dietro di se tenendo lo sguardo fisso sull’ospite e cercando di fare i movimenti più lentamente che poteva. L’unica via di fuga dalla stanza era stata chiusa.Diavolo! Torno sfatto da lavoro e ora mi toccherà anche cambiare le lenzuola del letto, come minimo! Chissà che schifezze ci avrà combinato sopra quella bestiaccia. pensò storcendo la faccia in una smorfia di disgusto, Tra l’altro devo anche decidermi a cambiarlo il letto, è fin troppo corto per me. Si passò perplesso una mano fra i capelli continuando a domandarsi come avrebbe fatto a liberarsi di quello strano cane. O forse era un topo alieno troppo cresciuto. Decise che era meglio credere che fosse un cane, i topi non li aveva mai potuti soffrire. Il cane-nano-alieno inclinò leggermente la testa di sbieco continuando però a fissarlo negli occhi seduto sulle zampe posteriori.Strano, sembra quasi che non abbia paura di me. Effettivamente un cane così non l’avevo mai visto prima.
“E ora cosa dovrei fare? Chiamare la disinfestazione o l’accalappia cani?” disse Giuseppe ad alta voce.
“Pensavo che tra persone educate ci si dovesse presentare prima di iniziare una conversazione” disse il cane-nano-alieno. Giuseppe strabuzzò gli occhi incredulo e fece un passo indietro.
“O mio Dio!” Il cuore gli sembrava gli stesse esplodendo nel petto. Possibile che avesse parlato?
“Suvvia non sia sciocco, non crederà davvero che se fossi il suo Dio avrei scelto questo aspetto per fare la sua conoscenza?”.
“Ma porca troia!” si lasciò sfuggire Giuseppe strabuzzando ulteriormente gli occhi e portandosi entrambe le mani alla bocca come per tapparla. Non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Se fosse stato capace avrebbe strabuzzato anche le orecchie.
“Mi perdoni, ma devo correggerla nuovamente, sono di sesso maschile. In ogni modo, non sono neanche solito vendere il mio corpo per denaro. Ma suppongo che la sua fosse un’esclamazione di sorpresa più che un’affermazione. Ho notato che di solito voi umani perdete il controllo quando vi succedono cose inaspettate”, disse mentre i suoi lunghi baffi disegnavano archi nell’aria.
Perfetto! Un cane-nano-alieno e per giunta vulcaniano e logorroico. Devo essermi addormentato davanti al PC in ufficio e questo è un sogno. E’ l’unica spiegazione plausibile. Devo assolutamente smetterla di guardare film di fantascienza fino a tarda notte. Tirò un paio di respiri profondi socchiudendo gli occhi. Si sentì leggermente meglio, gli sembrava di poter riprendere in mano la situazione.
“Ehm” disse facendosi coraggio “mi perdoni per l’esclamazione, colpa della sorpresa.” si sentiva un idiota a parlare a quel cane, ma voleva la conferma definitiva “Io mi chiamo Giuseppe Bergman. Lei è?” Perché sto dando del lei ad un cane? Anche se parla è pur sempre un cane.
“Piacere di fare la sua conoscenza. Io mi chiamo Gurt e, come probabilmente ha già intuito, vengo da un lontano pianeta chiamato Gnamme.” Non può essere un sogno, mi sarei già svegliato. E’ tutto troppo vero ma allo stesso tempo inverosimile.
“Intende dire che lei è un extraterrestre?”
“Vedo che le piace perdere tempo con domande retoriche”, Giuseppe concluse che decisamente non era un sogno. Cominciò a temere seriamente per la propria salute. Doveva avere qualche brutta malattia. Magari un tumore al cervello. Ma tutto quello non poteva essere vero. Un cane-nano-alieno-parlante. In casa sua. Sul suo letto!
“Ho bisogno di una sedia”, si diresse verso la scrivania. Afferrò la sedia dallo schienale, la girò verso Gurt e vi si lasciò cadere sopra. Appena in tempo, le gambe non lo avrebbero retto ancora per molto. Il respiro si faceva affannoso e sentiva che gli cominciava a mancare l’aria.
“E’ sicuro di sentirsi bene?”, chiese Gurt. “Ha assunto un colorito molto pallido anche per i vostri standard”
“I nostri standard?”
“Si, ho notato che ci sono popoli con colori diversi della pelle sulla vostra terra. Ma la sua colorazione è diventata davvero molto chiara. Sembra che abbia qualche problema al suo apparato circolatorio. Magari il suo cuore non riesce a pompare abbastanza sangue.”
E’ ferrato in anatomia umana. Forse è vero quello che si dice. Ora mi ipnotizza e comincia ad infilarmi sonde in ogni orifizio
“Non si preoccupi, le assicuro che il mio cuore sta bene. Ora mi passa” disse Giuseppe cercando di convincere più se stesso che l’ospite extraterrestre. “Piuttosto, posso sapere cosa vuole da me?”
“Da lei? Mi perdoni, provengo da un pianeta dove abbiamo imparato a viaggiare nello spazio e nel tempo, vi teniamo d’occhio da più di tre secoli, non abbiamo più i pollici opponibili e siamo in grado di muovere gli oggetti con il pensiero. Cosa le fa pensare che ci sia qualcosa che io non posso fare e di cui necessiterei il suo aiuto?”
Cane-nano-alieno-vulcaniano-logorroico e adesso anche stronzo.
“Ma allora perché diavolo l’ho trovata sul letto nella mia casa?”
“Semplice, c’è stata un’oscillazione nel campo gravitazionale attorno al vostro pianeta dovuta ad un’improvvisa e quindi imprevista tempesta solare di brevissima durata. Questo ha fatto si che il teletrasporto mi facesse materializzare in un posto invece che in un altro. A niente sono valse le variabili compensative che di solito inseriamo nei calcoli per correggere l’imprevedibile.”
“Mi sta dicendo che avete sbagliato a fare i calcoli?”
“Riassumendo e banalizzando: si”
“E vi vantate pure di non avere il pollice opponibile” disse Giuseppe scuotendo la testa come un maestro deluso dalla risposta di un proprio alunno.
“Quando si ha a che fare con l’imprevisto le proprie capacità di calcolo possono servire solo a limitare i danni, raramente a correggere del tutto l’errore. Ad ogni modo mi hanno appena riferito telepaticamente che tra qualche attimo mi teletrasporteranno di nuovo a bordo. Così porremo fine a questo increscioso incidente.”
“E la morale di questo incontro qual’è? Niente dichiarazioni di guerra verso la terra? Niente moniti a difendere e salvaguardare la biodiversità del nostro pianeta unico in tutto l’universo? Niente richieste di pace in cambio di un reciproco scambio di conoscenze e cultura?”
“E perché mai dovremmo farlo? La guerra l’abbiamo abolita da tanto ormai, una volta compresa la sua intrinseca stupidità sarebbe stato incoerente continuare a praticarla sia tra noi stessi che nei confronti di altre razze aliene. Del vostro pianeta siete liberi di fare quello che volete. Se vi piace vivere tra il cemento e l’immondizia accomodatevi pure. Anche se volete essere gli unici esseri viventi sul vostro pianeta siete liberi di sterminare tutti gli altri. Per quanto riguarda la conoscenza, sarebbe uno scambio a senso unico e sono anche dubbioso della sua bontà. Per quanto riguarda la vostra cultura, come ho già detto, vi osserviamo da più di tre secoli, ormai siete diventati anche abbastanza monotoni.”
A quel punto Giuseppe ebbe un fremito e si riprese come se si fosse svegliato d’improvviso da un lungo torpore. Attorno a Gurt cominciava a disegnarsi un contorno di luce argentata che assumeva sempre di più la forma di una sfera perfetta al cui centro c’era l’alieno.
“Rispondimi almeno ad un’ultima domanda” gli disse alzandosi di scatto dalla sedia come per fare arrivare più chiaramente la sua voce.
“Se farai a tempo volentieri, ma non c’è bisogno che urli in modo così fastidioso. Dovresti vederlo che sono ancora qui. Quando la luce che mi circonda diventerà blu allora tornerò alla mia astronave”.
“Tu sai se Dio esiste oppure se siamo stati creati in un laboratorio da un’altra razza aliena?”
Nella stanza si cominciò ad udire un leggero sibilo che andava via via crescendo e la luce attorno a Gurt si faceva sempre più intensa assumendo un colore celestino.
“Certo che lo so, è una delle prime cose che abbiamo appurato” disse Gurt. Poi prese a scodinzolare più velocemente e si stampò in faccia un sorriso sornione e beffardo.
“Quindi?” urlò Giuseppe, ma ormai il sibilo era cessato, il cerchio di luce blu era sparito portandosi con se Gurt.
Rimase in piedi a fissare il punto dove fino ad un attimo prima si trovava quel bizzaro visitatore. Incredulo si rimise seduto e si giro verso la scrivania appoggiandoci sopra i gomiti e tenendosi la testa tra le mani. Pensò alle domande che gli avrebbe potuto fare se solo fosse stato più pronto e sveglio. Pensò anche che se avesse raccontato a qualcuno dell’incontro nessuno ci avrebbe creduto e lui non avrebbe saputo come fare per convincerli. Anche il fatto che l’alieno avesse un nome che gli ricordava una canzone di “Elio e le storie tese” non faceva certamente propendere la bilancia della verità a suo favore. Decise di dimenticare o almeno di fare finta che non fosse successo niente. Si avviò verso la porta, si fermò un istante sovrappensiero poi si girò a guardare il letto. Prese lenzuola e copri materasso, li appallottolò nelle braccia e uscì dalla stanza dirigendosi verso il bagno con la lavatrice. Fare finta che non era successo niente era un conto, ma quella notte non sarebbe riuscito a dormire tranquillo se almeno non avesse fatto il cambio.
2 dicembre 2010 alle 19:06
Gamberetta:
La mia idea era che guarda quel punto, solo che Marco è proprio lí: logico – almeno, a me pare tale – che la foto commemorativa sia dov’è morto, e che Marco – anche lui lí per ricordare il morto – sia in quel punto.
Comunque valuto se e come inserire elementi della stanza.
Ottimo, sto iniziando a capire qualcosa di piú; grazie!
2 dicembre 2010 alle 18:11
@Mauro. Sì, il principio è giusto. Però poi cambia in qualcosa di più interessante, perché “C’era Marco” è molto statico e suona male. Non so:
oppure:
oppure:
Inoltre puoi anche pensare di non passare subito a Marco: magari quando Aurora entra nella stanza con lo sguardo va prima al punto dove l’amato è morto e solo dopo si accorge della presenza di Marco. Perciò prima potresti mostrare qualche dettaglio della stanza e poi Marco.
Comunque l’idea di fondo è corretta: se togli il “vide” e metti direttamente quello che Aurora vide, la telecamera è molto più vicina.
2 dicembre 2010 alle 17:19
Torno in cerca di conferme (ma senza una nuova versione, per ora): stavo ragionando su come far sí che il testo sia piú vicino al PdV di Aurora; fare cambiamenti tipo da:
a:
Va bene?
Risposta mia: sì; “vide” indica qualcuno che dice che lei ha visto, mentre “c’era” è qualcosa direttamente dai suoi occhi.
28 novembre 2010 alle 12:03
Ottimo, grazie; segno e metto da parte. Prima o poi mi vedrai tornare con la nuova versione.
28 novembre 2010 alle 11:05
@Mauro.
Il “sentendo” è poco elegante. Ma qui il problema non è tanto il gerundio, ma il fatto che se sei nel pdv di Aurora non c’è bisogno di specificare che sente qualcosa e d’altra parte il sentire è generico. Meglio:
In altre parole hai trasformato un indefinito “sentire” in una sensazione precisa (a tua scelta) in un punto preciso (a tua scelta).
28 novembre 2010 alle 10:43
Gamberetta:
Credo che rimanderò a dopo aver letto il libro di Card (magari lo leggerò una volta finito Word Painting; per ora ho finito la fase di pulizia del file); ora come ora non penso di avere le idee sul punto di vista abbastanza chiare per farlo… prima devo capire bene cosa causa lo spostamento. Comunque ci lavorerò. Magari prima però provo l’esercizio del terzo manuale.
In caso non fosse chiaro (ma spero di sí…), il punto di vista voluto era Aurora.
Poter stare lí, fondamentalmente; se poi lui si fosse deciso a capire che lei era onestamente interessata all’altro meglio, ma la cosa principale era quella.
Valuto, per quando lo riscriverò, se inserire anche qualcos’altro.
Una domanda: “Scese le scale nella penombra, sentendo sotto la mano la vernice scrostata della ringhiera”: quel “sentendo” va bene, visto che lo sente durante tutta la discesa, o comunque lo elimineresti?
27 novembre 2010 alle 19:41
@Mauro.
Sì, può andare. Ma prova, come ti ho consigliato, a scriverlo usando un solo punto di vista: sei solo il ragazzo o la ragazza. Cerca di renderlo più personale, magari aggiungendo pensieri, ricordi, o quant’altro. Così com’è scritto adesso il lettore rimane un po’ freddo, perché non sa bene con chi identificarsi.
Cerca poi di chiarirti bene cosa vogliono i due personaggi: Lui vuole fare sentire in colpa lei, e ci siamo; ma lei? Cosa vuole da lui? Ok, vuole che lui la lasci in pace, ma forse è un po’ poco per un dialogo così drammatico. Magari lei, anche se non l’ha mai confessato, sa che il tizio morto è schiattato davvero per colpa sua e cerca perdono?
27 novembre 2010 alle 02:25
Gamberetta:
Vero; nella mia idea, Marco colpevolizza pesantemente Aurora, credendo che lei stesse solo giocando, da cui la reazione violenta fin da subito. Ma si può ripensare la scena per dargli una partenza piú tranquilla; vedrò.
Ci penso; a sé stanti non mi convincono molto, mi sembrano slegati, ma magari nel contesto di un’eventuale modifica futura ci staranno.
Interessante: io avrei indicato, come eventuale battuta che mal si addice, la parte: “A casa mia era l’arrivista, da lui ero quella che cercava un’avventura”; visto che (probabilmente) lo sanno entrambi, è una ripetizione di una cosa ovvia, fatta quindi solo per sfogo.
Per contro, la parte: “Credi che c’interessasse cosa pensavano i miei? O cosa pensavi tu?” mi pareva naturale, perché mi immaginavo che Marco non si fosse mai interessato a sapere cosa lei pensasse davvero, e che la credesse sottomessa ai genitori.
Sicuramente il tema è difficile; ma quando mi sono chiesto: “Cosa ci fa una ragazza ben vestita, con un mazzo di rose, in un edificio in rovina?” mi è venuto in mente l’abbozzo di storia, e ho voluto provare a sviluppare quello. Al massimo mi farò le ossa su qualcosa di complesso; il che non è necessariamente un male.
In generale, nella sua natura di esercizio/dialogo a sé stante, ti pare accettabile?
P.S.: in caso t’interessi, questa la storia che mi ero immaginato (ma che non so quanto traspaia): lei – di buona famiglia – e lui – di famiglia non benestante – si incontrano e si mettono insieme; sono veramente legati l’uno all’altra, ma tutti (Marco compreso) li vedono come un arrivista e/o come una che vuole solo l’avventura prima di sistemarsi con il riccone di turno.
Per stare in pace vanno nell’edificio diroccato, ma un crollo investe lui; Aurora lo estrae dalle macerie, ma lui non si salva. Marco incolpa Aurora della morte.
27 novembre 2010 alle 00:23
@Mauro. Il dialogo è un po’ melodrammatico e troppo diretto – infatti c’è subito un conflitto violento (parolacce, lo schiaffo alle rose).
Per esempio le prime battute avrebbero potuto essere:
#
Anche qui non mi convince. È troppo un botta e risposta che mal si addice a quello che mi sembra lo stato d’animo dei personaggi. Secondo me lei risponde solo:
Non so, probabilmente hai preso un tema troppo difficile: è davvero difficile comunicare emozioni così profonde (tipo il senso di colpa per la morte di una persona amata) in un dialogo a sé stante, senza sapere niente dei personaggi.
Il “silenzio” non mi ha dato fastidio.
26 novembre 2010 alle 20:18
Nuova versione; vai con la mannaia. Mi interessa particolarmente se in qualche punto il dialogo ti pare forzato, e se la scena in cui c’era il grido è troppo silenziosa.
Aurora entrò nell’edificio. Fece scorrere lo sguardo sulle pareti annerite, sui fili che pendevano dal soffitto. Scese le scale nella penombra, sentendo sotto la mano la vernice scrostata della ringhiera. Entrò nella stanza.
Vide Marco, accovacciato di fronte alla fotografia. Rigirò il mazzo di rose tra le mani e abbassò lo sguardo, mordendosi le labbra.
Il ragazzo si alzò, guardò l’immagine ormai sbiadita, poi si girò. Quando vide Aurora si bloccò.
“Cosa cazzo ci fai qui?”
“Io…”
La prese per un polso. “Non devi venire qui! Non devi mai venire qui!”
“Io non… Volevo solo…” Alzò le rose. Il ragazzo le colpí. I fiori caddero a terra.
“Non me ne frega un cazzo dei tuoi fiori! Non cambiano nulla!”
“Lui…” Aurora strinse le braccia al petto “amava le rose…”
“Credi che significano qualcosa, ora?”
Aurora abbassò lo sguardo. “Volevo solo restare un po’ di tempo con lui, ancora una volta.”
“Fino a quando i tuoi non decidono chi devi sposare?” Allungò una mano e toccò la spilla d’oro sul cappello di Aurora. “Per te è sempre stato solo un gioco. Non ti è mai importato cosa provava.”
Aurora lo guardò. “Credi che c’interessasse cosa pensavano i miei? O cosa pensavi tu? Volevamo stare insieme, che foste d’accordo o no.”
Marco la tirò a sé, il volto che quasi sfiorava il suo. “Se non era per te non sarebbe morto”. La spinse a terra e si voltò verso la fotografia, un tremito nelle spalle.
Aurora aveva le guance rigate di lacrime. Si alzò, e raccolse le rose. “A casa mia era l’arrivista, da lui ero quella che cercava un’avventura.” Aurora alzò lo sguardo verso Marco. “Volevamo solo…”, strinse le rose al petto, “restare soli, senza nessuno che ci giudicasse”. Abbassò lo sguardo, portando una mano al volto, le spalle scosse da singhiozzi.
Marco le si avvicinò. “Lo hai portato qui, e lo hai lasciato morire”, le sibilò contro.
Aurora lo schiaffeggiò. “Sono stata io a tirarlo fuori dalle macerie, non…”. Una mano le serrò la gola, la schiena urtò il muro.
Aurora artigliò il braccio, strappò la manica, cercando di forzare la presa. Sentí il sangue sotto le dita. Il volto di Marco divenne sfocato.
La ragazza si accasciò a terra, ansando, guardando tra le lacrime i petali delle rose mossi dal vento. Si trascinò verso l’ingresso.
Marco si stava guardando le mani. “Vattene. Lasciami solo con lui”. Si sedette davanti alla fotografia, col capo chino.
Aurora si alzò, incespicando. Appoggiò i fiori contro il muro.
Se ne andò.
21 novembre 2010 alle 12:20
Gamberetta:
Preso, metto in coda di lettura.
Segno per il futuro, per ora mi concentrerò sul dialogo; magari ci torno dopo aver letto Characters & Viewpoint.
Grido: allora valuto come rimuoverlo.
Settimana prossima mi metto a lavorarci sopra, grazie delle indicazioni.
21 novembre 2010 alle 01:13
@Mauro.
Secondo me sì. Se il gesto di lui è stato abbastanza veloce Aurora non fa a tempo a gridare. Puoi mettere altri suoni: lo sbattere della nuca contro il muro, lo scalciare, il rumore del vestito che si strappa quando lei artiglia il braccio di lui.
Non ho ancora scritto un articolo specifico dedicato al punto di vista. Forse sarà il prossimo dei manuali, devo ancora decidere. Se nel frattempo vuoi approfondire, leggi Characters & Viewpoint di Orson Scott Card.
Per adesso no. È un discorso molto lungo, perché dovrei via via spiegare anche la teoria. Inoltre con il tuo brano è difficile far risaltare i problemi perché hai usato una telecamera sempre lontana, le differenze tra i due punti di vista sono sfumature (tranne il Marco iniziale di schiena). Per certi versi è “giusto” così. Però se narravi con il pdv saldo nella testa di uno dei due personaggi sarebbe venuto meglio.
20 novembre 2010 alle 12:12
Gamberetta:
Vero, ma ho preferito metterne poco che forzarne di piú, rendendo artificiale la situazione; ci penso ancora e vedo se riesco ad allungare lo scambio senza rendere inverosimile che non si siano ancora pestati (ma forse prima farò il terzo esercizio, visto che sembra che le basi del dialogo siano entrate… comunque non fino a Mercoledí minimo, temo).
Capito; quindi ho fatto bene a togliere il “lentamente” quando Marco si alza (mettere mille descrizioni nel tempo in cui uno si alza – per quanto lentamente – è una cosa che userei con molta cautela).
Ci avevo pensato, ma la scena mi suonava… strana: Viene sbattuta contro il muro, che lo faccia in totale silenzio mi sembra inverosimile, mentre che le sfugga un grido mi pare realistico.
Qualche tempo fa ho letto un libro in cui un personaggio esce dal sottobosco, spara a un altro, un terzo si frappone tra i due e viene colpito, il secondo lo prende e lo porta via mentre un quarto attacca quello che ha sparato. Il tutto senza un suono descritto. Mi è sembrato decisamente falso: non un minimo rumore quando il primo esce dal sottobosco? Quando il terzo si frappone e viene colpito? Quando il quarto attacca?
Tornando alla mia scena, temevo di fare un effetto simile: Marco prende Aurora per la gola, la sbatte contro il muro… il tutto nel silenzio piú totale. Strano.
La scena senza il grido ti sarebbe sembrata verosimile?
Ecco: potresti approfondire questo punto? La gestione del punto di vista è un argomento su cui – onestamente – credo di avere parecchi problemi; a partire dalla base: riconoscere decentemente quando cambia.
Intanto frugo gli archivi per cercare un manuale sull’argomento.
20 novembre 2010 alle 11:24
@Mauro. Il problema di questo dialogo è che non c’è molto dialogo. ^_^
C’è conflitto – e va bene – ma si arriva troppo presto alle botte. Le botte possono essere la conclusione di un dialogo dai toni sostenuti, ma prima ci dovrebbe essere il dialogo. Comunque considerandolo come parte finale di un dialogo più esteso non è male. I pochi scambi di battute sono buoni.
“Lentamente”, data la situazione, implica che devi spendere più parole per descrivere. Non so:
E così via. Se la ragazza si muove lentamente, devi mostrare la lentezza. Per quello che spesso il consiglio giusto è tagliare il lentamente. Se i personaggi si danno una mossa è meglio!
È brutto. Se proprio vuoi cercare la contemporaneità delle azioni, forse è meglio così:
Anche perché il tirare a sé è un gesto veloce e violento, non hai il fiato per parlare nell’attimo in cui lo compi.
Sì, anche l’“ahia!” è bruttino. D’altra parte il grido strozzato che sfugge, oltre che raccontato è pure cliché. Boh, ha la gola serrata, falla rimanere zitta! ^_^
Oppure non so:
È un grido strozzato più mostrato. Ma ammetto che in quella situazione non ci sono tante alternative.
Il pdv non è gestito tanto bene. Lo cambi spesso. Non dà fastidio come in altre occasioni perché essendo la telecamera sempre esterna (non entri mai nella testa dei personaggi) non c’è un grosso trauma. Però se mantenessi un solo pdv sarebbe più scorrevole.
Anche se non la scrivi in prima persona, immaginati la scena come fosse un FPS con la telecamera nella testa di un solo personaggio. Così per esempio, se sei Aurora, non vedi che Marco finisce di pulire la foto se è di spalle (si deve girare per parlare con Aurora).
20 novembre 2010 alle 01:05
Premessa: è corto; mi è venuta un’idea di situazione e l’ho sviluppata. Non c’era motivo per forzare altri scambi, quindi l’ho conclusa quando mi è venuto naturale farlo. Se è troppo corto per un giudizio sensato, proverò a farne un altro.
Aurora entrò nell’edificio. Fece scorrere lo sguardo sulle pareti annerite, sui fili che pendevano dal soffitto, e si diresse lentamente verso la stanza. Vide Marco, accovacciato di fronte alla fotografia. Si bloccò. Rigirò il mazzo di rose tra le mani, abbassò lo sguardo. Si morse le labbra.
Marco finí di pulire la foto e si alzò. Guardò l’immagine ormai sbiadita. Si girò, bloccandosi quando vide Aurora.
“Cosa cazzo ci fai qui?”
“Io…”
La prese per un polso. “Non devi venire qui! Non devi mai venire qui!”
“Io… volevo solo…”. Alzò le rose. Il ragazzo le colpí. I fiori caddero a terra.
“Non me ne frega un cazzo dei tuoi fiori”, disse tirandola a sé, il volto che quasi sfiorava il suo. “Se non fosse per te, non sarebbe morto”. Spinse a terra la ragazza e si girò verso la fotografia.
Aurora aveva le guance rigate di lacrime. Si alzò, e raccolse le rose.
“Volevamo solo…”, strinse le rose al petto, “restare soli, senza nessuno che ci giudicasse.” Abbassò lo sguardo, portando una mano al volto, le spalle scosse da singhiozzi.
Marco le si avvicinò. “E lo hai lasciato morire”, le sibilò contro.
Aurora lo schiaffeggiò. “Sono stata io a tirarlo fuori dalle macerie, non…”. Una mano le serrò la gola, la schiena urtò il muro. Le sfuggí un grido strozzato.
Artigliò il braccio, cercò di forzare la presa. Sentí il sangue sotto le dita. Il volto di Marco divenne sfocato.
La ragazza si accasciò a terra, ansando, guardando tra le lacrime i petali delle rose mossi dal vento. Si trascinò verso l’ingresso.
Marco si stava guardando le mani. “Vattene. Lasciami solo con lui”. Si sedette davanti alla fotografia, col capo chino.
Aurora si alzò incespicando. Appoggiò i fiori contro il muro.
Se ne andò.
Ho cercato di fare un minimo di auto-analisi (o un elenco di dubbi, se preferite):
• “Si diresse lentamente”: ho pensato a come rendere “lentamente” rimuovendo l’avverbio, ma non mi è venuto in mente un modo.
• “Disse tirandola a sé”: il gerundio è voluto, voglio che la frase e l’azione siano contemporanee.
• “Le sfuggì un grido strozzato”: è raccontato, ma mostrarlo… “Ahi!” “Ahia!” “Ah!” e simili non mi convincono; non mi viene in mente un modo soddisfacente per mostrarlo (e sì, quindi probabilmente raccontarlo è solo una comoda via di fuga)… mi faccio troppi problemi e “Ah!” sarebbe adatto?
• Soprattutto: qualunque commento sul punto di vista, compreso “È un PdV alla cazzo di cane, non hai capito nulla”, sarà più che gradito.
4 marzo 2010 alle 09:23
[...] di Chiara-Gamberetta. Trovo che sia davvero acuto e completo. Oltre che divertente. Lo trovate qui. Purtroppo il blog di Gamberi Fantasy al momento è chiuso e non ci sono altri articoli di questo [...]
27 gennaio 2010 alle 15:22
Articolo interessante e utile ai fini della scrittura. Ci sono tanti dettagli e non che pare molte persone amino saltare a pie’ pari perche’ si o perche’ no, salvo poi lamentarsi che non ne erano a conoscenza. Beh, dopo questo articolo mi pare diventi difficile negare di non essere stati informati.
La mia domanda pero’ si distacca leggermente dal tema: essendo io all’estero, non ho mezzi per ordinare i manuali citati. Altri siti da cui possa acquistare questi libri esistono? Finche’ stavo in italia usavo sempre amazon o ebay per gli usati, ma qui in Cina amazon non e’ del tutto affidabile: dopo che ben sei libri non sono giunti a destinazione non ho piu’ voglia di rischiare, qualsiasi sia la motivazione. Percui, gamberetta, hai qualche suggerimento? Che altri siti ci sono di cui e’ bene fidarsi?
26 gennaio 2010 alle 17:46
@Gamberetta. Ci sarà un altro articolo sui manuali? Se si, quando e a quale argomento sarà dedicato?
15 gennaio 2010 alle 19:03
@Evangeline. Non credo ci sia materiale a sufficienza per un articolo solo sulle scene d’azione. Magari le infilerò in qualche altro argomento.
14 gennaio 2010 alle 15:04
@Gamberetta
Secondo me sarebbe molto interessante un articolo incentrato sulle scene d’azione, su come renderle interessanti e coinvolgenti. C’è qualche speranza che un articolo del genere venga realizzato?
12 gennaio 2010 alle 14:30
Sunto interessante, davvero un articolo ben fatto. Mancano i discorsi indiretti liberi, cui si poteva accennare.
Giusto. Precisamente, uno degli scopi fondamentali del dialogo è mostrare le relazioni tra i personaggi. Il modo in cui si parlano (oltre al contenuto del dialogo) infatti dice molto più di ogni descrizione. La comunicazione inoltre non è fatta solo di parole, ma anche di gesti, silenzi, sottintesi – tutte cose difficili da rendere su carta, ma tutti elementi da tenere bene in mente comunque quando si scrive un dialogo. Sono proprio difficili!
31 dicembre 2009 alle 02:52
So di essere fuori tempo massimo e non farò alcuna pressione a nessuno circa la correzione del mio compitino, per quanto tenga ad avere una critica approfondita al mio stile di scrittura.
Sono stata più colpita dalla seconda immagine^^
L’aria puzzava.
Fumo, stantio, muffa, cattiva cucina.
Morte.
Odiavo quella zona.
- Fai in fretta, Mizuki san, questa puzza m’impregnerà i vestiti e poi cosa dirà Takeo, cho!
Lei mi guardò con rabbia, lasciando che un lembo della gonna della divisa scolastica strusciasse contro la facciata di quella decrepita casa. Si sporcò di bianco, volevo dirglielo ma lasciai perdere.
Era già abbastanza nervosa.
- Credi che mi piaccia venire qui ogni anno?
Il suo tono era sempre così rude…
- Mica ci sei costretta, cho!
Strinse così forte il mazzo di rose che ebbi paura si ferisse
con le spine.
- Ho parlato troppo, cho?
- Parli sempre troppo, tu.
- Ma se non ho detto niente!
- L’hai detto tu, per prima…- s’interruppe – ahh, lascia perdere.
La sentii borbottare qualcosa sulla mia stupidità che non afferrai bene.
- Non è per niente carino, cho! Se mi vuoi dire qualcosa, dimmelo in faccia!
- Non ho tempo per te, adesso!- sbottò – vuoi o no andartene via da qui in fretta?
- Sicuro cho, me lo chiedi anche?
- Bene. Allora zitta e aspetta un attimo. Ce l’hai la chiave?
- L’ho ingoiata, cho.
- Quanto sei scema. Dai, dammela.
Gliela diedi.
Lei aprì la porta.
Ecco da dove veniva l’odore di morte.
Starnutii – Che schifo.
Mi guardò con disprezzo ed avanzò nell’ombra.
- Dov’è il vaso?- domandai, sperando di non dover salire anche al piano di sopra: le scale parevano così polverose e pericolanti!
- Lì.
Non vedevo dove stesse indicando.
- Lì dove, cho?
- Lì, cretina, guarda, dove ci sono quei brandelli di vestiti.
- Eh?
- Accanto alla finestra!- la sentii battere un piede a terra.
Finalmente trovai il punto preciso. Sollevai qualche pezzo mezzo bruciato di vestito e lo esaminai per benino.
- Stoffa a pallini rosa. Ah, sorella di Mizuki san, non avevi proprio alcun gusto. Pace all’anima tua, cho.
Lei non mi rispose.
- Che fai, parli al suo cenere muto?- Mizuki mi raggiunse e pose il vaso coi fiori di fronte ai pochi resti: pezzi di stoffa sopravvissuti di un vestito carbonizzato e frammenti di legno, che dovevano una volta essere una sedia a dondolo.
- Vorrai dire parli alle sue ceneri mute, cho.
- Citavo un poeta, ignorante.
M’ingrugnii.
- Credi che sia morta serenamente, cho?- domandai, dopo un po’.
- No. Credo che sia morta soffrendo le pene dell’inferno. è bruciata viva, cazzo!
Mizuki san si alzò e io feci altrettanto.
- L’anno prossimo non tornerò qui.
- è quello che dici ogni anno, cho, ma poi torni lo stesso.
- Fanculo.
Uscimmo nell’aria tiepida di settembre.
- Ecco, lo sapevo! Adesso i miei vestiti puzzano, cho!
30 dicembre 2009 alle 20:05
Probabilmente qualcuno lo conoscerà già, ma segnalo comunque un brevissimo racconto di Terry Bisson, costituito da un solo dialogo: “They’re made out of Meat”.
Lo trovate qui: http://baetzler.de/humor/meat_beings.html
Che ne pensi Gamberetta? Io l’ho trovato buono, e credo rispetti tutte le regole che hai suggerito nel post.
24 dicembre 2009 alle 17:28
Okay, questo manuale d’ora in poi sarà il mio Dio *O*
Mi è servito davvero tantissimo. Ora che ho tempo sto rivedendo quanto ho scritto fino ad ora del mio “libro”: inutile dirlo, ho dovuto sistemare tutti i dialoghi! XD
Grazie per averlo scritto, davvero ^___^
24 dicembre 2009 alle 10:53
@Celtibera.
1) Puoi fare come vuoi. Dipende anche dal personaggio che parla:
«Non c’è uomo più nobile del Re» disse la damigella.
«Il re dovrebbe provare a lavorare in fabbrica!» disse il sovversivo.
2) Non sono sicura di aver ben capito, comunque se c’è un’elisione fuori dal dialogo, ci deve essere tale e quale nel dialogo.
3) Togli le d eufoniche anche nei dialoghi.
24 dicembre 2009 alle 01:26
Premessa: madrelingua spagnola. Scusate gli errori ortografici. Grazie.
Alcune domande sui dialoghi:
1-L’utilizzo delle maiuscole nei nomi delle cariche politiche (tipo l’Imperatore), o di espressioni di “rispetto” (tipo Mio Signore) vanno bene quando a parlare sono i personaggi o soltanto quando ha parlare è lo scrittore?
2-La elisione va venne quando parlano i personaggi o va evitata?
3-La stessa domanda vale per la d eufonica
21 dicembre 2009 alle 19:38
@Mauro. Non è un discorso tanto di “superfluo” quanto di goffo intervento del Narratore.
Può essere che la battuta e la pistola puntata non ti sembrino “incazzatura” (a me sembra di sì), bene, cambia la battuta, aggiungi altri gesti, modifica le descrizioni. Quello che è importante è che non devi mai spiegare che il personaggio è “incazzato”.
Se senti l’esigenza di spiegare, stai sbagliando. Possono esserci dei casi in cui devi spiegare per forza? Sì. Ma sono eccezioni.
Poi d’accordo, una “incazzatura” non rovina un romanzo, ci si può passare sopra, ma è come con gli avverbi: anche quando non sono errori gravi si può trovare di meglio.
Se un passaggio ti sembra ambiguo, aggiungi particolari concreti per renderne il significato più chiaro. Basta che il significato emerga dalla situazione e non sia detto esplicitamente dal Narratore. Perché è brutto, perché spezza la verosimiglianza, perché non rimane impresso nella mente del lettore, ecc. sono cose che ho già spiegato più volte.
Per quanto riguarda Anna. Lì il punto è: comunicare al lettore che Anna conosce il piano della rapina, senza rivelare il piano e senza far intervenire il Narratore.
È vero che le due frasi non hanno un significato 100% equivalente, ma non era quello l’importante. Ovvio che in una storia vera non puoi brutalmente cambiare una battuta senza verificare che le altre mantengano il significato voluto.
Grazie per la segnalazione dei refusi, li correggerò.
21 dicembre 2009 alle 17:18
Non so se avrò tempo di fare i compiti a casa, intanto faccio qualche commento: l’articolo è interessante, e sicuramente i discorsi sull’evitare il superfluo sono validi. Ho però l’impressione che a volte quanto considerato tale (o, per simmetria, quanto considerato ovvio) non necessariamente lo sia; prendo qualche esempio dall’articolo:
Personalmente non credo che il risultato sia lo stesso: nella prima versione Anna non conosce i dettagli, quindi suona più naturale che tema la polizia; nel secondo li conosce già: se prima ha il dubbio sulla polizia, il semplice dire che seguiranno il piano che lei già conosce e già sa che seguiranno dubito possa tranquillizzarla. Salvo che stesse cercando una conferma tanto per rassicurarsi, ma comunque le due situazioni sono diverse.
Altro esempio:
Una simile frase, oltretutto senza punto esclamativo, può essere detta anche in maniera fredda; il puntare la pistola potrebbe non essere dovuto all’essere incazzati, quanto al fatto che è decisamente convincente. È decisamente più probabile riavere lo stereo, in una situazione simile.
Sottolineo, a scanso di equivoci, che non sono interpretazioni cercate tanto per dire “No, è possibile anche questa”; sono quelle che mi sono venute in mente leggendo il testo.
Sicuramente, il concetto resta: se sto parlando nell’orecchio a qualcuno è ovvio che sto sussurrando; quindi esplicitarlo deve avere una motivazione. Altrimenti è una ripetuzione inutile.
Si deve però, a mio parere, considerare il rischio di sottintendere qualcosa che sottinteso non è; nell’altro articolo c’era una cosa analoga, in cui a te una scena rendeva ovvie determinate cose specificate in seguito, mentre io senza quelle specificazioni avrei pensato ad altro (questi sono i messaggi, se qualcuno volesse rinfrescarsi la memoria: 1, 2, 3, 4).
Sicuramente la cosa per essere risolta non richiede necessariamente dialogo indiretto, un intervento del narratore o simili (primo esempio banale che mi viene in mente, per il caso della rapina: “Ti spiegherò i dettagli in macchina”; se il viaggio in macchina non viene descritto, automaticamente anche la spiegazione dei dettagli è saltata), però in generale cos’è meglio: una ripetizione magari inutile, o il rischio che una scena non sia ovvia come si crede (sottolineo che non è una domanda retorica)?
Qualche nota:
• “lo stesso gli sembrerà molto strano che il Capitano del sommergibile si esprime proprio come il vicino di casa, di mestiere falegname”; “si esprima“?
• “Ku Kux Klan”: “Klux”, non “Kux”.
• “non c’è la stessa adrenalina di quando elfo e nano gli orchi gli ammazzavano sul serio”: “li ammazzavano”.
• «“magici”(sic)»: spazio tra ” e (.
15 dicembre 2009 alle 15:37
Lasciate che le fanciulle vengano a me.
15 dicembre 2009 alle 02:26
@Gamberetta
Grazie, ora ci provo.
Anche se cosi mi stravolge un po’ l’idea che avevo di Stoya. Sigh!
Per la lunghezza del pezzo: e perche ho voluto unire gli esercizi in un’unica storia. Volevo farla finire col prossimo es.
Domanda: ma il duca che non si fida non crea conflitto?
Anyway appena ho tempo mi metto al lavoro.
Ciaoz
P.s. scusate l’ortografia, sto usando una tastiera Ing.
14 dicembre 2009 alle 23:33
io non conosco il duca ma il racconto (che tra l’altro mi piace parecchio) mi fa venire la curiosità di conoscerlo :)
14 dicembre 2009 alle 22:53
@Samuele. Be’, è solo l’inizio del dialogo, dovrebbe proseguire…
@???. In generale è scritto abbastanza bene (anche se non ho idea se possa essere chiaro per chi non conosce il Duca), ma il dialogo non è un granché. A parte che occupa solo la parte finale del – troppo lungo – esercizio, ma il conflitto dov’è? Stoya rovescia sul Duca una marea di informazioni (a tratti anche in maniera divertente), ma non c’è molto altro.
Prova a farlo così: Stoya è convinta di portare a termine la missione per l’EDITORE ma il Duca riesce a farla desistere (a parole, ovviamente…)
10 dicembre 2009 alle 13:36
Un po’ in ritardo, ecco il mio secondo esercizio (la parte prima degli asterischi e il primo):
Le Cronache di Sfinterburgo™
31 Ottobre. Ore 16:47
Giro l’angolo e percorro via Garibaldi. In fondo alla strada vedo un tizio vestito da coniglio uscire dalla galleria che porta in via Roma.
Mi fermo un attimo e lo scruto da testa a piedi, lisciandomi la barba.
Che sfigato! Se spera di far colpo sui giudici con un costume così banale sta manzo.
Faccio scorrere lo sguardo sulla divisa e poso la mano sul pomo della sciabola d’ordinanza che mi pende dal fianco.
Sono impeccabile. Originale. Ho un irresistibile fascino retrò. Vincere la gara sarà una passeggiata!
Scuotendo la testa ricomincio a camminare.
A metà via un odore famigliare cattura la mia attenzione. E’ un profumo agrodolce di umori corporali e calore da sfregamento.
Chiudo gli occhi e inspiro a fondo.
Santo Quattro! Questo è odore di mutandine!
Riapro gli occhi di scatto. Mi ritrovo in paradiso.
Seduta sulle scale di un palazzo malconcio vedo una Gothic Lolita: calze rosa, gonna di pizzo, corsetto nero e una piccola tuba sulla testa. Ha perfino i capelli blu! Come Nihal!
Sto per svenire dall’emozione. A stento mi trattengo dal saltarle addosso, quando noto che con la destra stringe un G3A3. Dal calcio un adesivo a forma di coniglietto rosa mi sorride.
Coniglietto.
Rosa.
Rischio davvero d’imbrattarmi la divisa.
Ok, devo stare calmo. Sembra molto giovane: bisogna giocarsela bene!
Mi avvicino.
«Bel costume. Dove l’hai trovato il fucile? E’ molto carino.»
Si sistema un guanto con i denti e poi mi guarda. Ha gli occhi grandi, rossi. Mi sorride.
«Grazie! Non sai che fatica ho fatto a mettere tutto assieme. Prima volevo vestirmi da fatina cocainomane, ma mi è sembrata un’idea troppo banale. Cosi sono ripiegata sul look Gothloli. Il fucile è un HK33.»
Scuoto la testa. «No, guarda che ti sbagli.»
«Come? Che intendi?»
«Sì, ehm, posso?» Le prendo il fucile e stacco il caricatore. Un click metallico mi saluta: i peli del petto rispondono rizzandosi di gioia virile. «Vedi? Il caricatore è dritto. Questo qui è un G3GA. L’HK33 ha il caricatore curvo in avanti.»
«Davvero?»
«Sì, sì! Ma non ti preoccupare è un errore comprensibile. Sono fucili molto simili.»
Riposiziono il caricatore e le ripasso il fucile, ma le scivola la presa. Il G3GA cade sulla borsetta e quella si rovescia sulle scale: due coniglietti rosa e una mela rotolano giù per i gradini.
Sbuffa. «Ma che cazzo!» Raccoglie tutto e lo rimette in borsa.
«Senti, se ti piacciono le armi a casa ho dei manuali di artiglieria. Ora sto andando alla gara di costumi, ma se ti va dopo la gara posso mostrarteli.»
Mi studia un attimo.
Speriamo se la beva.
«Be’ grazie, sei gentile. Verrei molto volentieri, se posso.»
«Ma certo che puoi. Così già che ci siamo ti mostro i miei coniglietti»
«Hai dei conigli? Anch’io! Ne ho due: Batuffolo e Fiocco di Neve. I tuoi come si chiamano?»
Le porgo la mano e l’aiuto a mettersi in piedi.
«Be’, c’è Napoleone III, Bismarck, Carlo V e poi il mio preferito: Tamer l’ano.»
Facciamo due passi e si sbatte una mano in fronte.
«Ma che scema che sono. Non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Licia e tu?»
«Duca. Puoi chiamarmi Duca.»
* * *
Giriamo l’angolo e avanziamo a braccetto verso la piazza. La via è invasa da tizi vestiti da conigli: ce ne saranno almeno una dozzina.
Licia lascia il braccio e mi sorride.
«Hai visto? Forse c’è un carro dedicato ai conigli!»
«Già.»
Appena gli passiamo accanto due dei lagomorfi mi afferrano le braccia.
Provo a liberarmi. Invano.
«Ehi che scherzi fate? Lasciatemi andare!»
Un pugno morbidoso mi raggiunge allo stomaco e cado a terra. Per qualche istante non riesco a respirare.
Che cazzo sta succedendo? Chi sono questi sfigati?
Quando rialzo il volto Licia sta imbevendo un fazzoletto rosa col liquido incolore di una boccetta.
Un terzo coniglio mi punta il G3GA al volto.
Licia mi avvicina il fazzoletto alla faccia.
«Sta tranquillo. Non ti succederà niente.».
Jesus Onofago! Sono nella merda.
Uno sparo graffia l’aria. Vengo investito al volto da uno spruzzo di sangue.
Licia cade a terra all’indietro, la testa spappolata. I conigli che mi bloccano si distraggono, allentano la presa alle braccia.
E’ il mio momento: chino la testa e scatto in avanti. La punta del pickelhaube affonda nel petto del coniglio col G3GA e il lagomorfo cade al suolo. Mi ci getto anch’io: raccolgo il fucile, mi giro sulla schiena e tiro il grilletto a ripetizione. Tre colpi raggiungono i conigli che mi avevano immobilizzato alle cosce e al torace.
Non hanno neanche avuto il tempo per cagarsi addosso: n00bs!
Mi rialzo in piedi e scappo da dove ero venuto correndo a zig zag. Sento grida, ma nessuno sparo: gli altri conigli non dovevano essere armati.
Ripercorro via Garibaldi e mi infilo in una stradina laterale. Mi spingo fino a metà della lunghezza quando sulla destra mi appare il vecchio asilo Nardi.
Scavalco le inferriate ed entro. L’edificio è in rovina: grosse macchie d’umidità si allargano sulle pareti ingiallite e dal soffitto penzolano fasci di cavi elettrici coi rivestimenti rosicchiati dai topi. Due dita di polvere ricoprono il pavimento cosparso di calcinacci.
Seguo il corridoio fino a un incrocio, giro l’angolo e mi inginocchio. Mentre riprendo fiato stacco il caricatore e conto le munizioni. Solo quindici. Cazzo mi sono spaventato come un idiota. Adesso devo stare calmo, sparare solo a colpo sicuro.
Rumore di passi. Vengono da destra. Un dolce odore di mutandine mi solletica il naso.
Riattacco il caricatore e punto il fucile.
In fondo al corridoio vedo una Gothloli. Licia? No, è un’altra ragazza. E non è nemmeno una Gothloli. Indossa una specie di divisa militare: camicia bianca, abito corto nero e una cravatta rossa.
In testa porta il berretto di un qualche reggimento. Nella mano destra stringe un mazzo di rose.
Rose?
Ma che cazzo sta succedendo oggi?
Mi alzo in piedi, il G3GA puntato sul suo bel faccino pallido.
«Ferma lì! Chi sei?»
La ragazza obbedisce.
«Mi chiamo Stoya. Sono qui per aiutarti.»
Sputo per terra.
«Si, certo, aiutarmi. Che vuoi fare: provare a narcotizzarmi come ha fatto quell’altra?»
«No, non e così.» Stoya fa un passo avanti.
«Ferma lì, ho detto!»
Obbedisce di nuovo.
«Ti prego, devi credermi.»
«Mi spiace, cara, ma oggi è meglio se non mi fido di nessuno. Sai com’è, hanno appena tentato di sequestrarmi.»
«Lo so. Sono stata io a salvarti.»
La presa sul fucile vacilla.
«Come?»
«Sì, il colpo che ha steso Licia l’ho sparato io. Ho usato un fucile da cecchino. E’ ancora sul tetto.»
Il corridoio sprofonda nel silenzio.
Già, il colpo di fucile. Qualcuno deve pur averlo sparato. Che la ragazza dica il vero?
Scuoto la testa.
«Senti, Stoya, se davvero vuoi aiutarmi, dimmi che cazzo sta succedendo! Chi sono quei conigli la fuori? E perché mi volevano rapire?»
Stoya abbassa lo sguardo. Sospira. Forse non vuole parlare, ma perché?
«E’ giusto. Non posso chiederti di fidarti se non conosci tutta la storia.» Rialza il volto e mi guarda. Ha gli occhi lucidi. «I conigli gli manda l’EDITORE. Non ti devono uccidere. Hanno l’ordine di catturarti vivo.»
«L’EDITORE? Cos’è uno scherzo?»
«No, l’EDITORE ti segue da anni. Ti conosce bene. E ti odia!»
Tentenno. Per un attimo abbasso il fucile.
«E’ per il mio sito?»
Stoya annuisce.
«Sì, il cervello positronico dell’EDITORE dice che in futuro il tuo sito influenzerà negativamente il mercato. Darà vita a un trend che l’ Editoria Mainstream non può gestire.»
Un trend? Che tipo di trend? Ancora mezzo confuso penso agli argomenti di cui scrivo online. Scelgo i più importanti.
«Diffusione degli ebook reader? Distribuzione online gratuita?»
Stoya scuote la testa.
«No, non quello…» Il volto le diventa rosso di colpo. «E’ il pornofantasy.»
La notizia mi colpisce come uno schiaffo. Non riesco a capire. Che peso può avere il pornofantasy? Per un attimo dubito delle ducali capacità connettive. Poi tutto si fa chiaro. Alzo gli occhi al soffitto e lo sguardo si perde nel vuoto.
«Ma certo! Il pornofantasy avvicina ai libri un’utenza che prima era impensabile attirare. Immagina: le masse di nerd che giocano a DnD™ o a Magic™; gli sfigati brufolosi tutti Metal e Hentai o gli appassionati di Elfe Futanari. E non solo: se la voce si sparge arriveranno anche i maiali che di solito non leggono, quelli che passano le giornate online attaccati ai pornotube. Si creerà una nicchia abbastanza potente da minare le fondamenta della Mafia Editoriale. Sì, cazzo, sì! Come ho fatto a non pensarci prima? Tette e culo. Culo e tette: tutto vende di più!»
Riabbasso gli occhi. Stoya si sta esibendo in un perfetto facepalm. No, non è un facepalm, sta solo nascondendo il volto. La capisco, poverina: giovane com’è parlare di porno non deve metterla a proprio agio.
Mi schiarisco la voce.
«E tu? Che c’entri con tutto questo?»
Stoya si toglie le mani dalla faccia. Lo sguardo resta fisso sul pavimento.
«Sono qui per te. L’EDITORE conosce i tuoi punti deboli e ha addestrato una serie di ragazze per prenderti in contropiede. Io ero una di loro. Mi hanno detto come vestirmi e di cosa parlare. Mi hanno fatto studiare armi, armature e la storia militare mondiale dalle origini a oggi. Jesus Onofago, mi hanno fatto anche imparare la definizione di “Oplologia”. Ero una delle ragazze coi punteggi più alti, ma poi qualcosa è andato storto…»
Sollevo di nuovo il fucile e glielo punto addosso.
«Sì? E cosa?»
«Ecco, io…» Stoya abbassa tutta la testa. Stringe il mazzo di rose a due mani e stende le braccia in avanti «Io sono diventata una tua fan!!1!11!!!!!!!1!!!»
@Gamberetta
Scrivendo del Duca mi sembra di facilitarmi un po’ l’esercizio.
E’ ok se faccio anche l’altro?
Ciaoz
9 dicembre 2009 alle 23:04
Saranno tre-quattro anni che non scrivo ed ogni volta ritorno sui miei passi, come se nel frattempo fosse stato tempo assolutamente sprecato. Vabbè faccio l’idiota e provo a buttar giù un semplice esercizio….
Probabilmente avrebbe dovuto uscire da quella stanza e rientrare subito dopo con un fucile a pompa, in quanto non era possibile che un simile orrore si trovasse sul suo letto. Non di certo quando lui voleva andare a dormire.
“Puoi cortesemente spostarti dal mio letto? Vorrei andare a dormire.”
Ecco una cosa stupida: come poteva aspettarsi che quella cosa, quella strana sottospecie di topo ambulante potesse capirlo?
“No” gli rispose.
Il fiato lo abbandonò in un istante, così come anche il sangue che dal volto defluiva alle estremità, nel più classico degli istinti animali che ci invita alla fuga.
“Tu,” scandì bene ogni parola “puoi,” riprese il fiato “parlare?”
“Certo. Chi ha mai detto il contrario?”
Ciao e grazie per il tuo articolo. Per fortuna che ci sono ancora persone che amano istigare il prossimo a coltivare delle passioni!
Samuele