Manuali 3 – Mostrare
Questo è il terzo articolo nella serie dei Manuali. Trovate il primo articolo qui e il secondo qui. Gli articoli possono essere letti in qualunque ordine. Se avete pregiudizi riguardo i manuali di scrittura, date un’occhiata alle risposte ai miti, qui.
Ricordo infine che mi rivolgo a chi voglia imparare a scrivere narrativa di genere, in particolare narrativa di genere fantastico. I concetti esposti potrebbero come non potrebbero applicarsi alla narrativa in generale.
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“Mostrare, non raccontare” o in inglese “Show, don’t tell” è il nome di una fondamentale tecnica narrativa. È un’esortazione agli scrittori perché evitino l’astratto e favoriscano sempre il concreto.
La narrazione deve essere un susseguirsi di dettagli concreti; dettagli che stimolino i sensi del lettore, che richiamino immagini, suoni, odori, sapori.
Esempio:
Michele è vecchio.
Il termine “vecchio” è astratto, dunque qui ci troviamo di fronte al raccontare.
Michele ha la barba bianca, il viso coperto di rughe. Cammina gobbo reggendosi al bastone.
Qui abbiamo una sequenza di particolari concreti, dunque ci troviamo di fronte al mostrare.
Perché il mostrare è preferibile al raccontare?
Perché è dimostrato che il cervello del lettore, se stimolato da dettagli concreti, vive le situazioni descritte. Il mostrato cala il lettore nella storia; il raccontato non garantisce la stessa risposta emotiva, non trascina il lettore.
Per questa ragione il raccontato può diventare noioso in fretta: il lettore non ha problemi a gustarsi 200 pagine di mostrato, mentre poche pagine di raccontato possono subito stufare.
Perché ogni volta che si scivola nel raccontare l’autore esprime un giudizio. La barba bianca o le rughe sono un fatto oggettivo, la vecchiaia è una valutazione soggettiva. Può essere una valutazione giusta e condivisa, ma questo non cambia il problema: il problema è che l’autore ha fatto capolino per parlarci direttamente, incrinando l’immersione.
Per usare la metafora di John Gardner del “fictional dream”: la buona narrativa trasporta il lettore in una condizione mentale simile a quella del sogno. Quando l’autore interviene nella storia, ha lo stesso effetto di qualcuno che ti parla all’orecchio mentre dormi: se ti va bene non te ne accorgi, se ti va male ti svegli. Se il lettore si sveglia, chiude il libro. EPIC FAIL.
Oppure immaginate di essere al cinema. Scorre la pellicola, la scena vede Michele che si trascina per i vialetti del cimitero. Porta i fiori alla moglie morta. Spunta il regista con un cartello: “Michele è vecchio.” Sarebbe ridicolo, rovinerebbe l’atmosfera.
Non rendetevi ridicoli. Non svegliate chi sogna.
Nella sua dimora a R’lyeh, Cthulhu aspetta sognando. Non svegliatelo!
Perché il mostrare permette di scegliere i particolari che sono sul serio importanti per la storia.
Cosa mi spinge a sottolineare che Michele è vecchio? Qual è la rilevanza della vecchiaia per la storia?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso ci vede male, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele che porta occhiali spessi?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso è goffo e fragile, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele mentre inciampa nel suo bastone da passeggio e si rompe una gamba?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso è malato, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele a letto in ospedale?
E così via.
Il raccontato è impreciso. Se si vuole portare avanti la trama, occorre precisione, occorre mostrare.
Perché il raccontato non rimane in mente. Se non si affiancano alla vecchiaia particolari concreti, dopo poche pagine il lettore si sarà già scordato che Michele è vecchio. Invece il mostrato lascia un’impressione duratura; anche chiuso il libro e passati anni, ricorderemo i dettagli più vividi.
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A prima vista può sembrare che lo “Show, don’t tell” sia una tecnica come le altre. Non è così. Le implicazioni del mostrare invece di raccontare sono basilari per la narrativa.
Una celebre citazione da The Craft of Fiction di Percy Lubbock recita:
The art of fiction does not begin until the novelist thinks of his story as a matter to be shown, to be so exhibited that it will tell itself. [...] The thing has to look true, and that is all. It is not made to look true by simple statement.
L’arte della narrativa non comincia finché il romanziere non pensa alla storia come una materia da mostrare, da esibire in modo che si racconti da sola. [...] La faccenda deve sembrare vera, e questo è tutto. Non è resa vera semplicemente raccontando che è vera.
Non c’è arte finché la storia non è in grado di raccontarsi da sola: i particolari concreti (barba bianca, rughe, gobba, bastone) dicono al lettore che Michele è vecchio. Non è intervenuto l’autore a spiegarlo.
La narrativa ha bisogno di verosimiglianza (la faccenda che deve sembrare vera) e questo bisogno non può essere soddisfatto dal raccontato. Non basta raccontare che una cosa è vera per renderla vera. Non basta raccontare che Michele è vecchio; dirlo vecchio non lo rende per magia vecchio. La sua vecchiaia dipenderà dai particolari concreti, non da quante volte ripeto che è “vecchio”.
La posizione di Lubbock è radicale ed è stata aspramente criticata. Tuttavia non è una posizione assurda. Una definizione di “narrativa” potrebbe essere: l’arte del mostrare attraverso le parole. Sarebbe una buona definizione e Lubbock avrebbe ragione.
Senza entrare nel filosofico, il succo è semplice: scegliere consapevolmente quando mostrare e quando raccontare è fondamentale. Dal punto di vista dello stile, ovvero del come si racconta una storia, niente è più importante. Non parliamo di una “regoletta”, parliamo di uno dei cardini della narrativa. E, se si vuole seguire Lubbock, parliamo della narrativa stessa.
Introduzione storica
Mi è capitato di imbattermi in “scrittori” (sebbene questi tizi non scrivano un bel niente, imbrattano solo di moccio la carta) con idee bizzarre riguardo lo “Show don’t tell”. Una delle più bislacche è quella che lo “Show don’t tell” sia una “trovata” moderna, colpa di Hollywood; “una sensibilità mediata dal cinema” – nelle parole di uno degli imbrattatori.
Sugimori Nobumori, più noto con il nome di Chikamatsu Monzaemon, è stato un famoso drammaturgo giapponese, “lo Shakespeare nipponico”.[1] Il saggio del 1738 Naniwa miyage riporta alcune considerazioni di Monzaemon[2] riguardo la narrativa e il teatro. Per esempio si legge (vi risparmio il giapponese, qui di seguito la traduzione inglese di Donald Keene):
There are some who, thinking pathos is essential to joruri, make frequent use of expression as ‘it was touching’ in their writing, or who when chanting do so in voices thick with tears, in the manner of Bunya-bushi.
This is foreign to my style. I take pathos to be entirely a matter of restraint.
Since it is moving when all parts are controlled by restraint, the stronger and firmer the melody and words are, the sadder will be the impression created. For this reason, when one says of something which is sad that it is sad, one loses the implications, and in the end, even the impression of sadness is slight. It is essential that one not say a thing that ‘it is sad’, but that it be sad of itself. For example, when one praises a place renowned for its scenery such as Matsushima, by saying, ‘Ah, what a fine view!’ one has said in one phrase all that one can about the sight, but without effect. If one wishes to praise the view, and one says numerous things indirectly about its appearance, the quality of the view may be known by itself, without one’s having to say, ‘It is a fine view.’ This is true of everything of its kind.
Alcuni, credendo che il patos sia essenziale per lo joruri, usano frequentemente nei loro scritti espressioni come “toccante”, oppure quando cantano lo fanno con voce rotta dalle lacrime alla maniera di Bunya.
Questi metodi sono estranei al mio stile. Io considero il patos una questione di disciplina. Si crea patos commovente quando tutte le parti sono controllate da una disciplina; più nette e precise sono parole e melodia, più si creerà un’impressione di malinconia. Per questa ragione, quando qualcuno dice che qualcosa triste è triste, si perdono le implicazioni e alla fine anche l’impressione di tristezza è minima. È essenziale che non si dica che qualcosa “è triste”, ma che la cosa sia triste in sé. Per esempio, quando si elogia un luogo rinomato per il suo paesaggio come Matsushima, dicendo: “Ah, che bella vista!” si è detto in una frase tutto quello che si potrebbe dire sul paesaggio, ma senza creare emozione. Se si vuole lodare il paesaggio e si dicono diverse cose indirettamente riguardo il suo aspetto, la bellezza del paesaggio emergerà da sola, senza che si debba dire: “Che bella vista.” Questo è vero per ogni situazione simile.
C’è poco da aggiungere: è una spiegazione di come funziona lo “Show don’t tell” da manuale. Non bisogna raccontare che qualcosa è triste o che il paesaggio è bello; bisogna mostrare caratteristiche della cosa o del paesaggio in modo che l’impressione di tristezza o bellezza emerga da sola, senza bisogno che l’autore venga a spiegarlo. E bisogna farlo perché così l’impressione sul pubblico è più intensa. È più emozionante quando tristezza o bellezza le abbiamo davanti al naso, che non quando ci viene raccontato che qualcosa è triste o bello.
Dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1738 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.
Il magnifico panorama di Matsushima
In Occidente si trovano le prime tracce del concetto alla base dello “Show don’t tell” nell’opera The Philosophy of Rhetoric dell’abate George Campbell, opera che l’autore ha iniziato a scrivere nel 1750.
Nel Libro III, Capitolo I, Sezione I Campbell scrive:
I begin with proper terms, and observe that the quality of chief importance in these for producing the end proposed, is their specialty. Nothing can contribute more to enliven the expression, than that all the words employed be as particular and determinate in their signification, as will suit with the nature and the scope of the discourse. The more general the terms are, the picture is the fainter; the more special they are, it is brighter. The same sentiments may be expressed with equal justness, and even perspicuity, in the former way, as in the latter; but as the colouring will in that case be more languid, it cannot give equal pleasure to the fancy, and by consequence will not contribute so much either to fix the attention, or to impress the memory.
Comincio con i termini appropriati, e osservo che la qualità di maggior importanza per raggiungere lo scopo voluto è la loro specificità. Niente può contribuire maggiormente a rendere vivida la narrazione quanto l’uso costante di parole precise e specifiche nel loro significato, come meglio si adatta alla natura e allo scopo del discorso. Più i termini sono generici, più l’immagine è sbiadita; più i termini sono specifici, più l’immagine è vivida. Le stesse emozioni possono essere espresse con uguale onestà, e persino chiarezza, in una maniera o nell’altra; ma usando la prima maniera, le tinte saranno più fiacche, non sarà procurato lo stesso piacere, e di conseguenza sarà più difficile far mantenere l’attenzione o lasciare un’impressione duratura.
Campbell non è esplicito come il giapponese, ma anche qui stiamo parlando di “Show don’t tell”: non usare termini generici (che sono raccontare), ma usare termini specifici (che sono mostrare).
Confrontate:
Qualche tempo fa, Anna ha avuto un incidente e si è fatta male.
con:
Ieri Anna è scivolata. Le ruote del tram le hanno tranciato le dita delle mani.
Più passo dal generale allo specifico, più passo dal raccontare al mostrare, e più la narrazione è vivida. Suscita più interesse, mantiene sveglia l’attenzione, si imprime nella memoria. Se racconto che Anna ha avuto un incidente, questa informazione sarà dimenticata nel giro di poche pagine, se ne ho bisogno venti capitoli dopo dovrò ripeterla; se invece mostro l’incidente, rimarrà impresso magari per anni dopo che il lettore ha finito il libro.
Dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1750 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.
Qualcuno potrebbe pensare che queste siano eccezioni, che dopo Monzaemon e Campbell lo “Show don’t tell” sia sparito dalla coscienza collettiva per riaffiorare con il cinema. Non è così. Se ne è sempre discusso negli ultimi tre secoli.
Per esempio Herbert Spencer, il celebre filosofo, spiega il principio alla base dello “Show don’t tell” nel suo saggio del 1852 The Philosophy of Style – lo citerò in dettaglio più avanti nell’articolo.
E dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1852 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.
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Perciò, quando sentite qualche presunto autore starnazzare in questa maniera:
Io me ne frego delle regole della narrativa! Me ne frego dello “Show don’t tell”! Io non mi piego alle mode moderne pilotate dal marketing!
Ecco, sapete di avere di fronte un gonzo ignorante come una capra.
Il primo studio cinematografico ha aperto a Hollywood nel 1911
Non dico che per scrivere bene occorra aver studiato Campbell, Spencer o la drammaturgia giapponese del ’700, dico che per scrivere bene occorre evitare i pregiudizi idioti.
Potete scrivere quello che vi pare, come vi pare, ma prima di cadere in “ragionamenti” simili a quello dell’autore di cui sopra, informatevi. Non avete niente da perdere e tutto da guadagnare.
Il mostrare e la verosimiglianza
Arrivo all’Università, entro nell’aula, mi siedo e sussurro alla tizia accanto a me: «Ieri sera sono andata a cena con un vampiro.»
La risposta sarà: «Devi cominciare a dire scemenze la mattina presto?»
Questo perché ho raccontato un evento impossibile (almeno per le attuali conoscenze scientifiche).
Se mostro i segni dei canini sul collo e un filmato nel quale si vede un tipo che si trasforma in pipistrello nel mio salotto, difficilmente le mie affermazioni saranno ancora scemenze. In altre parole il mostrato fornisce verosimiglianza al mio raccontato.
E quando parliamo di narrativa fantastica la verosimiglianza è vitale. La verosimiglianza separa le storie degne di essere ascoltate dalle stronzate. Nessuno vuole perdere tempo con le stronzate.
In altri generi, a meno di errori clamorosi, una storia raccontata male rimane solo una storia raccontata male. Una storia di narrativa fantastica raccontata male è una stronzata. Suscita disgusto e disprezzo.
Racconto alla mia compagna di Università di essere rimasta a casa a guardare la TV. Ho visto un film con Chris Pine. Peccato che a quell’ora, su quel canale, ci fosse la partita. La mia amica penserà che mi sia sbagliata, capita.
Racconto di essere stata rapita dagli alieni, senza fornire alcuna prova. La mia amica penserà che io sia impazzita o che la voglio prendere in giro.
In una mail lettera del 1953, Raymond Chandler chiede al suo interlocutore se ha mai letto “Science Fiction” e conclude domandando se è vero che gli editori pagano per spazzatura del genere. Questo atteggiamento è per molti versi giustificato.
La narrativa fantastica ha fama di essere letteratura di serie B. È una fama meritata. Da un lato abbiamo un genere difficilissimo da scrivere, dall’altro una marea di autori convinti che sia il contrario e che si possa procedere a starnuti. Il risultato è una montagna di spazzatura (non solo in Italia) che travolge le opere buone.
Se scrivete fantastico fatelo seriamente. La noosfera non ha bisogno di essere inquinata da nuovi rifiuti.
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Rendere verosimili elfi e vampiri può sembrare un’impresa disperata. E non c’è dubbio che una fetta di pubblico non accetterà mai questo tipo di narrazioni, non importa quanto l’autore sia bravo.[3] Però c’è anche chi ha fatto del rendere verosimili elfi e vampiri una professione, e non parlo degli scrittori. Parlo di sensitivi, ufologi, cartomanti, fantarcheologi & ciarlatani assortiti. I tizi che ti vendono la Croce Magica di San Germano, mistica reliquia infusa di potere spirituale; cura il mal di schiena e ti permette di parlare con il gatto morto.
Per cavarti i 200 euro della Croce Magica, questi signori usano una serie di tecniche, tra le quali lo “Show don’t tell”.
Se io dico:
Qualcuno qualche volta ha provato la Croce Magica ed è stato meglio di prima.
Non convinco nessuno. Non convinco nessuno perché racconto. Perché i termini sono vaghi e generici.
Se dico:
Mi chiamo Roberta Cardato, ho ventiquattro anni, abito a Tresnate provincia di Varese. Tutto è cominciato il 24 dicembre, la vigilia. Ero in piedi sulla sedia per mettere la stella in cima all’albero di Natale, quando la mia gatta Birba mi è saltata tra le gambe. Ho perso l’equilibrio e sono caduta di schiena. Una botta terribile. Sono rimasta inchiodata a letto tutte le vacanze e il dolore non è passato. Medici, chiroterapisti, antibiotici, antinfiammatori: niente, non funzionava niente. Finché a San Valentino, il mio fidanzato, Mattia, non mi ha regalato la Croce Magica di San Germano. Appena l’ho presa tra le mani ho sentito un calore benefico. È bastato un giorno con la Croce al collo e già stavo meglio. Una settimana dopo ero guarita, in tempo per andare a sciare con Mattia! E adesso non ho più neanche paura di cosa succederà alla morte della Birba, perché grazie alla Croce Magica di San Germano, potremo sempre rimanere in contatto.
L’impatto è ben diverso. Non c’è più “qualcuno”, “qualche volta”, c’è una storia concreta, specifica, precisa. L’effetto taumaturgico della Croce è mostrato in un contesto. E la storia di Roberta potrebbe essere la tua. Anche tu puoi guarire! Se hai 200 euro (pagamento in contrassegno, bonifico o via PayPal).
I venditori della Croce elencano decine di casi come quello di Roberta; riportano la testimonianza del dottor De Carolis, che ha svolto sulla Croce seri esperimenti scientifici; riproducono sul loro sito web la foto di Elvis che stringe la Croce tra le dita.
Creano una narrazione basata su una marea di dettagli concreti, finché il gonzo di turno pensa: “Non è possibile che si siano inventati tutto! Non è possibile che siano tutte coincidenze, non è possibile che così tanti fatti siano falsi! Ecco i 200 euro!”
E invece i fatti sono tutti falsi e la Croce è una patacca di plastica che prodotta in serie costa 50 centesimi.
Ma non importa. Non importa la “verità” come valore assoluto, importa che il lettore, quando legge un romanzo, si trovi nella stessa condizione mentale del gonzo che sgancia i 200 euro. Per quanto razionalmente sappia che i vampiri e gli elfi non esistono, la narrazione è così precisa e concreta che non le si può negare un fondo di verità. E se una storia di elfi o di vampiri è vera, è degna di essere ascoltata. Dunque il lettore si sorbisce felice le 400 pagine del romanzo e quando uscirà il secondo volume correrà a comprarlo.
San Germano di Parigi
Ok, questo in teoria. In pratica il successo commerciale deriva da molti altri fattori; la qualità è un fattore secondario. Tante volte il successo arride a chi bara: Twilight è inverosimile, ma può permetterselo perché non è fantasy. Edward Cullen è giovane, bello (letteralmente splende!), ricco, ecc.; la Meyer racconta che è un vampiro, ma in verità mostra il cliché del Principe Azzurro. Il cuore del racconto non ha niente a che vedere con il fantastico.
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Per ricapitolare: gli scrittori di narrativa fantastica chiedono ai propri lettori di credere all’impossibile. Per convincere i lettori hanno a disposizione un arsenale di tecniche narrative. Una delle tecniche più potenti consiste nel narrare concatenando una serie di particolari concreti; ovvero narrare mostrando la storia. Non ci sono ragioni per rinunciare a quest’arma.
Riconoscere & sopprimere il raccontato
Mostrare è più efficace di raccontare. Purtroppo mostrare è anche più difficile: richiede esercizio, attenzione, documentazione – puoi raccontare quello che non sai: “Anna è salita sul Boeing 747, si è seduta al posto del pilota e ha fatto decollare l’aereo”, non lo puoi mostrare; non puoi fornire particolari concreti riguardo a come si pilota un aereo se non ti sei documentato a proposito.
Se si scrive senza disciplina, a furia di risate e starnuti, la tendenza istintiva è di scivolare nel raccontato. Quando si racconta le parole fluiscono rapide, senza fatica, la storia procede spedita. Peccato che il risultato sia spazzatura.
Ci vuole molta pratica prima che scrivere mostrando divenga naturale. Per raggiungere questo obiettivo, il primo passo è rendersi conto di quando si racconta invece di mostrare.
L’indicatore numero uno è la presenza di termini astratti o generici.
Questo non vuol dire che per forza ogni termine astratto o generico sia sbagliato, vuol dire che, quando rileggiamo la storia, dobbiamo prendere ognuno di questi termini come un campanello d’allarme. Ci potrebbe essere un problema. Occorre verificare se quel termine è accettabile o no.
Michele era un ragazzo molto alto.
Non ci sono termini astratti, ma “molto alto” è un’espressione generica. Campanello d’allarme! Un brutto raccontato con zampette pelose scorrazza sul manoscritto. Bisogna schiacciarlo sotto il tacco! … Sigh.
Due strade: dobbiamo decidere se l’altezza di Michele ha un ruolo nella storia, oppure se è solo “colore”, se è solo un dettaglio per dare credibilità al personaggio.
Nel primo caso c’è poco da fare: bisogna imbastire una o più scene nelle quali l’altezza giochi un ruolo importante – per esempio si può mostrare Michele mentre gioca a basket.
Nel secondo caso, basta un pizzico di furbizia, basta “spacchettare” l’altezza in un’immagine concreta:
Michele chinò la testa salendo sulla carrozza della metropolitana.
Oppure, in maniera indiretta:
Anna si alzò in punta di piedi per baciare Michele sulle labbra.
Notare che potrebbero essere le carrozze particolarmente basse. O magari Anna è una nana. Ma ha importanza? In fondo non esiste un “molto alto” in assoluto, esiste un “molto alto” in rapporto alle porte o alle fidanzate; in rapporto alle taglie dei vestiti o ai letti degli alberghi.
E nessuno vieta di utilizzare l’intero ventaglio dei dettagli: porte, fidanzate, vestiti, letti. Anzi, è meglio: secondo Flaubert, un particolare sembra vero solo quando è ribadito almeno tre volte.
Per quel che ho letto di lei, Katie MacAlister è una pessima autrice. Ma anche una pessima autrice quando deve parlare delle dimensioni del protagonista maschile non si rifugia nel dire che “ce lo aveva grosso.” Infatti in Steamed: A Steampunk Romance scrive:
“You appear to be larger than I expected,” I said, wrapping one hand around him, and noting how much was left over.
[...]
“You’re not quite two hands, in case you were wondering. That is good—two hands’ worth would be excessive. I could not approve of two hands’ worth. But one hand and slightly more than a half of a second hand—that is reasonable. I approve of your dimensions, even if they are a bit more robust than I had anticipated.”
“Mi sembri più grosso di quanto mi attendevo,” dissi, passandoci una mano intorno, e notando quanto era rimasto.
[...]
“Non sei proprio due mani, nel caso te lo stessi chiedendo. Il che va bene – una grandezza di due mani potrebbe essere eccessiva. Non potrei approvare una grandezza di due mani. Ma una mano e un po’ più di metà della seconda mano – è ragionevole. Approvo le tue dimensioni, anche se sei un po’ più robusto di quanto mi aspettassi.”
Puro romanticismo, altro che Twilight. Circa. Ho usato questo esempio un po’ volgare per una ragione, che illustrerò in seguito. Intanto il principio rimane lo stesso: non raccontare che Michele è alto o ce l’ha grosso, ma mostrare nel concreto altezza e grossezza. Molto alto è generico, Anna in punta di piedi è concreto; grosso è generico, una mano e poco più della metà dell’altra è concreto.
Copertina di Steamed: A Steampunk Romance
Ho detto che più si è precisi, più si evita il generico e l’astratto meglio è. Si potrebbe pensare che non ci sia niente di più preciso dei numeri. Però:
Michele era alto 2 metri e 14 centimetri.
Funziona poco. A meno che il lettore non sia un geometra, non è in grado di dare concretezza ai numeri. Michele che china la testa per non sbatterla o Anna in punta di piedi il lettore li vede, i numeri no.
Appena superiamo le dita di una mano, i numeri perdono significato.
In piazza c’erano tre persone.
Chiaro e concreto.
In piazza c’erano 82 persone.
Astratto. Non ha significato per il lettore.
Un altro esempio:
La torre era alta 286 metri.
È astratto.
La cima della torre spariva avvolta tra le nubi.
È concreto.
Consideratela in questo modo: quando si parla di misure, si fa sempre una similitudine. Quando scrivo che la torre è alta 286 metri, in realtà scrivo: “l’altezza della torre è simile all’altezza che si ottiene impilando 286 sbarre di platino-iridio[4] lunghe un metro.” Ed è una similitudine difficile da visualizzare. Viceversa, se parlo di altezza delle nubi, il lettore non ha problemi a vedere la scena, perché ha esperienza quotidiana di nubi.
Le similitudini devono semplificare il concetto, non renderlo più complesso. Mettere in rapporto Michele con una porta o con una ragazza in punta di piedi è semplice, metterlo in rapporto a 214 unità di misura molto meno.
Lo stesso vale per qualunque altro tipo di misurazione. Se non ci sono ragioni specifiche (per esempio il punto di vista è dell’architetto della torre giusto impegnato a progettarla), i numeri vanno evitati.
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Ho preso come esempi due termini generici (alto e grosso), lo stesso concetto si applica ai termini astratti, come la vecchiaia esaminata a inizio articolo.
“Michele è generoso”, “Michele ha un carattere solare”, “Michele adora la compagnia degli animali”, “Michele odia leggere” e così via. Questo è raccontare, non è un granché, se si vuole diventare bravi scrittori bisogna sforzarsi di mostrare.
Fiammetta era una fatina piccina e permalosa.
Diventa:
La fatina Fiammetta strizzò gli occhietti, si coprì il faccino con il dorso della manina. La mezzaluna di luce brillava sopra di lei. Il gatto, doveva essere stato il gatto. Il felino si era strusciato contro la teiera e aveva smosso il coperchio.
Fiammetta si piegò sulle ginocchia. Saltò. Le dita afferrarono il bordo di porcellana della teiera. Chiuse le ali e spinse con la schiena contro il coperchio. L’intera mattinata intrappolata al buio. Nessuno l’aveva mai trattata così! Diede un colpo di reni. Il coperchio scivolò giù. La fatina volò fuori dalla teiera.Fiammetta sgusciò tra le ante accostate della finestra. Cinzia era in giardino, seduta tra l’erba, la bambola della principessa Himiko in una mano, un drago di plastica nell’altra. Fiammetta volò davanti al viso della bambina.
Cinzia sgranò gli occhi. «Oh… scusa. Scusa! Stava arrivando la mamma e allora. Per nasconderti.»
Fiammetta incrociò le braccia. «E poi ti sei dimenticata di me. Sai, comincio a sospettare che tu non gradisca la mia compagnia.»
La bambina era sbiancata. «No, no. Scusa.»
«Non mi interessano le tue scuse. Hai sbagliato e devi pagare. Avanti, non farmi perdere tempo.»
Cinzia lasciò cadere il drago. Si morse il labbro. Lacrime scesero sulle guance arrossate. Offrì alla fatina la mano aperta, il palmo verso l’alto.
La fatina tagliò il palmo con una scheggia di vetro; un solco di sangue dal mignolo al pollice. «E se i tuoi genitori scoprono qualcosa, ti cavo gli occhi.»
Fiammetta rinfoderò la scheggia sotto il vestitino.
Sono stata forse troppo stringata, si può fare di meglio, ma spero che il concetto sia chiaro.
La fatina Fiammetta
Una conseguenza di quanto visto finora è la norma che prescrive di evitare gli avverbi.
Certo, ci sono avverbi da evitare semplicemente(…) perché inutili – il classico “sbatté violentemente la porta”, come se fosse possibile “sbattere” senza violenza.
Certo, ci sono avverbi da evitare perché sostituibili da verbi più precisi – il classico “chiuse violentemente la porta” che diventa il più elegante “sbatté la porta”.
Ma in generale la ragione che dovrebbe spingere lontano dagli avverbi è che gli avverbi raccontano. Nella quasi totalità dei casi sono termini astratti o generici.
Michele scrisse l’articolo accuratamente.
È troppo generico. Meglio mostrare Michele che consulta per due ore Wikipedia, che scrive una mail a un suo amico esperto in materia, che fa un giro alla biblioteca locale per spulciare le pagine di un vecchio quotidiano che non si trova su Internet.
E se invece l’accuratezza non ha importanza per la storia, inutile inserirla. Come ho già spiegato, il raccontato non rimane impresso in mente, dunque perché sprecare inchiostro?
Notare che:
Michele scrisse l’articolo con cura.
È lo stesso. È un pochino meglio perché “con cura” si legge più spedito di un farraginoso ac-cu-ra-ta-men-te, ma il problema di fondo rimane. Non fate i “furbi”, non è cambiando la singola parola che si risolve la questione.
Un errore comune è quello di raccontare e mostrare (o raccontare e ri-raccontare in maniera meno generica):
Michele scrisse l’articolo con cura: consultò per due ore Wikipedia, chiese via mail un parere al suo amico esperto di lucertole, passò il pomeriggio a spulciare i vecchi numeri di Rettili Oggi.
È un errore dovuto all’insicurezza. L’autore (in)consciamente dice al lettore: “Visto che non parlo a vanvera? Ho scritto ‘con cura’ mica per caso, infatti ecco tutti i fatti a dimostrazione.”
Non funziona. I casi sono due: o il lettore la vede come l’autore (e dunque è superfluo specificare che l’articolo era scritto “con cura”, i fatti già lo mostrano), oppure il lettore rimane di stucco. Ma come, pensa, due ore su Wikipedia e un pomeriggio a sfogliare vecchie riviste lo chiami documentarti con cura? Ma quando mai! Questo autore proprio non ne capisce un’acca di cosa voglia dire scrivere un articolo accuratamente!
Dunque la parte raccontata (“con cura”) o non ottiene alcun effetto, oppure ottiene un effetto negativo. Non mettetela!
La domanda interessante è: come faccio a trasmettere al lettore che Michele scrive accuratamente? Se lo racconto, il lettore non ci crederà. Se lo mostro, il lettore potrebbe non essere d’accordo con me.
La riposta è: non puoi. Non si può forzare la morale della favola (Michele che scrive accuratamente è la “morale” del passare la giornata a documentarsi). Si può mostrare nella maniera più vivida possibile quello che è successo, dopodiché il giudizio spetta al lettore.
Anna è credente. Rispetta i comandamenti e va sempre a messa. Un giorno, mentre attraversa la strada, è stirata da un autobus. È portata in fin di vita all’ospedale, dove le amputano le gambe.
Qual è la morale? Che Dio non esiste o non si prende cura dei suoi fedeli? Oppure che Dio esiste e ha sempre un occhio di riguardo per chi crede in Lui? (di solito chi finisce travolto da un autobus muore).
Deciderà il lettore. Se si cerca di forzargli la mano lo si imbizzarrisce e basta.
Lo stesso discorso fatto per gli avverbi vale per gli aggettivi. Perché si consiglia di usarli con parsimonia? Perché gli aggettivi concreti e specifici (rosso, ruvido, umido, ecc.) sono pochi. Gli altri sono aggettivi astratti o generici e come tali vanno soppressi. Non ascoltate i lamenti degli aggettivi, metteteli al muro e fucilateli.
Era una
bellamattinata di ottobre.Un’allegraAnna si stava recando alsuo prestigiosolavoro presso unarinomataditta di tostapane.
Se la bellezza della mattinata, l’allegria di Anna, il prestigio del lavoro o la fama della ditta hanno importanza per la storia, si mostrano. Altrimenti gli aggettivi vanno giustiziati e basta. No, non ci sono scuse che tengano.
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Altre bestiacce figlie del raccontato che spesso non sono identificate come tali:
Le espressioni: “provò a”, “tentò di”, “(non) riuscì a”, “cercò di” e così via. Sono sempre un raccontare.
Per esempio, Anna è inseguita da Michele armato di mannaia:
Anna corse alla porta. Provò ad aprirla ma non ci riuscì.
Bah! Così scrivono gli autori di Serie C (gli autori italiani scrivono: “Provò furiosamente ad aprirla, ma non ci riuscì nonostante ci avesse provato disperatamente.”); gli autori decenti tagliano il “provò” e il “riuscì” e mostrano le dita sudate che scivolano sulla maniglia, la maniglia che gira a vuoto, i pugni picchiati contro il battente, i capelli sugli occhi, il rumore dei passi di Michele e ogni altro particolare degno di nota.
Più difficile, più faticoso, più impegnativo. E allora? Nessuno sostiene che scrivere narrativa sia facile e indolore.
A furia di essere protagonista degli esempi, a Michele sono saltati i nervi
Il battito artificiale del tempo: “prima”, “dopo”, “poi”, “in seguito” e anche “pochi istanti”, “improvvisamente”, “al momento” e così via. Sono sempre un raccontare.
Anna entrò nella stanza. Poi si sedette e prima di cominciare a studiare si infilò gli occhiali, dopo averli puliti. Fissò la copertina del libro di storia per qualche istante. Improvvisamente le venne voglia di mangiare un gelato, cosa che avrebbe fatto in seguito.
Si sente tra le righe la presenza del narratore, qualcuno che ha già assistito ai fatti e si permette di ordinarli come gli pare. Non siamo nel vivo dell’azione. Siamo in poltrona ad ascoltare una storia, che ci viene confermato è solo una storia. Non va bene.
Il tempo deve essere scandito dalle azioni, se non scorre fluido occorre cambiare le azioni, non intervenire inserendo “istanti” o “dopo” o “poi” o, peggio ancora, “prima”.
Prendiamo:
Anna fissò la copertina del libro di storia per qualche istante.
Posso togliere gli istanti senza colpo ferire:
Anna fissò la copertina del libro di storia, le venne voglia di mangiare un gelato.
Mentre il lettore legge la frase, “qualche istante” è passato, non c’è bisogno di ribadirlo.
Se invece voglio sottolineare la pausa, il modo giusto è aggiungere il mostrato:
Anna prese una matita e disegnò un fiorellino nell’angolo in alto a destra della copertina.
Anna perde tempo e lo vediamo. Perciò:
Anna entrò nella stanza.
Poisi sedette.
Oppure:
Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.
Piccolo quiz per verificare se siete entrati nello spirito dello “Show don’t tell”:
È mostrato o raccontato?
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Parolacce quali: “pressappoco”, “quasi”, “circa”, “piuttosto” e così via. Sono sempre un raccontare.
Il cervello degli esseri umani non ha le capacità per distinguere una cosa dal “quasi” quella cosa, o da “pressappoco” quella cosa, o da “circa” quella cosa.
Le ali della fatina sono pressoché rosse.
È preciso identico uguale non-cambia-una-virgola dallo scrivere:
Le ali della fatina sono rosse.
Perciò tanto vale mettere il “pressoché”. Se invece il “pressoché” indicava una sostanziale differenza tra le ali rosse e le ali pressoché rosse, occorre mostrare.
Le ali della fatina sono rosse, con macchioline bianche lungo il profilo.
Chiedetevi perché avete scritto che una cosa è quasi quella cosa o circa quella cosa. Se c’è una ragione specifica mostratela, altrimenti togliete i quasi e i circa, i piuttosto e i pressappoco.
Fatina con le ali pressoché rosse
Analizziamo questo passaggio, scritto da un autore che ho paura si illuda di essere più bravo di quanto in realtà sia:
L’Università era una sorta di città-nella-città, con le sue mura, i suoi viali, i suoi dormitori e anche un paio di officine idromeccaniche, oltre alla bottega di un pittore.
Abbiamo l’errore visto in precedenza di prima raccontare (“città-nella-città”) e poi mostrare (viali, dormitori, officine, bottega). In più c’è quel brutto “una sorta”.
“Una sorta” rientra nella categoria dei “quasi”, “circa”, “piuttosto”. Anche se nel caso specifico le motivazioni dietro “una sorta” sono diverse rispetto alle motivazioni del “pressappoco” legato alle ali della fatina. Qui è più l’autore che sussurra al lettore: “Ho detto città-nella-città? Cioè, volevo dire una sorta di città-nella-città. Eh, non prendermi sempre alla lettera. Una sorta.” Ma se persino l’autore ha dubbi di verosimiglianza su quello che scrive, figuriamoci il lettore.
E la soluzione giusta è la solita: non esprimere giudizi (“città-nella-città”) dei quali non si è neanche convinti (“una sorta”), ma mostrare questa benedetta città-nella-città; il lettore stabilirà lui se era una vera città-nella-città o “una sorta”. Infatti il paragrafo non dovrebbe neanche cominciare con “L’Università è”, dovrebbe cominciare con il personaggio punto di vista che percorre i viali della Università-città e vede, sente, annusa il mondo intorno a sé.
Come esercizio, analizzate voi questo piccolo capolavoro della nostra amata Licia:
Era una sorta di castello piuttosto massiccio [...]
Lei è sempre la migliore!
* * *
Un paio di esempi nei quali un termine generico o astratto non indica dannoso raccontato.
Erano rimaste due fette di torta. Anna fece la linguaccia a Michele e prese la fetta più grossa.
Il “grossa” serve solo a distinguere una fetta dall’altra. Non importa quanto le fette siano grosse, qui lo scopo è mostrare il rapporto tra Anna e Michele, non la torta.
Anna pensò che Michele era un gran figo.
Se scrivo così con lo scopo di descrivere l’aspetto fisico di Michele sbaglio, ma se scrivo per mostrare il carattere superficiale di Anna è giusto. I personaggi possono pensare in termini astratti o generici; se voglio aprire una finestra sui loro meccanismi mentali, posso usare termini astratti o generici.
Ma devo essere consapevole di quello che sto facendo, tenendo presente che:
• È una tecnica rischiosa. Se voglio mostrare che Anna è frivola, forse faccio prima a farle collezionare scarpe rosa.
• Difficilmente posso ottenere un doppio risultato. Qui ho mostrato il carattere di Anna e basta. Non ho descritto Michele. Se voglio che Michele sia sul serio un gran figo, dovrò comunque in altro momento mostrarne la “figaggine”.
In generale, più la telecamera è in profondità nella testa del personaggio, più si hanno margini di manovra. Se scriviamo in prima persona e il mostrare va in conflitto con il naturale flusso di pensiero del personaggio, possiamo decidere di non mostrare.
Intendiamoci bene: questo non significa che in prima persona si può scrivere come capita, significa che bisogna farsi in quattro per fornire un flusso di pensiero naturale e allo stesso tempo mostrare il più possibile. Ci sono più margini di manovra, ma nel complesso il compito è più arduo.
È lo stesso problema dei dialoghi: devono essere interessanti e devono essere naturali.
Scrivendo in prima persona con il punto di vista di Michele:
Odio Anna dal profondo del cuore.
È un pensiero astratto. È un pensiero naturale? Sì, può esserlo. Dunque tutto bene? Non proprio. Dovete essere orgogliosi. Non accontentatevi del 6 stiracchiato, del minimo sindacale.
Magari se scrivete:
Vorrei legare Anna e ficcarle chiodi arrugginiti nelle gengive.
Il pensiero suona ancora naturale (per certi versi di più), con il vantaggio che avete mostrato l’odio. I sentimenti diventano immagini. Parole a caso diventano narrativa.
* * *
Seguire il principio dello “Show don’t tell” implica rinunciare al narratore onnisciente. Infatti il narratore onnisciente per essere tale deve esprimere concetti astratti o generici. Se descrive dettagli concreti, non c’è bisogno di lui, basta prendere il punto di vista di un personaggio che osservi quei dettagli.
Il narratore onnisciente è quello che scrive:
[Il nostro eroe era] più amico di Dickens che dei videogiochi, non era uno stupido né uno svagato.
Ovvero una sfilza di termini generici o astratti. Se il narratore avesse mostrato il nostro eroe che rinuncia a un coupon per 6 mesi gratis a World of WarCraft e torna a sprofondarsi in poltrona per leggere Dickens, non ci sarebbe stato bisogno del narratore medesimo. Sarebbe bastato il punto di vista del nostro eroe (o il punto di vista del personaggio che gli offre i 6 mesi gratis).
Se mostrate non avete bisogno di un narratore onnisciente. E dato che è sempre meglio mostrare, non c’è alcuna scusa per tirar dentro il narratore onnisciente in un romanzo.
Se sentite il bisogno irrefrenabile di commentare le vostre stesse storie, scrivete un saggio. Lì potrete spiegare con agio il vostro amore per Dickens o il disprezzo per i videogiochi. Nessuno vi accuserà di interferire, anzi, quelli che compreranno il libro lo faranno proprio per ascoltare la vostra opinione.
Secondo piccolo quiz per verificare se siete entrati nello spirito dello “Show don’t tell”:
È mostrato o raccontato?
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* * *
Quando fanno capolino termini astratti o generici, lì intorno zampetta l’insetto viscido del raccontato. Ma se io scrivo:
Anna strangolò l’orco.
Sto mostrando o raccontando? “Anna”, “strangolare” e “orco” sono termini specifici, non sono generici o astratti; dunque è mostrare? Sì e no. Potrebbe essere un mostrare adeguato se il punto di vista fosse esterno all’azione (per esempio un terzo personaggio che guarda), ma se il punto di vista è di Anna o dell’orco non ci siamo.
Bisogna sporcarsi le mani. Nel caso in esame, letteralmente: sarebbe opportuno mostrare le dita di Anna attorno al collo della bestia, i latrati dell’orco, il tentativo del mostro di azzannare Anna, la puzza di marcio, la bava che le bagna la faccia, lo sforzo di lei, i muscoli tesi, le unghie che si spezzano contro le squame e ogni altro altro particolare concreto che renda vivida la situazione. Come già visto quando Anna doveva aprire la porta inseguita da Michele.
“Sporcarsi le mani” non è solo legato all’azione violenta, “sporcarsi le mani” è anche evitare di scrivere:
La biblioteca del professor Polipo era colma di trattati sui calamari.
Ma andare a descrivere quel particolare libro con il calamaro d’oro imbullonato alla costa, quell’altro libro che puzza di pesce ed è pieno di sottolineature, e il terzo libro con le pagine in pelle di pinguino – assumendo che tali volumi siano importanti per la storia e che il personaggio punto di vista sia interessato alla letteratura dedicata ai cefalopodi.
Animals of the Ocean, in Particular the Giant Squid
La narrativa dovrebbe essere una catena di dettagli scelti con cura, evitando il più possibile di condensare. O, per usare una metafora sanguinolenta: la narrativa è una sega per amputazioni. Più inserite particolari concreti, più usate parole specifiche, più i denti della sega sono fitti e affilati. Quando scivolate nell’astratto o nel generico ne nascono denti spuntati, arrotondati e inutili.
La buona narrativa taglia che è un piacere, neanche vi accorgete di segare le ossa! La cattiva narrativa è un macello. È un lavoro fatto a metà, una ferita purulenta, una gamba che penzola ancora attaccata con brandelli di carne. E in più vi siete insozzati da capo a piedi. La gonna non verrà più pulita.
La timidezza e il famigerato stile evocativo
Anna posò sul tavolo una scatoletta graziosa.
Perché uno scrittore mette quel brutto “graziosa”, invece di mostrare l’intrinseca graziosità?
Escludiamo gli scrittori ignoranti, quelli che non hanno idea di cosa si intenda per “Show don’t tell”, quelli che procedono a starnuti e risate – la quasi totalità dei pubblicati in Italia in ambito fantasy.
Esclusi questi, che hanno scritto “graziosa” perché sì!!! perché è fantasy!!! perché scrivere è un sogno!!!, alcuni mettono “graziosa” per un problema di timidezza.
Perché hanno paura del giudizio del pubblico. Hanno paura che se scrivessero che la scatola è avvolta in carta rosa con nastro rosa il pubblico potrebbe pensare che sono loro frivoli e non Anna; hanno paura che se scrivessero che la scatola è avvolta in carta regalo con Topolino e Paperino il pubblico potrebbe pensare che sono loro infantili e non Anna.
Fregatevene!
Se volete essere scrittori, i giudizi di cui vergognarsi sono quelli negativi sulla vostra tecnica narrativa, non sul vostro carattere desunto da come mostrate i personaggi.
La moralità, se si vuole parlare di moralità in riferimento alla narrativa, è legata al come non al cosa. Se scrivete un romanzo con protagonista un nazista pedofilo che brucia la foresta amazzonica e lo scrivete bene, siete degni di ammirazione; se scrivete un romanzo pieno di Buoni Sentimenti™ e lo scrivete con i piedi, siete da biasimare. Qualunque giudizio che esuli dagli aspetti tecnici dello scrivere potete ignorarlo.
Il brano tratto da Steamed era un po’ volgare. Be’, avrebbe dovuto esserlo di più. Se scegli di scrivere un mezzo porno (come si è rivelato quel romanzo), è inutile che ti nascondi dietro a un dito. Vai fino in fondo.
Se scrivi un romanzo di guerra, mostra quello che succede. La narrativa non è l’equivalente su carta delle tavole rotonde in TV, dove gente che non ha mai imbracciato un fucile chiacchiera di battaglie a migliaia di chilometri di distanza e il conduttore raccomanda di mantenere un tono pacato. Quella è fuffa. La narrativa, la buona narrativa, è viscerale. Il fucile lo hai in mano e la battaglia è intorno a te. Nessuna timidezza, nessun tentennamento. Se hai problemi con la violenza lascia stare i romanzi di guerra e scrivi qualche altro genere – ma non esistono generi “tranquilli”, la buona narrativa è sempre emozionante e coinvolgente.
Parlo di “buona narrativa”, non necessariamente di “narrativa che piace” o di “narrativa che ha successo”. Un sacco di gente, in maniera più o meno inconscia, sceglie romanzi “tranquilli”. Il romanzo d’orrore che non spaventa, il romanzo di guerra dove non muore nessuno, il romanzo rosa senza passione, il romanzo di fantascienza privo di sense of wonder e magari tra qualche anno il romanzo di Bizarro Fiction senza bizzarrie. È il tipo di narrativa che si legge proprio per non emozionarsi, per spegnere il cervello; per occupare il tempo a vuoto. Scelta legittima, ma per quanto questi romanzi possano piacere, rimangono pessimi romanzi.
Una statua dallo splendore del marmo di luna e una bellezza straziante da far desiderare anche l’Inferno per poterla vedere ancora. L’aveva distratta per un istante, emergendo sul terrore folle che le invadeva il cervello.
Né morto né vivo, una creatura del sangue che cammina per l’eternità su quella soglia che agli umani è consentito varcare una volta soltanto, senza ritorno.
Lui invece, da qualche parte lungo i secoli, era tornato.
Il suo potere era talmente forte che gli aggressori non erano riusciti a vederlo. Eloise era sicura che non si fossero accorti di lui fino a che non era piombato loro addosso e adesso nel buio cieco si stava svolgendo un massacro: scorgeva solo sagome, ma aveva la percezione netta del sangue che scorreva, caldo e metallico, macchiando la polvere della strada. La misericordia del buio le celava alla vista l’immagine di corpi smembrati e della forza umana opposta a un’altra forza che di umano non aveva nulla.
Questa schifezza inqualificabile viene da un romanzo fantasy italiano regolarmente pubblicato da casa editrice non a pagamento. Il passaggio di cui sopra è persino citato su un blog “letterario”(…) a testimonianza delle qualità dell’opera, di uno stile “ricco e ricercato” adatto per “chi ama immergersi completamente nelle realtà e nelle atmosfere evocate dalle pagine.”
Il passaggio di cui sopra è in realtà uno sfolgorante esempio di narrativa “tranquilla”, direi persino “innocua”. Si parla di gente così affascinante “da desiderare l’Inferno per poterla vedere ancora”, si parla di “eternità”, si parla di “massacro”, si parla di “forza che di umano non aveva nulla”. Bene. Siete turbati, eccitati, disgustati? Sentite il pranzo che vi risale per l’esofago? Eppure è questa la reazione che dovrebbe suscitare un “massacro”. Non c’è il briciolo di un’emozione.
Narrativa di questo genere è una perdita di tempo e nient’altro. È acqua tiepida, senza sapore. E lo è non per l’argomento, ma per come è scritta.
* * *
Esclusi gli autori che non saprebbero distinguere un romanzo da un tostapane e gli autori timidi, esiste una terza categoria di imbrattacarte che scrivono “scatoletta graziosa”: i gonzi che blaterano di “stile evocativo” o di “suggestioni”.
Il problema è che costringere il lettore a “evocare” non è una buona idea. Lo spiega Herbert Spencer nel già citato saggio The Philosophy of Style.
Herbert Spencer
Nella parte I, ii-9, Spencer illustra il principio alla base dello “Show, don’t tell”, usando il seguente esempio, che sarà ripreso in The Elements of Style di Strunk & White:
We should avoid a sentence as: – “In proportion as the manners, customs, and amusements of a nation are cruel and barbarous, the regulations of their penal code will be severe.” And in place of it we should write: – “In proportion as men delight in battles, bull-fights, and combats of gladiators, will they punish by hanging, burning, and the rack.”
Occorre evitare frasi come: – “Quanto più gli stili di vita, i costumi e i divertimenti di una nazione sono crudeli e barbari, tanto più le norme del codice penale saranno severe.” Invece bisognerebbe scrivere: – “Quanto più gli uomini si dilettano in combattimenti, corride e scontri tra gladiatori, tanto più saranno puniti con l’impiccagione, il rogo e la tortura della ruota.”
Fate un confronto con questo frammento, scritto da un autore che ho paura si illuda di essere più bravo di quanto in realtà sia:
Nei cinque mesi trascorsi laggiù aveva visto più orrori che nel resto della sua vita: dalle piccole violenze domestiche, quasi banali, agli omicidi in pieno giorno, agli stupri di gruppo. E peggio.
“piccole violenze domestiche, quasi banali”, “omicidi in pieno giorno”, “stupri di gruppo”, “peggio”, è troppo generico; è il tipo di scrittura fiacca che da secoli viene suggerito di evitare. Dunque quali sono gli orrori? Gli orrori sono sempre specifici: un bambino a cui hanno cavato gli occhi con un apribottiglie, una ragazza sodomizzata con un attizzatoio, un uomo bastonato a morte da una banda di castori mannari.
Sottolineo infine il solito errore di prima raccontare (“orrori”) e poi “mostrare” (piccole violenze, omicidi, stupri, peggio).
In ii-10, Spencer chiarisce l’esempio:
This superiority of specific expression is clearly due to a saving of the effort required to translate words into thoughts. As we do not think in generals but in particulars – as, whenever any class of things is referred to, we represent it to ourselves by calling to mind individual members of it; it follows that when an abstract word is used, the hearer or the reader has to choose from his stock of images, one or more, by which he may figure to himself the genus mentioned. In doing this, some delay must arise – some force expended; and if, by employing a specific term, an appropriate image can be at once suggested, an economy is achieved, and a more vivid impression produced.
Questa superiorità dei termini specifici è chiaramente dovuta al risparmio di energie nel trasformare le parole in pensieri. Noi non pensiamo in termini generali, ma in termini particolari – quando si fa riferimento a una classe di oggetti, noi la rappresentiamo richiamando alla mente singoli membri di essa; ne segue che quando viene usata una parola astratta, l’ascoltatore o il lettore devono pescare una o più immagini dal proprio repertorio e attraverso queste raffigurarsi la classe menzionata. Nel fare questo si consuma del tempo – e si consumano delle energie; se, utilizzando termini specifici, può essere suggerita immediatamente l’immagine più adatta, si ottiene un risparmio e si produce un’impressione più vivida.
In altre parole, cosa succede nella testa del lettore quando legge della scatoletta “graziosa”? Se il lettore non è coinvolto, non succede niente. Ignora il “graziosa” e tira dritto. Se il lettore è più di buon umore, esce dalla storia e comincia a frugare nella sua mente. Cerca rappresentanti concreti della graziosità per trasformare la formulazione astratta in immagine.
E la faccenda può essere lunga e noiosa. Magari per il lettore il culmine della graziosità sono i coniglietti e lì è una scatola; magari non c’è niente di più grazioso delle fatine e lì è una scatola. Quando pure recupera una scatoletta compatibile, non sarà la scatoletta che pensa l’autore.
L’autore poi scriverà che Anna si mette in tasca la scatoletta e il lettore proverà fastidio, perché la sua di scatoletta in tasca non ci entra.
Perdita di tempo a cercare, conseguente noia e adesso fastidio. E se la scatoletta graziosa del lettore fosse un regalo della fidanzata – il giorno prima che la povera ragazza crepasse stritolata da una macchina agricola? Evocazione riuscita! Solo dei sentimenti opposti a quelli che si volevano comunicare!
Quando uno “scrittore” parla di “suggestioni”, in realtà confessa: “Sono pigro, non so scrivere e non ho voglia di imparare; spero che tutto il lavoro lo faccia il lettore dopo avermi pagato 20 euro.” Siete autorizzati a sputare in faccia a gente del genere.
Lo scopo della narrativa è acchiappare il lettore per la collottola e trascinarlo nella storia, metterlo qui-e-ora con un fucile in mano in mezzo ai proiettili che fischiano. Se il lettore rimane in poltrona a “evocare”, il romanzo è EPIC FAIL.
Ragioni per raccontare
Ho già illustrato una ragione che può spingere a raccontare invece di mostrare: quando, considerato il punto di vista, raccontare suonerebbe più naturale. Un’altra ragione è quando si vogliono riassumere fatti noiosi che però il lettore deve conoscere per capire la storia.
Sono quelle scene dei film di Indiana Jones nella quali si vede un aereo che sorvola la mappa del mondo, a indicare che i nostri eroi si sono spostati da un punto all’altro del globo. Meglio quei pochi secondi raccontati che non tre ore di Indiana Jones che fissa le nuvole fuori dal finestrino.
Non abusate di questo espediente. Riducetelo al minimo. Il lettore non è scemo: se mostrate Indiana Jones all’aeroporto che sfugge ai nazisti e salta sul dirigibile un secondo prima del decollo, la scena dopo potete direttamente mostrare Indy che sbarca a New York. Nessuno avrà problemi a ricostruire quello che è accaduto. E se d’altra parte durante il viaggio è successo qualche evento significativo, va mostrato.
Pensate sempre bene se non sia il caso di tagliare. Nel famigerato Bryan di Boscoquieto, l’autore compie l’errore di mostrare l’inutile, indugiando sulle minuzie della vita quotidiana del protagonista. Avrebbe dovuto raccontare? Forse. Ma ancora meglio sarebbe stato tagliare in tronco quelle parti. Del pranzo di Bryan o della partita a calcetto non frega niente a nessuno, né questi fatti hanno rilevanza per la storia.
Un piatto di maccheroni fumanti era già pronto in tavola e la grattugia era accanto, ad attendere soltanto Bryan per una sventagliata di formaggio.
In prima stesura mostrate sempre. Se rileggendo vi accorgete di brani e capitoli superflui, tagliate. Usate il raccontato solo come ultima opzione.
È importante abituarsi a mostrare anche per una ragione pratica: passare dal mostrato al raccontato richiede pochi istanti; passare dal raccontato al mostrato significa scrivere una o più scene, servono ore se non giorni.
Prendete l’esempio della fatina Fiammetta. Ci mettete un attimo a cancellarlo e a scrivere che Fiammetta è permalosa. Invece non è automatico passare dal concetto astratto di permalosità a una scena che lo mostri. Senza contare che il raccontato è “senza tempo e senza luogo”, può essere incastrato ovunque nella narrazione, il mostrato no. Eventuali nuove scene vanno inserite tra le altre; a romanzo concluso, può rivelarsi una rogna.
Non andate a cercare rogne: progettate come se fosse tutto da mostrare.
* * *
Ci sono poche ragioni per usare il raccontato guardando esclusivamente alla tecnica narrativa. Ce ne sono di più allargando il discorso.
Si usa il raccontato per risparmiare pagine. Se dovete parlare di un argomento in un numero limitato di parole – per esempio perché state scrivendo un racconto che deve partecipare a un concorso con precisi limiti di spazio – il raccontato può essere una buona scelta.
Ma prima di arrendervi studiate bene il problema: magari, scegliendo di mostrare particolari diversi da quelli che avete pensato la prima volta, parlate con compiutezza dell’argomento in oggetto rispettando i limiti.
Attenzione a credere che il raccontato sia sempre un risparmio di parole. Per citare un esempio che l’anno scorso ha suscitato centinaia di commenti di flame:
Infine giunsero nei pressi del ponte principale, un’imponente struttura arcuata, con ampie rampe inclinate che congiungeva le due sponde del fiume.
Così scrive un imbrattacarte nostrano. Posso rendere più concreti termini generici come “imponente” o “ampie” nello stesso numero di parole? Forse sì. Se scrivo:
Il fiume ruggiva contro le arcate del ponte. Uno spruzzo d’acqua bagnò la testa del brontosauro che li precedeva sulla rampa.
Ho reso più vivida la situazione mantenendo l’impressione di grandezza del ponte – dato che lo attraversa un brontosauro.
Parole originali: 22. Parole mie: 22. Non arrendetevi al raccontato senza combattere!
Si usa il raccontato per sfuggire alla censura. Se mostrare il vampiro che strappa le interiora alle sue vittime, può essere che il romanzo non lo pubblichino, non sarebbe adatto agli young adult. Se lo sbudellamento lo raccontate è tutto ok. Il romanzo lo spacceranno anche ai bambini.
Ma dato che non vi pubblicano comunque, è inutile farsi questi problemi!
Si usa il raccontato per ragioni economiche. Mostrare è difficile. Mostrare le emozioni è molto difficile. Vale la pena perdere anni dietro a un romanzo per renderlo al 100% mostrato, o non è il caso di prendere qualche scorciatoia?
Decisione che spetta a ognuno, dopo dibattito con la propria coscienza. Ma se prendete scorciatoie che sia almeno una scelta consapevole, dettata dal desiderio di scrivere nuovi romanzi. Non lasciatevi guidare dalla pigrizia o dall’ignoranza.
Ma Lovecraft raccontava!!!
Se è vero come è vero che fin dalla metà del ’700 si sapeva che mostrare è meglio di raccontare, come mai così tanti autori, anche considerati bravi, hanno passato la carriera a raccontare?
Per capirlo bisogna riprendere Le intermittenze della morte (As Intermitências da Morte, 2005) di José Saramago, romanzo già citato nell’articolo dedicato ai dialoghi. In quel romanzo, Saramago ha tolto le virgolette ai dialoghi; le battute fluiscono all’interno della narrazione, senza identificatori espliciti.
È una scelta nella direzione dello “Show don’t tell”: quando sentiamo la gente parlare, non vediamo una mano che scende dal cielo e mette intorno alle parole le virgolette. Inserire le virgolette è un intervento dell’autore, è un raccontare.
Tuttavia persino io – fan del “mostrare” – ho avuto difficoltà a leggere quel romanzo. Sono così abituata ad avere l’autore che mi racconta quando iniziano e quando finiscono i dialoghi, che una soluzione teoricamente migliore mi risulta difficile da digerire. Fra cinquant’anni, se il metodo di Saramago si diffonde, una Gamberetta del futuro potrebbe prendermi in giro: “Guardate questa svampita: cianciava tanto di mostrare e poi metteva le virgolette ai dialoghi! È così ovvio che i dialoghi devono essere integrati nella narrazione!”
Tra la formulazione teorica (“mostrare è meglio di raccontare”) e la realizzazione pratica intercorrono secoli di fatica. Quando si vanno a pescare autori passati e si starnazza: “Questi erano bravi e non mostravano!!! Dunque mostrare è inutile!!!” bisogna capire se i signori autori non mostravano perché convinti che fosse sbagliato o non mostravano perché, pur con tutta la buona volontà, non ne erano in grado. Perché non si rendevano neanche conto che certe cose avrebbero potuto mostrarle – come adesso quasi nessuno considera possibile rendere più mostrati i dialoghi.
Scrittori come Gustave Flaubert o Henry James erano annoverati tra i “mostratori”. Eppure potrei riprodurre pagine e pagine dei loro romanzi nei quali raccontano a profusione. Non credo dipendesse dal fatto che erano incoerenti o stupidi, semplicemente non avevano la forma mentale per fare più di quanto hanno fatto.
La narrativa non è scolpita nella pietra. Si evolve ed è influenzata dal progresso scientifico e filosofico. È assurdo rimanere legati a modelli passati, sarebbe come rifiutare i computer perché Pitagora faceva matematica senza ed era bravo lo stesso. Bisogna ammirare tanti autori dei secoli scorsi perché hanno scritto opere bellissime nonostante non possedessero i mezzi tecnici attuali.
I registi a inizio secolo non giravano film muti in bianco e nero perché disdegnavano i colori e il sonoro, lo facevano perché non avevano alternative. Alcuni loro film sono belli nonostante le limitazioni tecniche.
Il ragionamento giusto non è: “Lovecraft raccontava. Lo imito come una capra.” Il ragionamento giusto è: “Lovecraft raccontava. Io conosco la tecnica del mostrare e scriverò racconti più belli dei suoi!”[5]
Quali manuali leggere
Ogni manuale che si rispetti ha un capitolo dedicato allo “Show don’t tell”. E al di là degli esempi non sempre azzeccati, non mi è mai capitato un manuale che spiegasse male il concetto. Infatti lo “Show don’t tell” è un principio né difficile, né complesso. Le conseguenze però non sono così ovvie, e non sempre i manuali stessi le colgono.
Ci sono poi i manuali che cascano nell’errore di un “politicamente corretto” letterario: mostrare e raccontare sullo stesso piano, per non fare torto a nessuno. Ma, come spero di aver dimostrato, la faccenda non è proprio in questi termini.
Perciò mi sento di dire che se avete seguito con attenzione questo articolo, ne sapete sullo “Show don’t tell” tanto quanto possa insegnarvi qualunque manuale, se non di più.
Al massimo date un’occhiata a:
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Showing & Telling: Learn How to Show & When to Tell for Powerful & Balanced Writing di Laurie Alberts (Writer’s Digest Books, 2010). |
Non mi è sembrato un granché, e soffre della sindrome del “politicamente corretto”. Tuttavia è meglio leggere un manuale in più che uno in meno.
Conclusione
Spesso si criticano romanzi, film, fumetti o in generale le opere d’arte in base a quanto siano “diseducative”. L’ho sempre trovato ingiusto: l’arte è arte, non è educazione; se una persona legge un romanzo per educarsi il problema è di quella persona, non del romanzo.
Ma farò uno strappo ai miei principi e parlerò di un’opera in termini di diseducazione. La scena che segue è quanto di più diseducativo si possa immaginare. Al confronto la più perversa pornografia che si annida nei recessi oscuri di Internet non può fare altro che bene.
Era una scena da L’Attimo Fuggente (Dead Poets Society, 1989). Notare che questo film non è vietato ai minori. Pazzesco.
Che retorica schifosa. Il “pensare autonomamente” che si concretizza nello strappare i libri senza leggerli; il rifiuto di ogni interpretazione della poesia al di là dell’istinto; il mescolare passione, amore, e gli altri Buoni Sentimenti™ così come capita, senza la minima consapevolezza di come sul serio nasca un’opera d’arte.
Il professor Keating – il personaggio interpretato da Robin Williams – andrebbe trascinato in strada. Fatto sdraiare sul selciato. Costretto a mordere il bordo di cemento del marciapiede. Poi qualcuno dovrebbe pestargli la nuca con la suola dello scarpone.
Non dico che la passione (e l’amore, la bellezza, il sogno, l’incanto, la meraviglia…) non sia importante. La passione è quella che ti fa lavorare ventiquattro ore al giorno e ti fa rischiare la vita per andare sulla Luna. Ma non voli nello spazio su una nuvola di passione, voli dentro un’astronave. Una realizzazione basata sulla tecnica.
Scrivere con passione non significa usare uno stile piuttosto che un altro, significa documentarsi per anni, revisionare fino alla nausea, studiare ogni dettaglio. Chi è appassionato di un argomento non strappa i libri, ne legge il doppio.
Adesso, le parole di un vero poeta. T. S. Eliot nel saggio del 1919 Hamlet and His Problems,[6] scrive:
The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked. If you examine any of Shakespeare’s more successful tragedies, you will find this exact equivalence; you will find that the state of mind of Lady Macbeth walking in her sleep has been communicated to you by a skilful accumulation of imagined sensory impressions; the words of Macbeth on hearing of his wife’s death strike us as if, given the sequence of events, these words were automatically released by the last event in the series. The artistic “inevitability” lies in this complete adequacy of the external to the emotion; [...]
In un’opera artistica, l’unico modo per esprimere un’emozione è trovare un “correlativo oggettivo”; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che rappresentino la formula per quella specifica emozione; cosicché, quando sono presentati i fatti esterni, che devono condurre a esperienze sensoriali, l’emozione è immediatamente suscitata. Se si esaminano le tragedie di Shakespeare di maggior successo, si troverà questa esatta equivalenza; si troverà che la condizione mentale di Lady Macbeth mentre cammina nel sonno è stata comunicata da un’abile accumulazione di impressioni sensoriali tradotte in immagini; le parole di Macbeth al sentire della morte di sua moglie ci colpiscono, data la sequenza degli avvenimenti, come se fossero l’automatica conseguenza dell’ultimo evento nella catena. Questa “inevitabilità” artistica nasce dalla completa corrispondenza dei fatti esterni alle emozioni; [...]
Di cosa sta parlando Eliot? Indovinato! Dello “Show don’t tell”!
Per esprimere emozioni, l’unico modo – the only way – è trovare un “correlativo oggettivo”. Ovvero qualcosa di concreto – oggetto, situazione, evento – che induca nel lettore l’emozione che desideriamo. Proprio come spiegava il giapponese a inizio articolo. Per suscitare tristezza non dobbiamo parlare di tristezza, ma trovare un oggetto, una situazione, un evento che sia triste in sé, e dunque evochi tristezza nel lettore.
Riascoltate la scena da L’Attimo Fuggente. Il brano di Eliot assomiglia più all’introduzione dell’emerito professor Pritchard o alle sviolinate amore & passione di Robin Williams?
Ognuno ne tragga le sue conclusioni.
Compiti a casa
Vi propongo due fatine. Dirò qualcosina su di loro, voi sceglietene una e mostrate quello che io ho raccontato. Non ci sono limiti di spazio, ma non sbrodolatevi. Fate riferimento all’esempio di Fiammetta: lì sono stata fin troppo concisa, ma non sono necessarie molte parole in più.
Potete usare il punto di vista che preferite, potete articolare una breve storia o no. L’importante è concentrarsi sul mostrare. Sull’uso costante di parole specifiche, sull’epurazione di ogni traccia di raccontato.
• La prima fatina si chiama Scintilla. È una fatina giovane e altruista. Adora realizzare i sogni degli esseri umani, ma alle volte ha il vago sospetto che questo non sia il mestiere più adatto per lei. Dovrebbe imparare dalle fatine più esperte, se non fosse così orgogliosa e testarda.
• La seconda fatina si chiama Lametta. È scappata da casa e adesso è in cerca di un lavoro. Non è facile però trovare un decente impiego part-time, non quando sei una fatina con un brutto carattere e troppi interessi da coltivare. Non aiuta l’ossessione per le cianfrusaglie che Lametta vuole sempre portarsi dietro.
Scuola per fatine. Scintilla avrebbe dovuto prestare più attenzione!
Se avete bisogno di documentarvi sulle fatine, fate un salto all’Osservatorio.
Buon divertimento!
* * *
note:
[1] ^ “Chikamatsu and His Ideas on Drama” di Makoto Ueda. Educational Theatre Journal Vol. 12, No. 2.
[2] ^ Ringrazio zora che per prima aveva segnalato Monzaemon in un vecchio commento.
[3] ^ D’altra parte c’è una fetta di pubblico allergica al “fantastico” in senso lato, quelli che: “C’era bisogno di andare sulla Luna con la gente che muore di fame?”, oppure: “Non vedo ragione perché qualcuno voglia un computer a casa sua” (ultime parole famose pronunciate dal presidente della DEC nel 1977).
[4] ^ Lo so che dal 1960 la definizione di metro è diversa, ma per l’esempio va bene uguale la sbarra. Non siate più pignoli di Gamberetta!
[5] ^ Lovecraft qui è un esempio. Se siete fan del solitario di Providence e non tollerate critiche al vostro idolo, non imbizzarritevi: rileggete, e ogni volta che capita “Lovecraft” sostituite con “William Hope Hodgson”. Il concetto rimane lo stesso.
[6] ^ In questo saggio Eliot definirà l’Amleto un fallimento. Eliot ha ragione? Ha torto? Non lo so, non ho le adeguate conoscenze poetiche per giudicare. Però so che è l’atteggiamento giusto. Non c’è progresso se si rimane legati ai pregiudizi. Pensateci prima di scrivere stronzate tipo: I Promessi Sposi sono “un’opera stilisticamente, narrativamente, linguisticamente perfetta”.
Approfondimenti:
The Philosophy of Rhetoric leggibile online
The Philosophy of Style leggibile online
Hamlet and His Problems leggibile online
The Craft of Fiction su Amazon.com
Chikamatsu Monzaemon su Wikipedia
George Campbell su Wikipedia
Herbert Spencer su Wikipedia
José Saramago su Wikipedia
T. S. Eliot su Wikipedia
Dead Poets Society su IMDb
Segnalazione di Steamed: A Steampunk Romance
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20 agosto 2016 alle 18:30
[…] Mostrare: http://fantasy.gamberi.org/2010/11/18/manuali-3-mostrare/ […]
17 dicembre 2014 alle 16:25
Ciao Chiara, complimenti per il blog, volevo chiederti, nell’esempio della fatina fiammetta, quando tu scrivi.
“Il gatto, doveva essere stato il gatto. Il felino si era strusciato contro la teiera e aveva smosso il coperchio.”
Non era meglio scrivere.
“Il gatto, dev’essere stato il gatto. Il bastardo avrà smosso il coperchio strusciando contro la teiera.”
Come l’hai scritta tu non è un errore nella gestione del pdv.
Ti ringrazio in anticipo per la risposta.
P.S. chiedo scusa se ho detto una cacchiata.
30 ottobre 2014 alle 17:30
Ciao, grazie per questi manuali. Ho imparato tantissimo e tutt’ora torno a leggerli. Volevo chiederti un parere. Cosa ne pensi del paragrafo informativo ad inizio capitolo? Robin Hobb utilizza questo metodo nella Saga dei Lungavista, narrato in prima persona. Per spiegare al lettore determinati argomenti, che verranno magari trattati nei dialoghi del capitolo, scrive alcune informazioni attraverso il protagonista, salta un rigo e poi inizia il capitolo vero e proprio. Secondo te è una buona soluzione per informare il lettore o si rischia di annoiarlo?
5 agosto 2014 alle 07:50
[…] sospensione dell’incredulità ha già parlato Gamberetta nel suo manuale sul mostrare: la sospensione deve essere conseguita, malgrado la presenza di un elemento irrealistico, ponendo […]
6 giugno 2014 alle 20:43
Hai dato una risposta a tutti i miei dubbi, grazie mille! :)
30 maggio 2014 alle 23:56
Aggiungo al mio commento precedente: finché si è giovani, o alle prime armi, ben vengano i documenti di cui ho parlato. Ma uno scrittore professionista e professionale, uno scrittore serio, DEVE fare un passo oltre. Laddove possibile, nei documenti va affiancata la ricerca diretta!
Non puoi andare a vivere per strada, ma puoi andare a parlare con i senzatetto.
Non puoi diventare uno spacciatore, ma puoi andare in una comunità a parlare con gli ex-tossicodipendenti.
Anche nel caso della Grande Guerra che ho citato si possono fare ricerche personali. Non potrò trovare nessuno che l’abbia combattuta, ma posso andare a casa dei figli e dei nipoti e parlare con loro, cosa raccontava il nonno? Ci sono foto, lettere, diari? Sono sempre documenti, ma l’autore se l’è andati a scovare invece di trovarseli in un libro.
In sintesi: bisogna alzarsi dalla sedia! La chiave è sempre quella. Internet aiuta moltissimo, e quasi su qualunque argomento, ma non può darti tutto, quasi su nessun argomento. Troppo facile (e troppo poco divertente!)
Ciò non toglie che vanno consultati tutti i documenti che si riescao a trovare, se c’è qualcosa che possa aiutarlo a saperne di più l’autore ha il dovere nei confronti dei lettori di studiarla per non scrivere fregnacce.
30 maggio 2014 alle 23:34
Donna, in realtà su tutte le cose che hai citato si possono trovare informazioni, anche abbastanza dettagliate.
Tu non vuoi andare a vivere con i senzatetto, né andare a fare passeggiate dalle parti in cui bazzica Pete Siringa (nemmeno io, se è per questo), ma c’è qualcuno che l’ha fatto. Ci sono documentari, reportage di giornalisti (gente il cui scopo era proprio quello di mostrarti la realtà com’è, fartela conoscere come se la stessi vivendo in prima persona) reperibili facilmente su internet, in biblioteca, in libreria. Certo, sono tutti “punti di vista” diversi dal tuo, sono documenti, ma bastano e avanzano (una volta che hai visto tutti quelli che sei riuscita a trovare, e hai trovato tutti quelli che fosse possibile rintracciare con i mezzi a tua disposizione) per farti conoscere certe realtà in modo da poterne scrivere onestamente, invece di inventare cose a caso usando il “cuore” e “l’anima” e il “sentimento” tanto cari a molti scribacchini.
Documentarsi non significa vivere qualcosa in prima persona, io posso documentarmi sulla Grande Guerra tanto da arrivare a conoscere al meglio le condizioni dei poveri cristi che l’hanno combattuta – non l’ho vissuta in prima persona (grazie al cielo), ma se scrivo si ipotizza che abbia una certa immaginazione e che sia almeno un pizzichino empatica, e saranno empatia ed immaginazione a supplire a ciò che manca.
Per quanto riguarda l’odore del crack, no, non lo conoscerai mai a meno che tu non vada dallo spacciatore di cui sopra a comprarne un po’ – ma a cosa serve l’odore del crack alla narrazione? Se non lo descrivi, ti diventa impossibile andare avanti nella storia, oppure i tuoi personaggi continuano ad agire indisturbati? Credo la seconda ;)
20 maggio 2014 alle 17:44
Per fare degli esempi…come posso sapere qual è l’odore del crack, o come si svolge una scena realistica di contrattazione fra spacciatori, se non frequento l’ambiente? Come posso sapere cosa fanno tutto il giorno i senzatetto? In generale, come faccio a documentarmi circa quelle situazioni per cui non posso chiedere ai diretti interessati, e di cui non si trovano informazioni (che io sappia)?
Grazie :)
5 marzo 2014 alle 09:30
[…] Un divertente e completo campionario di esempi: http://fantasy.gamberi.org/2010/11/18/manuali-3-mostrare/ […]
8 gennaio 2014 alle 14:55
Premetto che non ho ben capito la tua domanda.
Prendiamo l’esempio dell’azoto liquido.
Se a finirci dentro non è il protagonista, non è quello nella cui testa c’è la “telecamera” del racconto devi solo descrivere cosa gli accade esteriormente, chi lo vede, come tu stesso dici, non può sapere cosa “prova dentro”.
Se è il protagonista… bhè tanto muore e nell’azoto liquido non ha nemmeno il tempo di pensare (diverso è il caso del ghigliottinamento dove la testa rimane viva ancora per qualche secondo) quindi fine.
Nei casi meno drammatici, cerca e informati. E’ probabile che troverai ciò che cerchi. Però ricordati di distinguere ciò che accada al protagonista (POV) da ciò che gli accade attorno. Prendi te stesso, tu sei il protagonsita della tua vita: non puoi sapere cosa pensa quello accanto a te, puoi immaginarlo, ma non puoi saperlo.
1 gennaio 2014 alle 15:19
Ciao a tutti :)
Spero che qualcuno qui possa chiarire i miei dubbi sul mostrare, sperando non siano troppo stupidi (spero me lo perdonerete vista la giovane età e l’ignoranza abissale :D). Vorrei capire se il mio è un problema di documentazione o altro, e come potrei muovermi per risolverlo.
Come si può mostrare in maniera convincente qualcosa che pochi hanno sperimentato, a maggior ragione se quel ‘qualcosa’ provoca la morte dei suddetti (o l’isolamento a livello sociale, o il coma, o il ‘rimanerci’, o altre conseguenze che impediscono loro di raccontarla)? Come si possono descrivere in maniera realistica le sensazioni provate nel, che so, morire di decompressione esplosiva? Nell’essere vittime del fosforo bianco? Nel subire un’operazione chirurgica senza anestesia? Nel fare un placido bagno nell’azoto liquido o al circolo polare artico, nell’essere bruciati vivi? Nel ‘rimanerci sotto’ con gli acidi?
Ho esagerato, certo, ma anche, molto più semplicemente, come si mostrano le sensazioni di chi ha provato una determinata droga o farmaco? Per esperienza personale, la presenza di certi dettagli nel descrivere una sensazione (per esempio indotta da una droga) fa capire subito, a chi l’ha provata, se il narratore conosce ciò di qui parla. Allo stesso tempo una persona estranea non riuscirebbe mai ad immaginarsi quei dettagli (che quindi sono ciò che rende veramente realistica una scena). Spesso inoltre chi ha vissuto certe esperienze è restio a raccontarle, anche per motivi sociali (la ‘fratellanza’ nel gruppo di tossicodipendenti e l’opposizione nei confronti degli ‘altri’).
Come si può risolvere questo problema? Devo documentarmi più a fondo? L’unica soluzione è la fantasia (che però minerebbe la credibilità)? Qualcuno può aiutarmi?
Grazie
22 ottobre 2013 alle 16:42
[…] da Gamberetta nei suoi millemila articoli (qui uno per tutti, e segnalo anche il paragrafo: Il mostrare e la verosimiglianza), per cui avere come protagonisti uomini nello spazio, alieni o elfi dei boschi non è una […]
3 settembre 2013 alle 14:31
[...] Qualche riflessione sullo Show don’t Tell [...]
22 marzo 2013 alle 11:30
[...] Manuali 3 – mostrare su Gamberi Fantasy: http://fantasy.gamberi.org/2010/11/18/manuali-3-mostrare/ [...]
7 febbraio 2013 alle 10:09
Ho letto tutte e tre le guide con moltissimo interesse, ti ringrazio per aver scritto tutto ciò. È stato un piacere leggerle!
4 febbraio 2013 alle 13:40
[...] poi segnalare un articolo (Manuali 3) apparso un paio di mesi fa su Gamberi Fantasy, nel quale Gamberetta approfondisce, basandosi su [...]
5 dicembre 2012 alle 01:20
come spesso accade i sudditi sono più realisti del re ;)
Gamberetta la tua risposta mi è piaciuta, e sono d’accordo con te e con la tua spiegazione. Resta il fatto che spesso non mi piace il tuo stile di scrittura ma questo non toglie nulla ai tuoi consigli che sono invece ottimi ;) ( alcuni capitoli di questo blog li so letteralmente a memoria ^_^)
poi il mio parere è sicuramente personale, ma credo che possa essere abbastanza condiviso, per cui facci un pensiero ;P
2 dicembre 2012 alle 19:48
@lulu. Il punto non è se le mie frasi siano scorrevoli o no, oppure se siano adatte o no frasi corte e semplici, il punto è trasformare il “poi” in qualcosa di concreto.
Quando scrivi:
Vuoi segnalare al lettore una pausa tra l’azione di entrare nella stanza e l’azione di sedersi, per quello metti “poi”. Tuttavia il lettore come dovrebbe immaginare questa pausa? Cosa fa Anna durante quel “poi”? Sarebbe meglio scriverlo. Io ho fatto una proposta, ma niente ti vieta di riempire il “poi” come preferisci. Magari ti piace di più:
D’altra parte se quel “poi” non aveva particolare significato, se non sottintendeva una pausa “interessante”, è inutile metterlo, e puoi scrivere:
Da notare che se persisti a scrivere:
nessuno verrà a casa tua a morsicarti le caviglie e il 99,99% dei lettori non si accorgerà di niente di sbagliato, tuttavia tu stessa dovresti riflettere sul perché hai scritto quel “poi”. Magari scopri che fra l’entrare nella stanza e il sedersi Anna compie delle azioni che sarebbe bello riferire al lettore.
28 novembre 2012 alle 11:57
“lol non hai capito nulla”, ovvero “porc mi hai INCHIODATA AL MURO usando la logica, non ho la minima idea di cosa argomentare per uscire dall’angolino e mi metto a sparare frasettine ad effetto prive di qualsiasi contenuto per tentare di svicolare”
Non funziona, spiacente.
[“Anna entrò nella stanza. Poi si sedette. ” gamberetta dice che è sbagliato.
meglio scrivere:
Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.
cos’è uno scherzo? ]
Non ho bisogno di rispiegare per l’ennesima volta perché il pezzo che ho appena quotato sintetizza perfettamente la totale idiozia e/o malafede del tuo primo reply, lo riporto alla luce giusto per ribadirlo di nuovo, che è tutta salute :)
28 novembre 2012 alle 01:20
lol… non hai capito nulla, va bene credi quel che vuoi. La discussione mi sta già annoiando, peccato, poteva essere un confronto interessante e intelligente ;)
aggiungo che non ho detto che ha nettamente migliorato…ho detto che era un pochino meglio, ma FA SCHIFO uguale. La verità è che gamberetta scrive periodi così brutti ovunque …nemmeno si accorge di quanto siano poco scorrevoli e forzati. Anzi crede siano “mostrare” L’ha scritto qui, l’ha scritto nel blog, l’ha scritto nel suo racconto etc etc
rileggendo questo articolo mi è saltato all’occhio che questa schifezza era presente anche in una frase di riferimento importante (per cui per forza di cose letta e riletta dall’autrice) ergo questi errori grossolani non sono un caso o una svista (come mi è stato detto in questo blog altre volte) , ma la normalità per lei!!!
aggiungo per chi poverino non ci arriva che correggere una cosa oscena con una cosa un pochino meno oscena è ugualmente sbagliato X°D
27 novembre 2012 alle 10:19
Se conosci molto bene questo articolo devo concludere che la tua “svista” era voluta? Che hai detto una BALLA sapendo di farlo, FINGENDO di capire che G. stesse “sostituendo” questo “Anna entrò nella stanza. Poi si sedette. ” con questo “Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.”?
No perché ora arrivi fischiettando facendo finta di nulla dicendo in pratica “eh bhe ma cmq la frase di G era migliorabile quindi ho ragione lo stesso”, come se tutta la “logica” dietro al tuo precedente discorso non saltasse interamente per aria.
Una cosa è sostenere “sì, Gamberetta ha effettivamente migliorato NETTAMENTE la frase di partenza iniziale, ma si poteva fare ancora di meglio (ma questo non c’entra NULLA con le sue regole, ha semplicemente usato, secondo me, frasi un pò troppo corte in un contesto dove non funzionavano particolarmente bene), una cosa è sostenere “ahahaah visto le regole di G non funzionano, ha preso una frasettina di 4 parole in croce e guardate che ha combinato, studia carissima hhihihihihi XD” che, oltre a suonare tipo la “frecciatina” che potrebbe lanciare una bambina delle medie, è anche una TOTALE mistificazione della realtà.
26 novembre 2012 alle 23:51
conosco molto bene questo articolo perché mi è stato utilissimo :) altrove ho già criticato “gli elenchi puntati” di gamberetta! con questo mio appunto volevo solo dimostrare che non è una svista passeggera la sua, come mi è stato più volte fatto notare, bensì proprio il suo modo di scrivere (nei suoi scritti è pieno di periodi del genere). poi che l’elenco degli ingredienti del bagnoschiuma di gamberetta sia lievemente meglio della frase ciatta precedentemente è innegabile, ma non è ugualmente accettabile in un libro (imho)
tanto per dire trovo la tua decisamente meglio XD
26 novembre 2012 alle 13:51
Ah, tanto per essere chiari: la frase “Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.” personalmente non mi convince molto, io l’avrei modificata con “Anna entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca, andrò alla scrivania e si sedette.”
Questo tanto per chiarire che per me quella frase NON rappresenta Lo Stato dell’Arte e poteva in effetti essere resa più scorrevole.
Ma prima di avanzare una simile critica mi son preso la briga di leggere il passaggio “incriminato” e capire cosa G. stesse effettivamente intendendo.
Dire che la frase da me modificata suona meglio è una mia personale opinione basata su premesse REALI (“G. ha scritto X frase, per me quella X frase potrebbe essere resa più scorrevole”), dire come hai fatto tu che “G. ha sostituito una frasettina di mezza riga con una roba 10 volte più pesante” è una semplice BALLA (la realtà è TOTALMENTE opposta infatti), causata o da un difetto di comprensione macroscopico o da semplice malafede.
26 novembre 2012 alle 13:42
A volte non riesco a capire se certi commenti sono in malafede o solo genuinamente STUPIDI.
Ma hai fatto lo sforzo di capire il senso di quel passaggio o era troppa la voglia di poter fare un bel reply dove poter sfottere un pò l’odiata G? (non perdere tempo a negare la tua antipatia nei suoi confronti visto che traspare da ogni singola virgola: e non c’è nulla di male se ti sta sulle palle, c’è MOLTISSIMO di male se questo ti porta a scrivere certe vaccate)
Gamberetta sostiene che QUESTO passaggio è sbagliato:
“Anna entrò nella stanza. Poi si sedette e prima di cominciare a studiare si infilò gli occhiali, dopo averli puliti. Fissò la copertina del libro di storia per qualche istante. Improvvisamente le venne voglia di mangiare un gelato, cosa che avrebbe fatto in seguito.”
e ad esso sostituisce
QUESTO
“Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.”
innegabilmente 10 volte più scorrevole.
Quell’ “Anna entrò nella stanza. Poi si sedette. ” col “poi” cancellato indica semplicemente che, scrivendo in quel modo, la pausa non si percepisce e si può benissimo togliere direttamente il “poi” senza colpo ferire.
Lo ripeto: la frase che hai citato tutta disgustata (“Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.”) NON era un’alternativa a “Anna entrò nella stanza. Poi si sedette. ” ma a “Anna entrò nella stanza. Poi si sedette e prima di cominciare a studiare si infilò gli occhiali, dopo averli puliti. Fissò la copertina del libro di storia per qualche istante. Improvvisamente le venne voglia di mangiare un gelato, cosa che avrebbe fatto in seguito.” , e se la versione di G non ti pare DECISAMENTE meglio di quella iniziale sei tu che ti stai prendendo in giro.
26 novembre 2012 alle 00:40
stasera stavo leggendo per l’ennesima volta questo interessante articolo e per l’ennesima volta mi è saltato agli occhi una bruttura spacciata per raffinatezza linguistica… ecco a voi:
“Anna entrò nella stanza. Poi si sedette. ” gamberetta dice che è sbagliato.
meglio scrivere:
Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.
cos’è uno scherzo? paragrafi interi costituiti solamente da soggetto verbo complemento oggetto punto. Ommioddio. riprovate a leggerlo a voce alta, facendo sentire la potenza della pausa-punto.
veramente vi sembra un modo di scrivere decente o scorrevole? non lo è affatto! tantomeno da l’idea al lettore del mostrato. E’ solo un elenco puntato che posso accettare in 2° elementare o al massimo in un fascicolo di catalogazione presente in qualche vecchio ufficio polveroso.
provo a continuare sullo stesso stile, giusto per i più duri di comprendonio. leggetelo a voce alta.
Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette. Aprì il libro a pagina dieci . Si ficcò l’indice dentro al naso. Si alzò e andò alla finestra. scostò le tende e guardò fuori.
non prendiamoci in giro FA SCHIFO. Qualunque contenuto interessantissimo viene automaticamente ASSASSINATO da una forma del genere. mi ripeto: leggetevi gli ingredienti del vostro bagnoschiuma preferito e lo troverete senz’altro più intrigante XD
consiglio a gamberetta, da amica: lavora di più sulla forma, perché se davvero vuoi scrivere (e magari essere pure pagata ) hai davvero mooolta strada davanti ;)
12 ottobre 2012 alle 19:34
Grazie. Devo dire che mi sono divertito a leggere questo manuale. È stato proprio divertente vedere tutti gli errori idioti che faccio di solito :) ho fatto l’esercizio anche se non sono soddisfatto. Eccolo:
Le ali smisero di battere, le gambe si afflosciarono, gli occhi si spensero. Lametta si lasciò cadere, atterrò dolce sui piedi, appoggiò la mano sul grande arbusto, si voltò, premette sul tronco con la schiena, si lasciò strisciare sulla sua superficie e rovinò a terra con il sedere.
«Basta» spalancò la bocca per rifiatare, portò il busto in avanti, si accarezzò le ali impolverate e incrociò le gambe.
«Basta, è da due ore che seguo queste cazzo di briciole, possibile che non riesca a trovare un lavoro? Fortuna che la strada era semplice. Un tubo che è semplice!»
Lametta fissò il gruppo di funghetti bianchi, tirò un sospiro a pieni polmoni, mostrò i denti e grugnì inferocita.
«Questo dannato bosco non l’avrà vinta!» si alzò con il broncio, si spolverò le ginocchia e si diede due pacche sul sedere.
«Forza!»
La fatina agitò le alette e si sollevò da terra luccicando. Puntò l’occhio sulle briciole di polvere di fata e proseguì per il bosco. Sorvolò una schiera di arbusti di rose canine facendo loro una linguaccia. Dribblò in extremis un grosso arbusto di quercia, ne aggirò un altro rischiando di spezzarsi un’ala, finì dentro una siepe di frasche, uscì fuori con tagli e strappi sui vestiti, si schiantò contro un ramo e rovinò a terra con il petto. Sputò fuori la terra ingoiata e gli occhi diventarono lucidi.
«Ma perché devono capitare tutte a me. Non ho una casa, non ho un lavoro, non ho neanche più i vestiti ormai, ho perso pure i miei fermagli e anche i braccialetti. E mi fa male dappertutto! Voglio morireeeeeee»
Lametta sgranò gli occhi togliendosi di dosso le lacrime. Aprì la bocca, premette sul terreno con le ginocchia e con le forze rimaste si alzò in piedi. Imbalsamata alzò le braccia, le portò in avanti, le portò al cielo. Nel suo volto si materializzò un sorriso.
«Urrà! È fatta! È fattaaa!» fece su e giù con le braccia saltellando sul posto e sfornando puntini luccicosi.
Presa da nuova linfa, la fatina si alzò in cielo e svolazzò sulla porta della casetta di fronte. Bussò due volte con tutta la sua forza. Nessuna risposta. Bussò di nuovo dando quattro cannonate. La porta venne aperta per metà da una vecchietta ingobbita con un naso a patata.
«Oh, chi abbiamo qui, una fatina. Sei qui per il lavoro part-time non è vero? Entra, entra pure…» disse la nonnina con un sorriso arcuato.
8 settembre 2012 alle 19:24
[...] articolo completo e curato sul concetto di Mostrare – d’ora in avanti con la maiuscola, per indicare la [...]
26 giugno 2012 alle 22:58
@Dr. N
http://fantasy.gamberi.org/tag/franco-gaudiano/ intanto questo lo ha segnalato la gamberetta, quindi penso che sia valido, anche se non l’ho letto.
Personalmente seguendo sempre i consigli di gamberetta mi sto dando ai manuali americani e andando per gradi, un testo per ciascun argomento, più o meno. Te li consiglio, con un minimo di sforzo ci guadagni enormemente.
26 giugno 2012 alle 01:18
Gamberetta,
mi spiace disturbarti, ma vorrei chiederti consiglio su un buon manuale di tecnica di scrittura (cartaceo, italiano, e possibilmente di facile comprensione) , il più completo possibile e non necessariamente riguardante solo il fantastico, basta anche la tecnica rapportata a un generale senso di narrativa. Voglio, infatti, seguire il tuo consiglio di scaricare manuali gratuiti, ma mi piacerebbe anche avere una sorta di ” manuale/manuali primario/primari cartaceo/cartacei” solo a scopo di comodità di studio.
25 giugno 2012 alle 16:59
Grazie mille delle risposte! Non so quanti sarebbero disposti a seguire così tanti commenti con così tanta dedizione :)
25 giugno 2012 alle 16:23
@Ludovico. Per rispondere a tutte le domande: se scrivi, con il punto di vista mettiamo di Anna, che Tizio ha un faccia antipatica, non mostri la faccia di Tizio ma mostri la personalità di Anna. Se era questo che volevi fare va bene, se invece ti interessava trasmettere l’antipatia della faccia di Tizio non per Anna, ma in assoluto, non funziona molto.
E d’altra parte: quando Anna pensa che Tizio ha una faccia antipatica perché lo pensa? Quali dettagli glielo fanno pensare? Magari può valere la pena scriverli.
Perciò non è sbagliato, a patto di essere consapevole di cosa stai mostrando.
Così come non è sbagliato che un personaggio pensi che le battute del suo interlocutore sono stupide, sempre però sottolineando che stai mostrando come il personaggio formula i suoi giudizi, non stai mostrando un’oggettiva stupidità delle battute.
Per quanto riguarda la scatoletta rosa: va benissimo mettere il giudizio del personaggio, se vuoi mostrare come ragiona, ma essendo consapevole che lo fai per questo e non per descrivere la graziosità della scatoletta. Se ti viene naturale aggiungere “Quanto era graziosa!”, pensa bene se è perché il personaggio ragiona così o non è perché ti senti insicuro della descrizioni e senti il bisogno di ribadirla. Detto questo l’errore di mostrare & raccontare è il meno grave: se fai pronunciare al personaggio battute stupide e descrivi bene la scatoletta, il fatto di ribadire l’ovvio è solo una piccola ineleganza.
25 giugno 2012 alle 13:07
Ok, mi ero scordato un pezzo. Riguardo alla prima domanda: una volta che ho descritto una scatoletta rosa, piena di brillantini, utilizzando il pov di Anna, non è lecito scrivere una cosa tipo: “Quanto era graziosa!”?
25 giugno 2012 alle 13:03
Grazie delle risposte.
Mi è venuta in mente un’altra domanda. Quando si descrive un faccia (tanto per fare un esempio) si deve mostrare, non dire “Tizio aveva una faccia antipatica”. Ma dal momento che si descrive utilizzando il punto di vista di un personaggio, non sarebbe lecito dare voce anche alle sue reazioni di fronte a una persona, ad un evento?
Sì, magari si potrebbe far vedere che il personaggio, quando interagisce per la prima volta con Tizio, è abbastanza scontroso, ma magari il personaggio non interagirà mai con Tizio, lo vede solo passare per strada e fa caso a lui perché ha una faccia particolarmente antipatica, o particolarmente brutta per lui, o particolarmente qualche altra cosa.
Se una persona sta discutendo con un’altra, oltre alle azioni concrete della prima persona (che è il personaggio punto di vista), risulta inutile mostrare anche un pensiero del tipo. “Quanto è stupido!”?
O ancora: è inutile/sbagliato dire, nel mezzo di una situazione che, per esempio, mette in difficoltà Anna (personaggio punto di vista): “Odiava essere messa in difficoltà. Odiava perdere. Odiava quel tizio.”?
Alla fine le domande sono diventate tre xD
Comunque grazie ancora delle risposte, trovo tutto molto utile :)
24 giugno 2012 alle 17:59
@Ludovico.
Non ho più letto D’Annunzio dopo la scuola e dunque non lo conosco abbastanza bene per dare un giudizio. Però da quel che mi dici e considerando che Il Piacere è di fine ‘800 si poteva fare di meglio, perciò propendo più per il mezzo-incapace. ^_^
Sì, alcuni traducono il “tell” in questa espressione con il verbo italiano “dire”. Non è sbagliato, ma secondo me rende di più “raccontare”. Perché questo è il “tell” del “raccontami una storia!” (“tell me a story!”), ovvero il tradizionale: “C’era una volta una ricca principessa amata da tutti i sudditi del meraviglioso regno di ecc. ecc.” che è proprio il modo sbagliato di narrare.
23 giugno 2012 alle 22:05
Ho appena finito di leggere tutti e tre i manuali. Non solo mi hanno insegnato cose nuove, ma hanno anche dato un ordine chiaro a pensieri e idee che già avevo, ma non riuscivo ad afferrare esattamente.
“Purtroppo” ho già terminato la prima stesura di un mio romanzo (il primo di tanti, spero!) e temo di aver usato troppo raccontato, soprattutto all’inizio. Ma vorrà dire che, magari dopo essermi riletto di nuovo i manuali, mi impegnerò più e più volte per sistemarlo a dovere. Grazie di questi preziosi consigli ^^
P.S: domanda, che c’entra poco o niente con il manuale. Sto leggendo Il piacere di D’Annunzio. Per scuola, ed è una sofferenza. D’Annunzio racconta, non mostra, almeno fino a dove sono arrivato (non so se magari mi mostrerà poi, tramite flashback o altri espedienti, quello che ha solo raccontato). E in più fa paragoni con cose astruse, nominando oggetti concreti (quasi) solo quando sono strani e conoscibili solo da intenditori d’arte (o di altre discipline). D’Annunzio fa tutto ciò perché era (almeno quando ha scritto Il Piacere) un mezzo-incapace o perché quando ha scritto ancora non aveva la possibilità, come dici in questo articolo riguardo ad altri autori, di mostrare e ridurre il raccontato?
P.P.S: Ma “Show, don’t tell” va tradotto proprio “Mostrare, non raccontare”? Perché ho l’impressione che il “raccontare” sia così sminuito; non dovrebbe, almeno in teoria, comprendere in sé il mostrare? Non sarebbe più esatto dire “Mostrare, non dire”? So che, in effetti, non rende più di tanto, ma domando proprio per curiosità.
Grazie ancora di tutto quello che hai scritto nei manuali e delle risposte che mi darai =)
15 giugno 2012 alle 01:21
@Gamberetta: Grazie infinite :), è chiaro ora.
14 giugno 2012 alle 16:39
@Gwenelan. Sì, è giusto come hai pensato: se il personaggio non può avere la certezza di quello che succede, è naturale che faccia delle ipotesi: sente il rumore di legno che gratta contro il pavimento e pensa a una sedia o magari a un comodino. Se invece conosce la stanza e riconosce il rumore, va bene dire direttamente che il rumore è quello della sedia o di quel che è.
10 giugno 2012 alle 04:32
Avrei anche io una domandina, forse troppo semplice… quando un personaggio “sente” qualcosa invece di vederlo, e deduce quel che accade con l’udito, o il tatto, come bisogna regolarsi per mostrare? Ovviamente, prendendo il pg che non vede come POV nella scena. Esempio semplice, un personaggio che origlia quel che accade nella stanza accanto – stanza che lui non ha mai visto. Se sente il rumore di qualcosa che viene trascinato sul pavimento e deduce che è una sedia, ad esempio, bisogna mettere tipo: “Qualcosa viene trascinato sul pavimento.”, oppure aggiungere anche la deduzione (“Qualcosa, forse una sedia, viene trascinata sul pavimento.”)? E nel secondo caso, “forse” andrebbe tolto? Sbaglio e non va bene in nessun modo? Se, invece, la stanza gli fosse molto familiare (tipo casa sua), sarebbe corretto scrivere direttamente: “Mia sorella trascina la sedia.” (sempre assumendo che il pg stia origliando e che noi lo sappiamo da qualche riga)?
Grazie :).
26 maggio 2012 alle 13:22
grazie mille :D
26 maggio 2012 alle 10:50
@Lawliet. In prima persona dipende da come hai impostato la storia. Se la storia è in presa diretta con la telecamera nella testa del protagonista, una sorta di flusso di coscienza, io preferisco il presente. È più logico, visto che l’intera narrazione sono i pensieri del protagonista e anche se scrivessi al passato i pensieri diretti li metteresti al presente; ma appunto una prima persona come si deve richiede che la scrittura sia una concatenazione di pensieri diretti, dunque è più razionale usare il presente.
Inoltre il presente è più flessibile: quando per esempio il protagonista ha dei ricordi o ripensa a fatti della storia può usare il passato senza problemi mantenendo fluidità, se sei già al passato devi usare il trapassato che è pesante da leggere.
D’altra parte, se hai impostato la prima persona in modo tradizionale (ovvero con una cornice anche implicita: stiamo leggendo il diario del protagonista, gli appunti che ha lasciato in cella prima dell’esecuzione; oppure ancora il protagonista sta raccontando ai suoi amici o alla sua famiglia), non ci sono controindicazioni a usare il passato: il lettore è già stato avvertito che gli eventi non sono in tempo reale.
E per finire se ti viene più naturale scrivere in prima al passato anche se non c’è cornice fallo pure: ci sono comunque talmente tanti romanzi scritti così che il lettore è abituato e non si farà particolari problemi.
25 maggio 2012 alle 17:39
temo che la mia domanda di prima sia leggermente off-topic, ma mi sembrava l’argomento che più ci si poteva avvicinare
25 maggio 2012 alle 17:38
Gamberetta, avrei una domanda: in un racconto sarebbe meglio usare il presente o il passato remoto?
Nella maggior parte dei libri e racconti che ho letto era usato il passato remoto, eppure in alcune storie il presente dà più un’idea di immediatezza, però spesso il passato remoto appare più scorrevole.
Esempio buttato giù al volo:
“Stringo con più forza il violino. Luca mi fa venire voglia di infilargli l’intero archetto in gola quando usa quel tono.
-Abbassa la cresta, è ovvio che l’assassino non sia Matteo, ma Giulio.
Luca alza la testa, mi guarda, le sue unghie affondano nel bracciolo della poltrona.
-è inutile, ho vinto io.- ringhia. La voce non trema, ma la sua schiena è meno dritta. Riconosce che ho ragione. Premo le dita sulle corde e suono una singola nota con un movimento fulmineo.
-Hai sbagliato, come sempre.
Si alza e corre via, la seconda nota accompagna il rumore della porta che sbatte.”
“Strinsi con più forza il violino. Luca mi faceva venire voglia di infilargli l’intero archetto in gola quando usava quel tono.
-Abbassa la cresta, è ovvio che l’assassino non sia Matteo, ma Giulio.
Luca alzò la testa, mi guardò, le sue unghie affondarono nel bracciolo della poltrona.
-è inutile, ho vinto io.- ringhiò. La voce non tremava, ma la sua schiena era meno dritta. Riconosceva che avevo ragione. Premetti le dita sulle corde e suonai una singola nota con un movimento fulmineo.
-Hai sbagliato, come sempre.
Si alzò e corse via, la seconda nota accompagnò il rumore della porta che sbatteva.”
17 maggio 2012 alle 17:25
@thyangel83
che bello avere un punto di vista oggettivo… il “si” me lo sono mangiato con contorno di fave. Per il resto accolgo i suggerimenti, lavorandoci è fantastico vedere come lo scritto diventa meno viscoso. C’è uno spazio nel blog dove pubblicare brani per non intasare le discussioni?
17 maggio 2012 alle 15:46
@ Sandavi
Ti inoltro le mie considerazioni “a caldo”. Non è male. Però ho qualche appunto.
1) “pulì la faccia”. Un po’ indefinito. La sua faccia? O la faccia di chi?
Credo la sua e può darsi che letta in un contesto più ampio la frase abbia un senso compiuto. Io scriverei: “Raccolse le sue cose e si pulì la faccia”. Quel “pulì” potrebbe essere reso anche in modo più specifico, esempio: “si strofinò la fronte con la manica, liberando le ciocche di capelli dalla terra”. Ma non è per forza necessario dilungarsi così tanto. O meglio, dipende sempre dal contesto e dal senso che la scena riveste nell’insieme del racconto.
2) Idem per “cose”: non mi piace mai molto la parola “cosa” perchè è indefinita. Letta così, slegata dal contesto, la frase comunica poco. Magari però prima si è visto che in seguito a uno scontro in bicicletta la ragazza aveva rovesciato la borsetta, dalla cui cerniera aperta erano usciti un pettine, un assorbente e un pacchetto di chewing-gum. Allora “cose” diventa molto più chiaro. Anche in questo caso, la scena pare un frammento estrapolato da un contesto più ampio, pertanto andrebbe valutata nell’insieme del testo.
3) “pensò, incapace di impedire alla sua bocca di piegarsi in un sorriso.” Puoi riassumere in: la sua bocca si piegò in un sorriso.
C’è poi quel “gettando occhiate fugaci” che non mi convince tantissimo, comunque nel complesso il paragrafo non è male. Sarebbe interessante leggere lo stralcio in maniera un po’ più estesa…
In bocca al lupo per il racconto/romanzo!
17 maggio 2012 alle 11:50
mi date un giudizio su questa frase, se vi sembra abbastanza mostrata?
Palya ne approfittò per rimettersi in piedi. Sputò sabbia, e pulì la faccia. Recuperò le sue cose e raccolse i pesci sparsi sul terreno, gettando occhiate fugaci al ragazzo intento a sfilare foglie-ago dai capelli. “Stupido gonfio tacchino, caprone puzzolente!” pensò, incapace di impedire alla sua bocca di piegarsi in un sorriso.
4 maggio 2012 alle 14:18
Ci ho messo un po’ a leggere tutti e 3 i Manuali con attenzione. Alla fine, posso commentare tutto con una sola parola: “Grazie.”
Spero soltanto di avere l’intelligenza sufficiente a metterli un po’ in pratica.
7 febbraio 2012 alle 12:38
Sì, ma io non mi rivolgo a quelli come te che l’hanno capito: so bene da me che lei non applica rigorosamente questi assiomi… Il punto è che leggendo questi manuali non traluce tutto ciò di cui parli, e tu stesso hai detto ‘l’ho capito da poco’… Il punto è questo: le intenzioni possono essere anche buone, e al limite vicinissime, se pur con un corpo diverso, alle mie o a quelle di chiunque… ma bisogna farsi capire. Da questi manuali non ne deduco molto rispetto all’esempio offerto, o comunque debbo calcolare ANCHE e SOPRATTUTTO il fraintendimento… perché un sito su scala internazionale è una responsabilità immensa; voglio volutamente rivolgermi a chi ha frainteso, scusa. Ciao!
6 febbraio 2012 alle 20:41
@ Dan
Guarda, io sono da poco arrivato a capire, almeno in parte, lo “show, don’t tell”. Dato l’esempio che hai portato sui cavalieri della tavola rotonda ne deduco che tu non l’hai capito.
Non è la quantità di dettagli a far funzionare questo stile, ma la tipologia degli stessi, nonché il punto di vista…
Raccontare vita, morte e miracoli dei dodici cavalieri durante il prologo sarebbe inutile, nonché contrario alla filosofia di questo stile, che privilegia il mostrare l’essenziale che serve a mandare avanti la storia stessa… quindi del tuo esempio è proprio sbagliato l’assioma…
Prova a leggere Assault Fairies ;-)
3 febbraio 2012 alle 10:08
Volendo solo un attimo avvalorare maggiormente il punto di vista di Stefano, mi sento di dire che effettivamente il rischio maggiore, e anche inaspettato, di questo stile lagato al mostrare, e dunque suppongo io a forti descrizioni e dettagli, è, ahimé, la pedanteria. La pedanteria è un vizio da sempre evitarsi, ed è bene ricordarlo, perché è giusto che d’un vantaggio stilistico si colgano pregi e difetti…
Se, come espone G., il pregio è suscitare nella mente del lettore, fedeli immagini da ricordarsi, il contro è o può essere la noia del lettore… ed è una noia da mettere in calco.
Si calcoli infatti che sì, la priorità è sempre a una storia e a una storia molto bella, ma nessun lettore è dotato di pazienza infinita, ed ogni scrittore sa fino a che punto forzarla, quando incoraggiarla, quando metterla alla prova, quando sottotorchio, quando rilassarla e lasciarla a riposo…
Pensiamo (pur se in un aspetto diverso) alla pazienza dello spettatore de Il Signore degli Anelli: dopo forti scontri, shock emotivi ecc., c’è sempre una chetarsi, che è terapeutica e utile anche per tornare sulle cose d’effetto… In termini di ‘fatica’, il fruitore d’un film l’esercita con la sopportazione d’immagini ‘forti’, truculente e stucchevoli -basti pensare che una signora canadese è morta alla vista della crocefissione di The Passion.
Il un libro, la ‘fatica’ è quasi sempre in termini di concentrazione e sopportazione delle trovate descrittive dello scrittore. Si fa presto a rompere la soglia, il patto silenzioso che stabilisce un rapporto prolifico fra le parti, e ad abbandonare un libro promettente a se stesso… Il patto che stabilisce il lettore medio (anche noi, se poi ci facciamo un autoesame) con lo scrittore, è più o meno questo: io ti concedo il mio tempo, ma tu farai in modo che non venga sprecato nemmeno un secondo, mi giuri che tutto ciò che dici mi sarà utile, e non sarà mai davvero superfluo… E in qualità di scrittori a questo patto bisogna tener fede.
Fermo restando che uno stile lo fiuto anzitempo, le trovate descrittive non dovrebbero mai esercitare il lettore più del previsto, e se lo faranno, lo scrittore l’avrà messo in calcolo come ‘cigliegina sulla torta’ (pensiamo alla guerra del fosso di Helm, lunga ma mai estenuante).
Se, ad esempio, l’incipit d’un libro mi vede alle prese con i cavalieri della tavola rotonda, solo un ‘cieco’ fan del mostrato spenderà le prime sette pagine col dirmi di ogni cavaliere, descrivendolo fedelmente affinché il lettore non si senta ‘smarrito’: in un racconto, un lettore si sente smarrito solo se non si racconta… Ai fini della narrazione, ad esempio, potrebbe essere del tutto superfluo sapere del passato di dodici cavalieri; descriverli tutti e dodici, come detto prima, assueferebbe con troppa facilità, e la fiducia iniziale è importante…
Personalmente partirei secco e deciso: “Non c’è più un attimo da perdere!” cominciò -e concluse- l’attempato Re. “Partire è ormai necessario: le legioni di Orchi oltre le nebbie sono oltre l’immaginabile!”.
Poi prenderanno parola altri, e magari, dopo un lungo discorso di tre pagine, del Re concludo solo che è attempato, che ha una corona vetusta sul capo e che la sua barba è screziata di grigio.
Sorvolo rapido sugli altri, deducendo che Percival è un po’ stempiato rispetto all’ultima volta (quale? Non si sa: il lettore ne trarrà una conseguenza), Lancillotto è meno bello d’un tempo e che gl’altri sono molto attenti, chi moro, chi biondo.
Cosa ho fatto? Ho indicato che il protagonista non è il gruppo un po’ arrugginito di Cavalieri, ma l’urgenza della loro Missione, e questo è molto più importante che ricalcare aspetti sui quali potrò tornare quando ci sarà tempo per farlo (ad esempio una cavalcata).
Inoltre non ho mancato di descrivere: ma l’ho fatto secondo un principio di sottrazione, non di addizione… Ho cioè sottratto dalla fantasia del lettore i dati che assolutamente non poteva far propri, non trascurando di fornirgli i principali. Molte volte si arriva ad un’immagine nitida d’un solo personaggio sprecando tutto il tempo della lettura, ma la proprità è sempre alla storia.
La creatività d’uno scrittore è nel comporre una storia riuscita, no nel creare immagini pittoricamente nitide, e il più volte possibili… Cosa si dice del Ponte di Kazadum, su ISdA…? Praticamente nulla, ma un lungo ponte di roccia nel vuoto è sufficientemente evocativo per trarre una forte immagine nel lettore…
E’ come, cioè, se le descrizioni si rendono necessarie ogni qual volta so, sento, deduco, che il mio lettore medio sarebbe totalmente spaesato, senza il mio ausilio, o privo dell’emozione che intendo conferirgli; ma non userò la penna per l’ovvio e per ciò che anche lui può sapere anche meglio di me. Perché se do del deficente (se gli dico che è un inetto privo di qualsivoglia immaginazione) è giusto che mi ridia del deficente…
A mio parere, parole sufficientemente cariche di significato, di storia, d’immaginazione collettiva, di vissuto arcaico, sono il più delle volte da lasciare a se stesse e all’esperienza che il Lettore privatamente ne ha conchiuso. ‘Drago’, ‘Magia’, e se si vuole anche ‘Torre’, ‘Bastione’, ‘Castello’, sono parole talmente cariche di esperienze personali che le intaccherò solo se ne troverò una vera motivazione… E’ assolutamente inutile aggiungere al Drago qualcosa (aveva un collo lungo-lungo, una bocca grande e aguzza di denti, era come un pipistrello gigante con un collo di lucertola; forse il bambino ha bisogno d’una conferma oggettiva del suo immaginario, ma per un adulto questa fatica non è solo superflua, è sciocca), a meno che non intenda dire, ad esempio, che sul muso, oltre alle scaglie, partivano piccoli e grandi corni d’avorio, sempre più grandi man mano che raggiungevano le due lunghe corna di cui era munito. Oppure se il Drago ha due mandibole, e dunque due bocche capaci di due fuochi…
Sulla magia, poi, quando se ne vogliono trarre delle conclusioni diverse rispetto a quelle che anche un bambino immaginerebbe, a mio avviso si fanno per lo più dei grandi buchi nell’acqua: fa chiasso, clamore, ma la magia in quanto tale, con l’accezione primitiva, non la si smuove…
Personalmente calcolo (e spero che ognuno calcoli) anche questo: io, acquirente della storia, esercito il mio diritto sulla storia proprio perché ne trarrò un’esperienza personale, e questa esperienza personale si nutre giocoforza della mia fantasia, caro scrittore, non solo della tua. Tu dovrai aiutare la mia, e non io infilarmi nella tua per adularti… Il prezzo l’ho pagato io, la fatica di leggere è la mia, e tu farai sì che questo viaggio non sia il tuo viaggio, ma il mio. Pertanto, con il prezzo di copertina ho diritto ad un mio sfogo immaginativo che troverà l’ausilio della tua e mia fantasia, in collaborazione; ricorda che i personaggi sono miei, perché l’ho comprati e perché nascono nella mia testa quando ne dici, pertanto baderai di non munirli di troppi orpelli che li legano esclusivamente alla tua. I miei diritti d’acquirente e ascoltatore sono proprio questi, e tu lascerai che io possa esercitarli.
Sappi che io ho già un’esperienza legata al vocabolario, alle parole, e tu avrai la cura di non frapporti sgarbatamente a questa esperienza: non intaccherai con trovate stupide le parole che compongono il mio immaginario, e ne avrai profondo rispetto; pertanto eviterai l’ovvio e il banale…
1 febbraio 2012 alle 18:54
Interessante…
Forse si tratta d’una critica contro la frigidità analitica dei settecentisti, contro il verismo del ’700… Molto molto coraggioso, come tentativo romantico…
Suggerirei comunque, per ampliare la visuale in merito all”occhio narrativo’, di cui spessissimo si parla, ‘Esercizi di Stile’ di Queneau, traduzione di Eco: un fatterello asciutto e stringato ripetuto un centinaio di volte con stili sempre diversi, proprio per comprendere in quanti modi è possibile dire una cosa.
Esistono stili aulici, lusinghieri, gretti, blasfemi, stili che si focalizzano sul colore (si prenda Morckock, ad esempio), basati sulla recitazione di qualche personaggio spettatore diretto o indiretto, stili ironici, ecc. ecc. ecc.
Non dico che sia errore tutto ciò: nulla è errore, ma di certo questo criterio di scrittura non rappresenta un punto di partenza universale, ed io lo potrò gustare meglio in alcuni lavori e meno in altri…
Verrà fuori meglio con certe idee, meno con altre, per nulla con altre ancora. Ciò che critico non è la passione di G. (stimo profondamente chiunque sia capace di passioni): è una, a mio avviso, mancata obiettività di fondo; così come lei, col suo metro di giudizio, boccia ogni uscita e a volte libri molto importanti, così potrei fare io con i miei e voi coi vostri… ma è stupido. Iniziamo a capire che le persone sono quel che sono, e che ognuno avrà il suo stile personale e la sua capacità personale. Puoi al limite rimproverare di non averla portata alle massime conseguenze, ma è un altro paio di maniche…
Proprio non le riconosco la capacità di saper entrare nel mondo altrui: c’è molta (troppa) centralità in merito alle proprie idee e poca apertura… grave anche nel caso delle stroncature, perché potrò sempre obiettarle secondo queste scuse -non piccole.
Insomma: trapela troppo lei come scrittrice, e il critico è un mestiere (o un’attitudine) decisamente diversa, aldilà dei voti in pagella che si danno… L’obiezione d’un critico non è mai filtrata da un proprio personalissimo e puntiglioso punto di vista sull’arte in generale, e dunque le critiche che escono sono sempre le critiche d’una scrittrice che ama una certa scrittura che puntualmente non riconosce in ciò che compra. Ma questo fa parte di ogni scrittore o aspirante tale: Tolkien disse a Lewis: ‘temo che i libri che piacciono a noi dovremo scriverceli’… E avevano ragione, perché davvero non c’erano.
1 febbraio 2012 alle 16:54
Mi viene in mente un racconto di Heinrich Von Kleist, ‘La Marchesa d’O.’, del 1808. E’ uno dei più famosi racconti in lingua tedesca. Una ventina di pagine fredde e misteriose, scomode e inquietanti.
Siamo nell’Italia del Nord ma ogni traccia di colore locale è assente: potremmo essere dovunque. Le città e i paesi sono indicati con le sole iniziali, come pure le persone – la Marchesa d’O., il Conte di F. – a meno che non vengano indicate con la qualifica: il Comandante, la moglie del Comandante, il Generale etc.
Descrizioni fisiche zero: del Conte e della Marchesa sappiamo che sono belli; di tutti gli altri nemmeno quello. Così pure le descrizioni d’ambiente, il minimo necessario per far muovere i personaggi.
L’azione si svolge durante una guerra non precisata (anche se la presenza di truppe russe in Italia indica abbastanza chiaramente il 1800, la campagna di Marengo). E’ durante l’assalto alla città da parte delle truppe russe che accade l’evento traumatico che mette in moto l’azione. L’evento è veramente pesante ma non ci viene mostrato in alcun modo; ci rendiamo conto di quel che è successo solo qualche pagina dopo e da quel punto della storia noi sappiamo e i personaggi, tranne uno, no. La storia è come essi, soprattutto la Marchesa, vengono a saperlo e come reagiscono.
In pratica un racconto di pura ‘situazione’, che assomiglia a un riassunto o un diagramma, ma che è incredibilmente efficace (ovviamente non può essere più lungo di quel che è) pur violando letteralmente TUTTE le regole della narrativa moderna. Da un lato ci dimostra che, a volte, si può giocare con le proprie regole; dall’altro ci ricorda la vecchia saggezza secondo cui le regole debbono essere conosciute bene per poterle infrangere con comodo.
(fra l’altro, concordo che la regola ‘show don’t tell’ funziona bene se non è usata troppo maniacalmente. Per esempio, dire di un personaggio che è ‘vecchio’ va benissimo, non è davvero una parola astratta dato che ogni lettore darà senza problemi un volto ‘vecchio’ al personaggio in questione)
1 febbraio 2012 alle 15:55
E questo è l’errore del cattivo narratore. Costringere il lettore a immaginarsi da solo cosa fa Anna quando “comincia a studiare”. ^_^
Strano, perché qui sembrava avessi capito:
Se ‘Anna sottolinea i paragrafi del libro al capitolo giusto’, non voglio dire che Anna comincia a studiare, ma che Anna è meticolosa, forse di suo.
Se ‘Anna scarabocchia cuoricini lungo il bordo della pagina’, non voglio dire che Anna comincia a studiare, ma che Anna è, molto probabilmente, inguaribilmente innamorata…
Scua ma non capisco sul serio… Una semplice verità come il fatto che Anna studi, IN OGNI CASO deve essere farcita con altro, qualcosa che addirittura ne muti la sostanza…?
Potrei dire Anna studia matematica, ma se ai fini del racconto la matematica me la sbatto, Anna non la studia -non voglio dire che è pragmatica e calcolatrice: se apre il libro di matematica, la sola presenza del libro mi induce a credere che lo sia o possa esserlo.
Potrei dire che lo fa con dedizione, ma se non la desidero concentrata eviterò di dirlo.
Mi è capitato molte volte di sentire un regista che, alla domanda dell’attore: “Questa come la faccio?”, risponde: “Falla come ti viene”. Significa: è un preludio di cui ci interessa fino a un certo punto, l’importante è che si sappia che studi… E questo avviene miriadi di volte anche in narrativa. In questo caso, lo scrittore dice al lettore: immaginala come vuoi, non è importante…
E se il lettore non è un malato di mente Anna non studierà con le gambe sulla scrivania, la schiena nel vuoto e la testa sulla sedia; se non altro perché non si sentirà autorizzato a vederla in questo modo.
Mi sembra ci sia troppo studio di detto e pochissimissimo studio di non-detto, che è tanto importante quanto, se non molto più del detto…
E poi bisognerà che prima o poi che s’affronti seriamente il tema ‘figure retoriche’, che sono i VERI strumenti del narratore…
Inizierei dal protagonista de Il Postino: la metafora.
1 febbraio 2012 alle 15:31
Tu dici bene che in quel punto ho capito… Ma se ogni frase fosse un mero pretesto per andare a fondo o ancora più a fondo, il gioco può andare avanti all’infinito (se disegno cuoricini, veramente sottolineo molto di più che è innamorata, e non che studia: un bravo regista saprebbe dirtelo meglio di me; ma posso dire che scrive sotto i cuoricini Marco, che non è Giovanni, e che è magari sia il cugino che il compagno di classe, dunque suscito il dubbio d’un possibile incesto oppure no; e così via…).
Il punto è Quale Verità Tu Come Scrittore Ti Senti di Dover Mettere In Luce Per Dare Consequenzalità al Narrato. Non è detto che sia la più dettagliata possibile, quella giusta: l’ho detto anche prima, e mi sembra molto semplice, dipende come proseguo la frase, ma BOCCIARLA A PRIORI no, perché sennò questa è una scuola di stupidi… Anna cominciò a studiare; era svogliata.
Che c’è di male in questa frase? Il modo in cui cadono entrambe, il tono svogliato, è anche tautologico, mi sembra…
A te come lettore, poi, non è dato di avere troppe curiosità: non quelle che ti pare, solo quelle concesse dalla Curiosità primaria dello scrittore, che mette in luce quelle giuste… La scrittura e la regia sono una splendida dittatura, l’uncia bella e l’unica possibile. Puoi solo metterti in balia di questa dittatura, e dire che bel regno o che brutto regno… La mancata libertà che alcuni potrebbero rimproverarmi con questa asserzione, è proprio bocciata dal fatto che Anna me la posso immaginare come voglio, così come i suoi modi. La narrativa, da questo punto di vista, è l’arte più democratica che ci sia, ed è proprio questo suo cuore pulsante che mi sento di difendere.
Di fatto, insomma, è una frase semplice, e nella sua semplicità anche possibilmente necessaria. Ho capito che dite: evitiamo lo scrittore pigro… ma tolta la pigrizia, esiste un terzo passaggio: tornare alla semplicità, per condensare più eventi insieme e più esperienze insieme -di lettore- così che ad ognuno arrivi il suo…
Questo è molto più difficile ma molto più adulto.
E tutto questo bagaglio informativo essenziale, rischia d’andar perduto, se diamo per buono che non va MAI bene.
Si abbatte la fiaba, la favola e tutto ciò che ne consegue; Fantasy compreso, che vi deriva pienamente.
Specie, io trovo, si omette quell’ingrediente necessario che è il mistero, e che ogni buon lavoro dovrebbe contemplare in minima parte, almeno per il gusto della rilettura. Altrimenti diamo pure per buono che fra il libro e la tv passa solo questa differenza: la tv descrive molto molto meglio del libro…
Mentre il punto di forza della narrativa è proprio la cooperazione del fruitore, e questo te lo potrebbe giurare ogni esperto del settore.
In merito ai dettagli splatter, se lei li preferisce c’è poco da difenderla: li preferisce e basta… Non mi dice ‘andateci piano’, ‘vanno fatti in questo caso e in quest’altro no’, pertanto non sono autorizzato a credere che queste difese siano buone. Ha una predilezione per il macabro, che, siccome nel dettaglio, va sempre bene: questo si deduce dal suo dire, e questo capisco. Il fatto è che è Horror, non Fantasy, o se nel Fantasy, la cosa deve in qualche modo essere motivata… G. ama freddare tutto e tutti; è molto più Pulp che altro, e questi manuali, l’estensione dei suoi ragionamenti e dei suoi gusti privati.
Pulp con l’accezione moderna, da intendersi: non credo abbiamo le stesse letture (Howard, Lovecraft, ecc.)…
Per riassumere: la verità ultima che indica lo scrittore, è quella che arriva come informazione al cervello del lettore, e se il dettaglio ‘innamorata’ fa scaccomatto alla necessità di vedere Anna alle prese con lo studio, il racconto contemplerà Anna innamorata, a quel punto, aldilà che la cosa sia messa in luce tramite lo studio, una partita di tennis o gl’orsacchiotti rosa della carta igenica.
1 febbraio 2012 alle 13:18
E questo è l’errore del cattivo narratore. Costringere il lettore a immaginarsi da solo cosa fa Anna quando “comincia a studiare”. ^_^
Strano, perché qui sembrava avessi capito:
Lo scopo è proprio rendere il personaggio vivido. Caratterizzarlo (anche e soprattutto) tramite le sue azioni. “Anna cominciò a studiare” è un’azione vuota, e di Anna non mi dice proprio niente. Me ne frego. Anna che studia guardando la tv invece mi dice che Anna è una ragazza a cui non importa niente di quella materia. Questo mi interessa.
E perdonami, ma il mostrato non centra una mazza con il genere. La regola vale sia per il fantasy sia per l’horror sia per l’erotico e per quello che ti pare. Non vedo proprio niente di splatter in Anna che disegna cuoricini sul bordo del foglio. Eh. ^_^
Ciao.
1 febbraio 2012 alle 11:58
Qualche tempo fa, Anna ha avuto un incidente e si è fatta male.
con:
Ieri Anna è scivolata. Le ruote del tram le hanno tranciato le dita delle mani.
In pratica: lo splatter è sempre da preferirsi… Ma chi è il malato di mente che ad un’amica, una fidanzata o una parente direbbe: ‘Sai, ieri un camion ha tranciato le gambe di Anna’…? E chi te lo dice che la sensibilità d’un lettore non debba MAI essere calcolata…?
Ancora una volta t’invito SEMPRE ad indicare il target di riferimento, il genere in questione (a mio avviso non centrerebbe una mazzaferrata col Fantasy; forse Stephen King, si permette certe libertà), il prima e il dopo rispetto alla frase, che se è giusta è anche obbligata.
Anna cominciò a studiare.
Sostituirlo con altre cose… ma se ‘Anna consulta il diario per sapere quali capitoli leggere’, Anna di fatto non sta cominciando a studiare: si sta preparando per lo studio, e tu che ci capisci più di me e tutti noi messi insieme, dovresti sapere che la cosa narrativamente parlando è moooolto diversa… Stai dando un’altra informazione, un’informazione molto precisa. Le informazioni precise non sono gratuite: debbono avere SEMPRE una motivazione di fondo, e se non la si trova, diventano come i suppellettili e i souvenir d’un’arredamento caotico.
Di fatto, non esprimo il concetto voluto, e possono addirittura risultare fuorvianti, né più e né meno che come i pensieri irrisolti della nostra mente (azioni programmate e non fatte, lasciate a metà, incompiute, ecc.)…
Se ‘Anna sottolinea i paragrafi del libro al capitolo giusto’, non voglio dire che Anna comincia a studiare, ma che Anna è meticolosa, forse di suo.
Se ‘Anna scarabocchia cuoricini lungo il bordo della pagina’, non voglio dire che Anna comincia a studiare, ma che Anna è, molto probabilmente, inguaribilmente innamorata… Concetto importantissimissimo, perché può deragliare un’intera storia (e comunque è diverso avere o non avere un personaggio innamorato).
In pratica: nessuna frase può rendere meglio il concetto che Anna cominciò a studiare della frase ‘Anna cominciò a studiare’. Un libro vive anche dell’esperienza del lettore: dacché immagino che non sia un burundi, che leggerà il mio scritto, può darsi che io scrittore faccia appello alle consuetudini che solitamente hanno portato ciascuno di noi a compiere quelle azioni vitali per iniziare lo studio…
E dacché si suppone essere prosa, e non poesia, ciò che vuoi rendere meglio, lo puoi dire tranquillamente in seconda istanza, nessuno te lo vieta…
Ma andare sempre in fondo, avere sempre una lente d’ingrandimento, può essere un rischio. E’ come se un fotografo pretendesse che la sua macchina fotografica cominciasse a mettere a fuoco TUTTO, a prescindere: ne deriva che tutto è soggetto e nulla è sfondo.
Si faceva nel fumetto Pulp anni ’80, come Ranxerox; oggi è un effetto un po’ patetico, troppo carnale e viscerale… che a mio avviso ha a che vedere col Fantasy tanto quanto una pila di fagioli o un mazzo d’asparagi. Ha molto più a che vedere con l’Horror -e, dati gl’esempi, non ne sei troppo distante- ma tu invece pretendi che sia lo standard del Fantasy e addirittura della narrativa in generale…
18 gennaio 2012 alle 20:59
@Gamberetta
Ok, ora è molto più chiaro il concetto :-)
Mumble mumble…
Vado a meditare.
18 gennaio 2012 alle 14:39
@Eddy. Il problema è che senti la necessità dell’improvviso perché stai usando verbi troppo generici. Se scrivi che Michele “getta il libro e schizza in piedi”, o “butta il libro e scatta in piedi” è più improvviso che non con l’inserimento dell’improvviso. Confronta:
Con
Nella prima è molto più improvvisamente in piedi che non nella seconda. Tu stesso dici che quando leggi dell’improvviso vedi che Michele invece di posare il libro lo lancia: bene, scrivi direttamente che lo lancia e così puoi tagliare l’improvviso ed evitare che il lettore faccia la fatica mentale inconscia di dedurre che “posare all’improvviso” = “lanciare”.
18 gennaio 2012 alle 14:18
@Gamberetta
Non è che la vedo sempre da un lato, diciamo che la vedo più come in un film, con la “telecamera” che si sposta, che ruoto, che zooma…
Cpisco la parte riguardante il filtro emotivo, e sono pienamente d’accordo, ma credo che le sensazioni che prova il personaggio possano essere trasmesse dalle immagini che vede e dai pensieri che fa nonostante la telecamera non sia sulla sua spalla.
Poi, per mé funziona, per altri magari no.
Anche quando sogno, ad esempio, quasi sempre mi vedo in terza persona (senza contare che gli ultimi sogni che ricordo erano completi di colonna sonora, ma questa è probabilmente una mia malattia mentale).
Magari sono io che ho visto troppi film :-)
Tornando seri…
In molti esempi che fai te la prendi molto con l’uso di “all’improvviso”: dici che basta descrivere la scena senza usarlo e diviene ancor più improvvisa.
Ecco, se tu scrivi:
Michele stava leggendo il libro. Le parole scorrevano sotto i suoi occhi.
Lesse: “Alzati e cammina!”
Posò il libro e si alzò.
Secondo mé non è la stessa cosa di:
Michele stava leggendo il libro. Le parole scorrevano sotto i suoi occhi.
Lesse: “Alzati e cammina!”
All’improvviso posò il libro e si alzò.
Nella prima versione io lo vedo posare delicatamente il libro e alzarsi, nella seconda versione lo vedo lanciare il libro sul tavolo e scattare in piedi…
Nel secondo caso percepisco qualcosa di diverso, un senso di urgenza che nel primo non c’è. E questo anche se vedo la scena inquadrata di lato, capito cosa intendo?
18 gennaio 2012 alle 11:47
@Eddy. Per il fatto che visualizzi mentalmente le scene sempre da un lato non saprei che dirti, a me non succede. Per esempio quando in Finch il personaggio afferra la maniglia della porta vedo la sua mano dall’alto come se la telecamera fosse nella testa del protagonista.
Detto questo non ne so abbastanza di cinema per fare un discorso serio sul perché certe tecniche funzionano in un’arte ma non in un’altra. Però Doom l’ho visto anch’io: lì non c’è una corretta prima persona, non dal punto di vista narrativo; in prima persona non inquadri quello che vede il personaggio – come invece avviene in quel film – “inquadri” i pensieri del personaggio in relazione a quello che sta vedendo. In altre parole la realtà percepita dal personaggio deve essere filtrata dal suo cervello prima di essere presentata al lettore. Può essere più coinvolgente perché non solo puoi mostrare una lancia che trapassa la pancia di un tizio, ma puoi anche mostrare le sensazioni del tizio mentre succede.
17 gennaio 2012 alle 14:01
Domanda sulla “telecamera”.
Personalmente, quando immagino le scene dei libri che leggo, difficilmente le immagino posizionando la telecamere sulla spalla o nella testa del personaggio punto di vista.
Prendo l’esempio di “Finch Incipit”: io la scena la vedo da un lato (quello destro per la precisione), nonostante il tentativo dell’autore di farmi immedesimare.
Non so se sia un mio limite, comunque non ha mai inficiato la mia capacità di emozionarmi di fronte a scene ben “mostrate”.
Ora la domanda: perché un uso della “telecamera” in stile cinematografico (riprese dall’alto, da dietro, da davanti, ecc…) dovrebbero rendere meno reale la scena?
Insomma, nei bei film io mi emoziono anche se il film non è girato in prima persona, anzi, di solito l’attore viene sempre inquadrato.
Oltretutto i tentativi di girare scene d’azione in soggettiva (vedi doom o the house of the dead) mi sono sembrati patetici fallimenti.
Attenzione: la domanda è seria, mi interessa capire.
6 dicembre 2011 alle 12:30
E’ chiaro che in una buona storia bisogna mostrare (in questo siamo tutti d’accordo, credo), il necessario: il racconto, cioè, deve seguire le file d’un ragionamento, d’un dialogo fra narratore e lettore, e in questo rapporto, in questo lungo dialogo, il narratore avrà la cura di far tutto per non sentirsi dire: ‘beh, ma qui com’è da intendersi? E qui? E cosa è successo a loro…?’; cioè, nel suo agire, deve evitare che il lettore sia assalito da forti dubbi e perplessità, e anche deve cercare che egli fruisca nel migliore dei modi possibili la storia.
La pigrizia stilistica che forse qui è sottintesa per dire del mostrare, a mio avviso va intesa nel caso in cui grandi pezzi di storia vengano smarriti per strada, o nel caso in cui cose assolutamente vitali vengano superate superficialmente…
C’è un esempio che amo citare: vidi Il Ritorno del Re al cinema.
Bel film, ma, uscito dalla sala, molte cose non mi tornavano…
Avevo la sensazione che il mio occhio avesse come smarrito qualcosa di importante, che quel senso di pace finale fosse stato compromesso da un matornale errore, e non capivo quale. E poi: ‘Ci sono!’.
S’è mai visto un film in cui non si vede la morte del cattivo…?
Il grande orco, dal viso storpio, che spesso s’inquadra e s’addita come capitano delle legioni nere -un bel tormentone- non l’abbiamo visto morire…
Ci rimasi molto male: una trilogia così ben eseguita, e un errore che nemmeno un teatrino salesiano saprebbe rifilarti con tanta distrazione.
Poi vidi la versione non tagliata, e lì mi capacitai: il lavoro aveva subito fortissimi tagli, ma tagli tanto alti da non poter essere scambiato per una versione definitiva…
Per quanto bello, quel film pecca, e di molto: non ci racconta come dovrebbe.
G. credo voglia pervenire, però, non alla struttura, ma all’attitudine stessa dello scrittore nell’atto dello scrivere; questo non lo trovo coretto, perché se c’è una cosa che amo degli scrittori è la loro diversità di stile, il proprio personale far fruire le giuste informazioni al lettore (la stessa vecchiaia di Michele, può essere resa in mille modi, in un racconto, non solo spiattellando la sua vera età); ecco allora che a me il suo mostrare non raccontare suona di più come uno sviscerare non raccontare. E questo è decisamente uno stile (magari bello, nelle sue mani), ma giammai un dogma.
6 dicembre 2011 alle 08:36
Forse la validità dello “show don’t tell” si potrebbe chiarire dicendo così:
“Show” è la scelta migliore.
Salvo un piccolo “ma”. Questa è una frase detta in modo “tell”.
2 dicembre 2011 alle 15:46
Sto ascoltando, ma 45 minuti di intervista sono un suicidio ed il mio tedesco non è perfetto.
Passo x)
2 dicembre 2011 alle 15:22
Figurati.
Penso di dirlo nel posto giusto: http://www.youtube.com/watch?v=wh2aR_Rs_zk
Chiunque sia tedesco -o anche finendo nella foglia, nella speranza qualche pantegana lo sia- o italo-tedesco, o profondo studioso di lingua teutonica, sarebbe carino, per ognuno di noi, sapere come la pensa Michael Ende…
2 dicembre 2011 alle 15:07
A parte quotare Franek, mi limito a dire una cosa.
Nel mio piccolo, quando scrivo, tendo ad usare autonomamente le regole o i consigli che ho già assimilato -e a giudicare dalla reazione, si vede e il mio sbattimento dà frutti.
Se do in mano la penna a mio fratello -fa le superiori e non ha mai toccato un libro spontaneamente- e gli metto una traccia davanti, dicendogli che deve scrivere una cosa, uscirà un riassunto striminzito simile alla bozza più becera che potevo produrre anni e anni fa.
Se faccio lo stesso con mia nonna, si metterà a versare fiumi e fiumi di ricordi sfumati e sentimenti e quanto ha sofferto nella sua vita e quanto sta male.
Ma la storia, il compito vero, dov’è?
Se qualcuno non ha ben chiari in mente i concetti base della narrativa -appresi anche in maniera indiretta attraverso la lettura di buoni libri- non scriverà bene secondo i canoni contemporanei del termine.
Quindi, se di regole non si può parlare, lo si può fare di concetti: ritengo lo show, don’t tell un concetto base della buona narrativa.
Inoltre, Dan, il tuo periodare ha la straordinaria capacità di risultarmi astruso. Perdono :)
2 dicembre 2011 alle 13:41
te vojo bbene…
2 dicembre 2011 alle 11:28
Non l’ho tirata fuori io. Probabilmente chiederti di leggere i post precedenti è troppo, ma i primi commenti sono stati di persone che hanno esordito a passo di carica L’Arte non ha bisogno di regole.
Accostare l’Arte al moccio che viene pubblicato è come maritare il bambù con la legna.
2 dicembre 2011 alle 11:07
Avoja…
Resta il dettaglio che l’hai tirata fuori te (ecco: questo è mostrare, no?).
Vivete dei conflitti d’interesse che sinceramente non mi auguro…
2 dicembre 2011 alle 11:03
partiamo dal fatto che Picasso era un ritrattista eccezionale e questo ormai lo sanno anche le colf portoricane da motel. Spero la tua fosse ironia.
Seconda cosa, non sei riduttivo per primo tirandomi fuori i pennelli negli anni 60? E’ una stronzata. Seguo la performative art e a volte ho fatto qualche performance. Solo perché non avevamo in mano pennelli, scalpelli o spatole non è che è venuto in mente a qualcuno di farle a caso.
Le regole vengono assimilate e in seguito si può parlare di un metodo personale. Le regole, per come le vivo io, servono da tramite con un pubblico che ha diritto di fruire della produzione artistica. Se si gioca secondo schemi e regole diverse è difficile che possa essere di libera lettura. E l’arte nasce come comunicazione, un artista sa comunicare. Uno scribacchino no.
Non mi pare che G. si sia scagliata contro Grandi Scrittori, se togliamo Manzoni del quale però ha specificato di non avere preparazione storica, ma contro scribacchini della domenica. E’ arte quella? Quindi, a meno che non parliamo di Geni direi che il discorso l’artista non ha bisogno di regole ce lo possiamo comodamente risparmiare. Qui non si parla di arte ma di narrativa di genere. Questi strumenti sono dati in mano non a Grandi Artisti ma a chi si avvicina alla disciplina e HA bisogno di infarinatura. Quindi parlare di Arte con la A maiuscola in un articolo How To mi sembra fuori luogo.
2 dicembre 2011 alle 10:43
Poi inziamo a smentire le cazzate che forse ci sta: gli avanguardisti conoscevano le accademie…??? Ma chi? Picasso, a dodici anni…
Perché la fortuna delle avanguardie storiche nasce proprio dal fatto che Rousseau faceva il doganiere, Van Gogh non c’aveva una lira pe’ fa due, e così via…
N. c. s.: nun ci siamo…
La fortuna sta in ciò che solo all’epoca poteva passare per ignoranza: in realtà era una naturale evoluzione stilistica… che più non permette passi indietro, tant’è che dubito si venga presi solo in caso di mani estremamente eccellenti in fatto di verismo, oggi, nelle Accademie.
Purtroppo ‘sto ’900 nun ci entra in testa, nemmeno a spigne forte… ma anche lasciandolo lì dov’è, non credo Manzoni, Dante e Petrarca abbiano partecipato a delle scuole -se non di pensiero.
Caro mio: i veri scrittori hanno visto come fanno i salmoni, è stata quella, la loro scuola…
2 dicembre 2011 alle 10:22
Ma per favore…
Ti poni già in un atteggiamento sbagliato.
Primo siamo fra colleghi, ‘ché vengo dalle Belle Arti anch’io; secondo, proprio nelle Belle Arti, se negl’anni ’60 entravi con dei pennelli ti cacciavano a pedate sul sedere…
S’era giunti alla massima comprensione che arte è tutto, e si può fare con tutto.
Le avanguardie storiche, disgregando le accademie (le scuole) in mille frammenti diversi, hanno anzitutto istituzionalizzato l’individualità dell’artista: ogni artista fa scuola a sé; ma sarebbe una bugia dire che questo non faccia parte di tutto il ’900 anche letterario.
Ormai, però, questa personalizzazione dell’arte è alle stelle, e che ancora mi si parli di scuole lo trovo quanto di più ridicolo, specie nella narrativa, che è arte del pensiero, quanto di più personale e quanto di più difficile da imbrigliare…
Fra l’altro, non vedo proprio come poter prendere queste cose per delle lezioni accademistiche, dacché in più punti (noto casualmente) del sito ultimamente le discussioni vertono su questo: una sola parola, una sola virgola, un solo silenzio, sanno raccontare più di mille file di righe messe insieme…
e se non accetti questo come dato di fatto non solo non capisci la narrativa, ma non capisci la vita, ‘ché da sempre un ti amo è sunto di miliardi d’attese, e ci fa battere proprio ciò che tu dici: il cuore, che è sede dei sentimenti ed è pertanto destinatario d’un buon libro, che ti piaccia o meno come verità.
Un bravo scrittore sa come farlo palpitare, o per l’emozione, o per la paura; un bravo scrittore sa quanti veleni, anestetici e antidoti iniettare.
Ma non si può parlare di narrativa senza parlare delle necessità d’una certa idea, così come non si può parlare degli strumenti della scultura slegata dall’idea base d’un artista.
E’ per questo ch’è a mio avviso tutto etereo e impalpabile, e che le idee esposte da G. possono funzionare solo per lei, e direi anche grossolanamente, perché può benissimo saltarle, o esserne indifferente. A questo punto mi si dirà: si può fare.
E allora io ritiro fuori il dio androgino: o è una regola, o non lo è (e allora assumeremo già un nomicino diverso, per identificarla), e se lo è, come tale, è imprescindibile. Se non lo è, tiro fuori le parole di Moretti: LE PAROLE SONO IMPORTANTIIII…! Non puoi dire ‘eh, ma si può pure saltare’, e poi dare larghi consensi ad essere torturati se non s’accettano alcune clausole -non ricordo tutte le simpaticherie che G. augura ad ogni regola, ce ne sono molte.
Ci sono sin troppe incongruenze di fondo, per far poggiare un dialogo su un terreno di condivisione…
Specie, etica e estetica non possono scindersi: sarebbe come parlare di una macchina senza vederne le prestazioni, senza motore, insomma.
Che in un sito si dia come regola base il non disquisire su religione e politica (che comunque possono riguardare un libro), può starmi bene; che si parli solo di tecnica no, perché il significato è un sasso in bocca al significante.
E c’è bisogno d’aspettare un mio capolavoro per essere d’accordo con questo…? Io credo che basti solo un briciolo d’obbiettività e buon senso…
2 dicembre 2011 alle 08:19
@Dan
qui credo che coi paragoni possiamo piantarla. Per qualunque tipo di disciplina conoscere le regole è alla base di una produzione, che sia artigianale o artistica. Se TU hai voglia di lasciarti andare alla diarrea produttiva liberissimo di farlo. Figurati se ti fermo io. Questo non toglie utilità all’articolo e alle regole di base. Il mio campo è quello delle belle arti: ogni avanguardia è nata dalla rottura di qualche regola, ma gli autori appunto le conoscevano e le conoscono. Lo studio è alla base e se un giorno leggerò un tuo Capolavoro esente da qualunque regola, sarò il primo a mangiarmi le mie parole e ad ammettere la mia incompetenza. Fino ad allora la mia idiozia è tutta da dimostrare, la tua al massimo da constatare e archiviare.
1 dicembre 2011 alle 22:24
Però questa storia che un tempo gli scrittori allungassero i romanzi perchè scrivevano a cottimo… Cosa dovremmo pensare dei tipici cicli horror-romance-YA da 3000 pagine complessive? Delle grandi ed epiche saghe fantasy sulle 8000 pagine complessive? Sui thriller mozzafiato mai sotto le 400 a botta? Sui mattoni storici sulle 1400 pagine appaltati a legioni di ‘ricercatori’?
Mi è capitato di recente di leggere The Dome, di Stephen King, scrittore che ammiro ma che non frequentavo da tempo. Non male – meglio se avesse tagliato quel 700 pagine o giù di lì…
Insomma, i grandi romanzieri dell’Ottocento, al confronto, erano modelli di concisione.
In generale noto a volte spuntare in queste discussioni l’idea che oggi si scriva meglio di un tempo, che ci sia stato un ‘progresso’, ora che sappiamo le ‘regole’ e che un Elmore Leonard scrive meglio di un Honorè de Balzac e un George Martin meglio di Tolstoj perchè sono venuti dopo ed hanno potuto evitare i loro ‘errori’ – tipo che il ‘narratore onnisciente non si usa più’ e che ‘l’autore non deve inserire sue riflessioni nella storia’ etc etc etc – con la penna rossa e blu in mano. Nel romanzo (nell’arte in genere) non esiste progresso e, ammettiamolo, nemmeno regresso. Possiamo avere qualche difficoltà (ma davvero?) nell’immedesimarci in modi e idee del passato ma anche quelli del passato avranno le loro difficoltà a immedesimarsi nei nostri modi e idee – per non parlare di quelli del futuro che ci guarderanno con immotivata commiserazione…
Una cosa che la Gamberetta dovrebbe fare, per il bene dei suoi giovani fans, è occuparsi di qualche romanzo non di ‘genere’ o di un genere che non pratica di solito (che so, un romanzo d’amore o un giallo politico o un bildungsroman…), tanto per evitare di creare una generazione di scrittori-critici convinti che la letteratua sia tutta fantasy-horror-fantascienza-bizzarro e simili… Un’altra cosa che mi piacerebbe facesse sarebbe prendere un romanzo riuscito in cui si racconta bellamente e si mostra pochissimo (un esempio perfetto sarebbero i romanzi di Aldo Busi, sostanzialmente dei giganteschi monologhi narrati da un protagonista che dice sempre cosa pensa e prova di quel che vede, oppure, tornando indietro nel tempo, ‘Le Relazioni Pericolose’ di Laclos, un romanzo epistolare che provoca una specie di soffocamento claustrofobico e in cui non abbiamo nemmeno un accenno all’aspetto fisico dei protagonisti…)
1 dicembre 2011 alle 19:44
Beh, citazione memorabile, chi non la ricorda (e soprattutto, chi è quel mediocre democratico che non l’applica come un bravo Fantozzi); a guardar bene, però, fra le due idizie in gioco, credo indichi molto meglio la tua…
1 dicembre 2011 alle 18:38
credo sia valido anche per le regole della narrativa. Anzi per le regole in generale. Buttarla sull’animaeccore conviene solo a chi non è capace, chi non ha tecnica logicamente la disprezza: è la cosa più conveniente da fare.
1 dicembre 2011 alle 18:33
Eh? o.o
Non ho capito il tuo dubbio
1 dicembre 2011 alle 17:46
Se così stanno le cose, direi che la formula sia del tutto impalpabile, per come è esposta…
Ho capito che non è un iper-mostrare, ma non ho capito bene cosa sia.
Un dio androgino a tre piselli…?
1 dicembre 2011 alle 14:56
Ma anche le tecniche narrative dicono di non mostrare ciò che è inutile :D Nemmeno io ricordo il viso dei personaggi della storia infinita, semplicemente perché non vengono descritti così tanto. Solo, al massimo, quelle razze un po’ curiose vengono mostrate.
In realtà, lo Sdt è solo una delle tante regole, e molte altre regole, all’apparenza, paiono andare contro lo stesso Sdt. In realtà aiutano l’immedesimazione.
Ende scriveva con lo stile delle fiabe, come appunto dici tu, ed era amante del romanticismo, perciò il suo stile non era così accordato con lo Sdt, eppure non c’è dubbio che fosse molto più bravo (e originale, oserei dire, visto che prima della tecnica viene la storia) di molti scrittori odierni, specie italiani.
1 dicembre 2011 alle 11:30
Cercavoce:
Senza dubbio Ende, in qualità di fanatico del Romanticismo, amava del medesimo, potremmo dire, la sua verbosità, il suo prolungarsi assuefacente e persuasivo… Da un certo punto di vista, il mostrare è ovviamente parte di lui, come parte di lui era l’intero Romanticismo.
Ma in questo mostrare ovviamente non bisogna calcolare un pizzico di pedanteria che i manuali lasciano trasparire; forse non l’ho inteso pienamente, ma dal modo in cui è esposto, mi sembra che il Lettore, sotto questa luce, ne uscirebbe come un uomo asfissiante, estremamente curioso di qualunque cosa…
E’ probabile che semplicemente G. non abbia espresso a dovere, o nei punti più salienti, questo vezzo stilistico… perché di ‘Michele è vecchio’ ce ne sono un bel po’, ne La Storia Infinita; so, ad esempio, come sono i pelleverde (credo di essermeli immaginati a dovere), ma se mi chiedi di descrivere minutamente il viso di Atreyu, eccolo lì che questa esigenza non viene affatto appagata,
Lo stesso si può dire di molte altre cose… Il punto è, come dissi, che sempre, a detta di Eco, grande filolofo e saggista, il libro è meccanismo pigro che vive del plusvalore del lettore. Ora mi sembra che da un po’ di tempo a questa parte, questo plusvalore sia vacillante, o proprio mancante… Non so se la cosa sia attribuibile a questa eccessiva richiesta del mostrare.
In linea di massima, in libri come ISdA o La Storia Infinita, il Romanticismo va a fondersi con la fiaba, e nella fiaba abbiamo sempre questa scrittura nel necessario, mai nel superfluo; troviamo anche la possibilità del racconto di essere ciò che il Lettore vuole… Ognuno avrà immaginato la sua Fantàsia o la sua Terra di Mezzo.
Tuttavia, credo che vi siano due motivi attribuibili alla mancanza d’un mostrare appagante per i vostri palati: il primo motivo è che molte persone, in effetti, non hanno nemmeno basi romantiche, ma semplicemente di soap opera, tv, cinema, manga, ecc.
Ne esce fuori Il Mondo Emerso, cioè un F. totalmente slegato dalla tradizione occidentale -e questo nel migliore dei casi; nel peggiore, penne che proprio non hanno alcuno slancio narrativo…
La cosa, in seconda istanza, può essere spiegata così: semplicemente, non è più la stagione del mostrare… Quando si parla di mostrare, non si parla solo di Romanticismo (sul quale spero ogni buon scrittore, volente o nolente, si poggi), ma di un aspetto pregnante del medesimo.
Ora è chiaro che, come dissi in precedenza, la stagione più prolifica in tal senso era l”800: nell”800, infatti, gli scrittori erano pagati a cottimo, e dovendosi arrovellare le meningi su cosa scrivere e quanto, diciamo così, ‘annacquavano’ un poco le idee con descrizioni e pedanterie d’ogni tipo.
Poi figurano le cosiddette liste: la lista è quella lungaggine di minute descrizioni d’un dato fenomeno, così da dare al lettore piena consapevolezza dell’entità del suddetto. Una famosa è nei Promessi Sposi, la lista delle leggi legate ai Bravi, che ci fa comprendere quanto poco siano tollerate le loro balordaggini…
La lista si può saltare, ma nel saltarla, si ha ancor più la consapevolezza di quanto sia enorme il fenomeno descritto.
Insomma: l”800 era un maestro di mostrare, di essere sempre un tantino miope e curioso, ed essere sempre una sorta di mosca della narrazione, che si posa su tutto e impazzita corre di dettaglio in dettaglio, senza che nulla sfugga…
Riproporre la cosa oggi, non so se funzioni o se dovrebbe: primo perché non c’è più quella paga a cottimo, dunque lo scrittore non è più nella necessità della lungaggine per trarne profitti. Secondo perché tutto ciò è stato spazzato via dal neo-realismo e dalle avanguardie.
Al contempo, riproporre questo vezzo stilistico oggigiorno, si corre il rischio di accentuarlo eccessivamente (perché l’occhio abituato all’immagine sarebbe ancora più curioso), con la conseguenza che un romanzo somigli molto di più ad una serie di picture che ad un racconto.
Cioè: che il narratore non sia più nella narrazione (fatta di verità consequenziali) ma solo ed unicamente nell’immagine, lasciata poi all’interpretazione dei singoli…
Mi sembra che, a riproporla oggi, questa regola possa far divenire il Lettore una sorta di ‘cieco pedante’, sempre curioso del superfluo e mai del necessario…
Ciò che meglio d’ogni altra cosa possiamo trovare in Ende, è la ricchezza della parola, la parola esatta, perfetta, pulita, al posto giusto e al momento giusto; ed è proprio l’attenzione che si chiede in un’epoca in cui, grazie all’assunzione di royalty in percentuale, lo scrittore può avere.
Assumere come regola la sola prerogativa di mostrare, insomma, mi sembra come avere un occhio malato, che non mette mai a fuoco; cioè, mette a fuoco tutto, e su questa mancanza di discernimento (di sfocatura lì dove ci vuole) fonda la propria malattia.
Intendo che se il mostrare è una lente d’ingrandimento che va a toccare i punti salienti d’una storia, allora questo mostrare è messo in calcolo da tutti, ma proprio da tutti -’ché nessun editore, per quanto inetto, pubblicherebbe una storia dove non figuri il duello finale, ad esempio.
Se invece è prerogativa del racconto, non credo ne sarò mai sufficientemente interessato… O forse sì, ma ecco, andrei a comprarmi Dickens: ultimamente sto leggento Il Circolo Pickwick, e guardate che finezza da parte dell’autore: per scrivere molto, questa vostra curiosità direi piuttosto scentista e analitica, la incarna nello strambo Pickwick, che sempre gira con un taccuino per segnare ogni inezia (buscandosele pure). Poi ci mette un tipo logorroico -che gli darà un bel po’ da scrivere…
Insomma: la verbosità e il dettaglio -fino al pedante- sono più che appagati. Ma siamo, come ripeto, in un contesto più che favorevole…
Comunque: ognuno ami della narrativa ciò che più vuole amare.
30 novembre 2011 alle 22:55
E chi la prende come insegnante? è solo una persona che sa di cosa sta parlando perché ha studiato, nient’altro. Chissà, magari fra un paio d’anni (ok, magari cinque o sei…) saprò più di lei e me ne fregherò del suo blog :D
30 novembre 2011 alle 22:52
@Dan: proprio intrisi siamo, di Sdt… davvero, se vado in libreria faccio fatica a trovare del raccontato…
Ovvio che le innovazioni sono necessarie, ovvio che Gamberetta non è dio in terra della narrativa, ma è altrettanto ovvio che un sacco di scrittori che si definiscono tali non sanno nemmeno che significhi Sdt, e come farebbero tali scrittori a cercare qualcosa di nuovo se non hanno le basi?
Qui sta il punto. Sperimentare è lecito e, oserei dire, necessario alla letteratura, ma prima di farlo bisogna imparare le basi. è sempre così, non c’è altro modo. Io dubito seriamente che Ende non avesse mai sentito nominare dello Sdt e di altre regole narrative.
30 novembre 2011 alle 21:43
Nel proporre i manuali Gamberetta ha nominato testi che secondo lei non trattano bene o in maniera abbastanza approfondita un argomento;inoltre ha steso questa breve guida personalmente.
Non vedo quindi tutto questo atteggiamento accondiscente.
Più che maestra, Gamberetta è una guida: consiglia sempre di leggere i manuali ed operare con spirito critico.
Seguendo i suoi suggerimenti ho esplorato il mondo, appunto, dei manuali e ho seguito un percorso mio, pur supportato dai suoi consigli.
Riguardo alla questione della pubblicazione o meno… siamo in Italia. Con gli scrittori che girano, mi chiedo come tu possa affermare quello. Conosco imbrattacarte per hobby che sarebbero davvero degni di pubblicazione, al contrario di altri nomi famosi.
:)
30 novembre 2011 alle 21:19
Gamberetta ha dei grandi meriti e un’intelligenza luminosa. Ma non ha ancora pubblicato niente, e certe cose che sente con la testa non le sente con la pancia, dopo aver capito cosa significa essere scrittrice di professione e aver assaggiato il ripetuto alternarsi del successo e dell’insuccesso. Assumerla come insegnante è pericoloso. Il suo atteggiamento mentale è ancora quello dell’analisi mai disgiunta dalla rabbia esistenziale. Fra molti anni imparerà che il bisturi dell’analisi letteraria va manovrato con rispetto e compassione, altrimenti è macelleria. Circa il suo atteggiamento verso i manuali, lo trovo molto acquiescente, mentre dovrebbe invece lavorare per migliorarli. E’ contro la mala compilazione di certe regole che dovrebbe scatenarsi la sua capacità analitica, prima che contro gli scrittori imperfetti.
30 novembre 2011 alle 19:57
Non direi che ne siamo intrisi dalla testa ai piedi.
Molti scrittori di oggi non la sanno applicare e si abbandonano a riassunti astratti di storie. Eppure vengono osannati come grandi scrittori.
Io stessa prima di conoscere Gamberetta mi abbandonavo al raccontato comodo e facile, ho imparato molto proprio grazie a lei.
Inoltre, i bizantinisimi su show don’t teli / diverse accezioni del didascalico mi sembrano sterili e inutili.
Pareri personali, sia chiaro.
30 novembre 2011 alle 18:59
-Le regole non sono gabbie, uno volendo può anche infrangerle se vuole ottenere qualcosa che seguendole non potrebbe ottenere, ma intanto conoscile, applicale per imparare. Il punto è questo.-
Per imparare l’ovvio… Ho già detto miriadi di commenti fa (sicuro che il sordo son io?) che questa regola è vecchia di 200 anni: non c’è bisogno di G. che la spieghi, ne siamo intrisi dalla testa ai piedi…
Semmai trovo molto più utile il contrario: delle persone che si cimentino nella parola generica, nella parola fiabesca… Mettersi nella scuola di ciò che già si sa, quanto può essere utile…? Ma se apro un Calvino, un Buzzati, un Ende, ecco che la mia mente è tutta orecchi, perché di certo quelle cose le saprò solo da loro…
Ciò detto, libero di credere che il mostrare ottocentesco sia una scuola imprescindibile per fare buona narrativa.
30 novembre 2011 alle 18:05
Ma ascolti quel che diciamo o no? Le regole non sono gabbie, uno volendo può anche infrangerle se vuole ottenere qualcosa che seguendole non potrebbe ottenere, ma intanto conoscile, applicale per imparare. Il punto è questo.
Uno dei miei romanzi preferiti, se non il mio preferito, prende quasi a calci lo Show don’t Tell. è Il Gabbiano Jonathan Livingston. E comincia così “Era di primo mattino”
Un incipit che tratti del tempo è risaputo che sia un errore, e in seguito Bach, l’autore, non lo segue mica lo Sdt, ma io l’ho letto volentieri, perché comunque degli elementi concreti ci sono.
Tu hai appena ricordato l’incipit commovente, ma come l’hai ricordato? Con le immagini. Ti sei ricordato di quest’uomo che porta un bambino e un fascio di legna e che poi sposta un capello della donna… insomma, tu ti ricordi l’immagine, ti ricordi la scena.
Stessa cosa io con il Gabbiano Jonathan, mi ricordo le immagini, mi ricordo la scena, mi ricordo le parole. Mi ricordo la STORIA. E se tu e C.R. continuate a dire “non dev’essere una sceneggiatura” fate bene, perché non è per questo che io leggo. Io leggo perché le parole scritte seguono un altro modo d’imprimersi nella mente. Amo i film, ma amo ancor più i libri, e amo i libri che ti fanno riflettere su alcune cose, come appunto il gabbiano J.L., eppure capisco lo Show don’t Tell. Richard Bach non si è mai introdotto nella storia per parlare e far pensare il lettore, han fatto tutto i personaggi, i gabbiani del libro.
E poi, secondo me, c’è molta più intensità in un libro scritto con lo Sdt rispetto ad un film. è come se ti tuffassi dentro la storia, ancor meglio che in un film.
Altro libro che mi è piaciuto: le cronache di Narnia. QUasi tutto raccontato, ma ciò che mi causò Sense of Wonder (ebbi i brividi e mi misi a piangere dall’emozione, ma allora non sapevo cosa fosse, ora so che si chiama Sense of Wonder) fu una scena: il canto di Aslann che crea la terra.
Era scritto con lo Sdt? No. Se l’avesse fatto sarebbe stato meglio? Forse sì, forse no. Non lo so, a me piace lo stile fiaba, ma se vuoi far immedesimare ancor più il lettore segui lo SdT, e non solo quello.
30 novembre 2011 alle 18:01
@Cercavoce: sì, esattamente quel che intendevo con l’esempio del vecchio nel mio commento :).
30 novembre 2011 alle 17:38
Purché a furia di parlare di telecamere, punti di vista ecc., non si rischi effettivamente il libro-mancata sceneggiatura… Dacché i risultati vertono proprio in questo senso, io e C. R., suppongo, abbiamo tutte le ragioni per esprimere i nostri dissensi e le nostre preoccupazioni.
Mi ricordo un incipit commovente…
Un tizio che entrava con un fascio di legna nel braccio destro, un bambino nel braccio sinistro (tenuto tipo cannone???).
Chiede se il bambino è della donna distesa al letto: non sa riconoscerlo (che devo intendere? Hanno bambini o no? Ne hanno davvero perso uno?).
Si avvicina alla donna: discosta leggermente il capello dicendole una cosa… Insomma, dettagli per arrivare ad un’immagine… ma la N. non s’esprime per immagini: se ne ricavano immagini, ma tramite l’assunzione d’una serie di verità o presunte verità, che non solo sono nell’immagine, ma, per dirla in soldoni, nella vita tutta.
Benigni dice per interpretare Dante: c’ha insegnato che per far poesia (o prosa) una sola cosa è necessario: Tutto…
Ed è proprio così: parlare d’immagini non è risolutivo, a meno che tu non voglia essere un regista.
30 novembre 2011 alle 17:10
Edit: volevo dire “finché si mette la telecamera sulla spalla è facile” non “non è facile”.
Pardon
30 novembre 2011 alle 17:09
@Gwenelan: esattamente. Io sto scrivendo secondo Show don’t Tell da un po’, e da un po’ di tempo sono passato allo studio del pov, perché finché si mantiene la telecamera sulla spalla non è facile, quando la metti nella testa del personaggio lo è di più.
Un po’ di tempo fa stavo studiando (anche adesso a dire il vero) un Pov con penetrazione nella mente del personaggio più profonda, cosa che mi avrebbe portato a scrivere termini astratti. In dubbio sulla validità o no della cosa, ho mandato una mail a Gamberetta. Vi riporto qui una parte.
Questo è quello che le ho chiesto, con annesso una parte del racconto.
Come avrete capito, ho introdotto diversi termini astratti a causa del Pov profondo.
Questa è la risposta.
Capite? Il punto non è “è un termine astratto, non va mai bene” il punto è quando i termini astratti soffocano i termini concreti. Tutte le tecniche narrative sono volte a far immedesimare il lettore, simili termini, pur essendo astratti, aiutano parecchio ad entrare nella testa del Personaggio Punto di Vista, dunque sarebbe stupido considerarli errori.
E poi si è già detto un migliaio di volte, le regole non sono gabbie o costrizioni, sono Strumenti. Sono armi nelle mani di uno scrittore esperto, armi che può utilizzare per lavorare al meglio.
Semplice, no? :D
30 novembre 2011 alle 16:52
@Captan Razzo: Riguardo al “vecchio” e all’”alto”; prima di tutto, anche Gamberetta nell’articolo precisa che può dipendere dal punto di vista adottato. Se il POV della scena è, per esempio, una ragazza molto superficiale, o una bambina per cui tutti quelli dai 50 agli 80 anni sono “vecchi”, vedendo nonno Michele per la prima volta potrebbe pensare qualcosa tipo: “Era vecchio!”. E andrebbe bene lo stesso. Tolti questi casi particolari, il motivo per cui dire solo “vecchio” non va bene è che il personaggio punto di vista non vede un “appartenente alla categoria della terza età” generico, ma vede *quel* vecchio. E il fatto che sia vecchio lo nota da *quei* precisi particolari. Poi lui deduce che è vecchio, come fanno tutte le persone nel mondo, ma al lettore bisogna dare *quei* particolari così che lui (il lettore) giunga alla stessa conclusione – o magari no. Magari al personaggio POV Michele sembra vecchio e cadente ma a me sembra tutto sommato giovanile. Quindi sì, se mi dici “vecchio” io subito mi immagino un vecchio, certamente, però tu mi devi mostrare esattamente quel vecchio che intendi tu, che vede il tuo personaggio, non uno che mi devo inventare io :).
30 novembre 2011 alle 16:33
-Ed è qui che questa formuletta vacilla molto.
Gamberetta ha detto che gli scrittori devono essere esortati a evitare l’astratto per preferire il concreto.-
In merito a questo, io direi che la bocciatura della regola sia nei tempi di lettura: operazioni alla Paolini, che per un colpo vibrato di pagine ne spendono a fiumi, sono pedanterie gratuite che non hanno nulla a vedere con la narrativa.
Specie se lo scontro è veloce, una serie di ‘parò/stoccò/affondò/scivolò’, è molto più efficace che un lento mostrare, che farebbe molto ’300, insomma…
I mille dettagli vanno dati prima (di luogo, d’esercito, ecc.).
Quello che dico, ricorda molto quello che tu dissi, C. R.: le informazioni si sommano… e in effetti, il gioco della N. ha molto a che vedere col gioco della memoria. Bisogna fornire al lettore tutti gli strumenti, tutte le informazioni utili, per far sì che pervengano infine le immagini che prediligiamo.
Ma chi può dire quali non siano le strategie per un efficace mostrare…?
Pensiamo a ISdA, quando Gimli prende il cappello e si copre il volto alla notiza della morte del cugino: una sola frase e poi buio (fine capitolo) per indicare molto, molto di più di quanto non dica la frase stessa…
Cioè: ci sono strade alternative, assai più efficaci e gradite, del verboso dire, sennò lo scrittore è una specie di fisico della parola, un petulante azzeccagarbugli che non la pianta mai di sbrodolarsi addosso verbosità inutili e fastidiose. Dante ne uscirebbe sfigurato e come il meno descrittivo di tutti, quando invece rima e parole giuste hanno fatto sì che il suo cerbero sia il vero cerbero, il suo minosse il vero minosse…
30 novembre 2011 alle 16:10
G., prima di dire che ‘vecchio’ e ‘alto’ è sbagliato, dovrebbe dire Chi, afferma ciò: quale libro. Si deve partire da un contesto.
Ora, essendo in un sito F., posso supporre che lei voglia far intendere: nei libri F. bisogna esprimersi in questo modo, dove per questo modo lei lascia largamente trasparire, come dici tu, C. R., una mente quantomeno scentista e verista, disciplinata dal razionale -non una colpa: ma comunque molto più adatta allo steampunk che lei dichiara d’amare che ad altro.
Il F. puro, o purista, tuttavia (e io sono di questa scuola), discende dalla fiaba, ‘ché Draghi, Orchi et simila provengono tutti da lì. Né possiamo supporre che il F. ne potrà mai essere privo, o tratti fiaba e mito secondo altri canoni estetici ad essi relativi…
E’ Tolkien che li ha inseriti pienamente in un contesto Romantico, dunque verista e realista; ma, ammesso che non sia il livello canonico (il più in voga assolutamente, ma non l’unico possibile), ogni autore è libero d’esprimersi col vocabolario che vuole. Nello specifico, il termine generico si rifà ad un principio estetico asciutto e stringato, e comprensibile a tutti, ch’è proprio della fiaba, del mito e delle religioni; dunque, se proprio volessimo dirla tutta, è assai più gradita tale schiettezza che ogni altro genere di pedanteria e astrusità.
Non m’inoltro nello studio biblico, dove il termine semplice diviene ipertesto in grado di dare ad ognuno il suo… ma di certo, fiaba, mitologia ed epica non ragionano diversamente, e prevedono che l’ascolto della storia, non solo sia da parte delle persone più semplici, ma, come dire, che si divenga semplici nell’ascolto, aldilà che lo si sia o meno.
In fondo, il bello di alcune letture, come Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli o La Storia Infinita, è proprio il ritornare un po’ bambini, liberarsi di fronzoli e orpelli che condizionano il nostro dire, abituarsi ad un linguaggio da focolare e da cuore puro e innocente… E’ partendo da questo assunto iniziale, imprescindibile, che la storia funziona, altrimenti non funziona.
Da questo punto di vista, come dissi presentandomi al sito, è sin troppo chiaro che Gamberi Fantasy non debba essere il suo vero nome: persone come me, tanto per rimanere in linea, rimarranno sempre dei pesci fuor d’acqua, o, nel peggiore dei casi, dei fermi contestatori, convinti o che si vogliano direzionare i gusti del F. verso altre sponde ripsetto a quelle più certificate dalla storia, o che vi sia un grossolano errore di fondo nel definire F. ciò che forse da esso si muove, ma per andare in tutt’altra direzione…
30 novembre 2011 alle 14:46
E’ vero, mostrando più particolari si riesce a essere più esplicativi. Ma allora bisognerebbe tradurre “show don’t tell” con: “Per mostrare molto, non devi mostrare poco”. Il che gli darebbe un aspetto ridicolo. Dunque non si può parlare solo del numero dei particolari “mostrati”. Invece, per esaminare lo “show don’t tell” bisogna tenere presente il significato. Ed è qui che questa formuletta vacilla molto.
Gamberetta ha detto che gli scrittori devono essere esortati a evitare l’astratto per preferire il concreto. E ha subito portato l’esempio “Michele è vecchio” per chiarire che secondo lei: “vecchio è astratto”. Io ho affermato che “vecchio” è un’etichetta emozionale, perfettamente lecita.
Gamberetta evidentemente trascura che ci sono due modi per esaminare la frase “Michele è vecchio”. La prima è il pensiero del positivismo logico, che nega la possibilità di fare un’affermazione del genere, soprattutto perchè “vecchio” è un termine relativo; quindi si è vecchi rispetto a certe persone e nello stesso tempo giovani rispetto ad altre. E il positivismo definisce dunque insensata questa frase, basandosi sulla sua ferrea logica.
Però c’è il secondo modo di esaminare quella frase, ed è l’accezione sociale dei termini, che (parliamo della società occidentale) è una convenzione innegabile e non va a toccare il positivismo logico nè per confermarlo nè per smentirlo, come due binari altrettanto ferrei che corrono paralleli. Secondo l’accezione sociale dei termini l’etichetta “vecchio” pone una persona nella categoria sociale della terza età, i cui confini (cioè l’età precisa dell’individuo) non richiedono la precisazione, e garantiscono come assolutamente lecita la possibilità di non precisare nè la sua età, nè rispetto a chi è vecchio.
Ora, perciò, se a pronunciare quella frase fosse un filosofo positivista che parla con un altro filosofo, è innegabile che Gamberetta sarebbe nel vero. Ma siccome bisogna presumere che non si tratti di un colloquio fra filosofi, è necessario accettare l’uso sociale del termine “vecchio”.
Lo stesso discorso si può applicare all’esempio successivo di Gamberetta “Michele era un ragazzo molto alto” dove lei definisce “alto” come generico, e a molte altre situazioni narrative che possono cadere sotto la stessa logica ingessata, visto che l’accezione sociale dei termini può benissimo essere scambiata per un modo di riassumere o restare nell’astratto.
30 novembre 2011 alle 10:59
Secondo me si fa confusione con la grafica vettoriale: in un videogioco mostrare significa esporre quante più cose possibili, e quel mostrare equivale a sensazioni ed emozioni garantite, ma ciò non vale con l’arte della narrazione…
Uno scrittore come Borges (scrittore di soli racconti), fa del dire un attento mostrare: il suo passare con finta superficialità sulle cose, ne costituisce invece un attento dettaglio e un’attenta analisi.
Quei racconti possono essere frutto di moltissimi studi e applicazioni (Aleph e Finzioni).
Al contrario, uno scrittore che molto dice, può ironicamente farti perdere tempo per strizzarti un occhio e dirti: hai capito, no?, che posso andare avanti per ore e che il senso è quello…?
[pensiamo alla festa di compleanno di Bilbo: un continuo mostrare per dire non quanto interessante sia la festa, ma quanto noiosa sia la vita Hobbit se non ci fossero questi intermezzi, e come scalpitano per ogni quisquilla...].
Sono d’accordo col Razzo: come già dissi, per far si che G. esprima al meglio le sue teorie, dovrebbe, dato un libro, dato per certo che ognuno l’ha letto, dire: ‘qui secondo me l’autore poteva dilungarsi, qui meno, qui per niente’. Cioè: è l’economia del racconto, che stabilisce il ‘necessario’, e non l’arbitrarietà dello scrittore e delle sue fantasie. La finalità è il racconto della storia…
Ma state certi che non solo G., ma ogni buon lettore, può tranquillamente rendersi conto d’un mancato o eccessivo mostrare: un lettore bravo, a fine lettura, tramite il gusto che prova per la medesima, passa mentalmente al setaccio ogni virgola, soppesa ogni paragrafo, e vaglia la quantità e la qualità del detto. Di solito, però, quando si fa così, il gioco non ha funzionato: ogni buon libro dovrebbe ‘sparire’ dentro l’ultima parola, che riassume e ingloba ogni altra, e se a quella si dice, ‘che bello’, ogni virgola è al posto giusto.
Sono altresì convinto, come dice Razzo, che il mostrare (lo spendersi adeguatamente su qualcosa) non lo si possa teorizzare: ripeto che la narrtiva non risponde troppo alla logica della matematica, o se matematica è, ha calcoli infiniti e possibilità infinite, poiché cuore e mente tutto possono comprendere se predisposti alla comprensione. Sarebbe stupido dire: l’uomo ama questo, non quello, è predisposto a questo, non a quello. Siamo predisposti a tutto e amiamo tutto, purché degno d’amore o della nostra attenzione.
29 novembre 2011 alle 21:31
Mi sembra che rendi la cosa più complicata di quanto non sia, messa così. Una scena mostrata *è diversa* da una scena raccontata, che i particolari concreti siano rispettivamente 100 o 80 e 20 o 0. Poi, se vuoi puoi considerare tutte le scene come “intermedie”, ma… all’atto pratico cosa cambia? Il punto rimane che mostrare è più effiace che raccontare, quindi ci si sforza di salire più possibile lungo la scala del mostrato (per arrivare all’80/100).
29 novembre 2011 alle 18:59
Brava Gwenelan,
la tua osservazione sulla quantità di particolari “mostrati” apre uno spiraglio che mi sembra utile per andare a un chiarimento dello “show don’t tell”. Se il criterio di distinzione fra il “tell” e lo “show” è la quantità di particolari messi per iscritto bisogna subito osservare che una scena messa in forma scritta con un solo particolare è puro “tell” mentre la stessa scena ma costruita da un altro scrittore con cento particolari può essere definita, diciamo, puro “show”.
O possiamo anche dire: fra una scena particolareggiata e la stessa scena esposta in forma riassuntiva, lo scrittore potrebbe scegliere tutte le possibili gradazioni intermedie.
La cosa interessante a questo punto sono i novantotto scrittori che userebbero ciascuno un diverso numero dei particolari che stanno fra l’uno e il cento. E la domanda è: in quale posizione intermedia si può decidere che costruzioni scritte di genere “show” a forza di perdere particolari finiscono per diventare costruzioni riassuntive di genere “tell”? Possiamo dire che questo succede quando un particolare scrittore usa cinquanta particolari?
O forse è proprio qui che si comincia a vedere come una forma di scrittura molto ricca di particolari e una molto povera (e quindi riassuntiva) non sono in realtà due cose diverse, due scelte diverse come sembra presentarle “show don’t tell”, bensì tutte scelte intermedie. Tutti scalini più vicini alla base, o più vicini alla cima, di una stessa scala.
29 novembre 2011 alle 14:04
Per la verità il giro nel giardino è show, non tell. A meno che il paragrafo descrittivo non sia tipo: “L’investigatore fece un giro del giardino: c’erano molte piante diverse”. Allora questo è tell. Lo show è quando si usano dettagli concreti, cioè quando mostri le piante invece di dire solo “c’erano piante”, e quando mostri l’investigatore che osserva le piante, ne tocca una, ecc, invece di dire: “l’investigatore esamina il giardino”. Allo stesso modo, se *mostri* l’intuizione, o il ragionamento, dell’investigatore che lo portano a capire che quello è il giardino di Hyde, allora è show. Se ti limiti a dire: “Guardando quelle strane piante capì di essere nel giardino di Hyde”, questo è tell, intuizione o non intuizione. Per questo dico che non hai letto con attenzione il post (senza atio e senza offesa); la differenza fra show e tell è che lo show è particolareggiato, usa immagini concrete e dettagli precisi, il tell è generico e riassunto. Poi, ci possono essere vie di mezzo, si può discutere su quanto strettamente vada applicato, ma la differenza è molto semplice. Il problema che si ha con lo show don’t tell è che è difficile applicarlo, non che la sua idea confonde. Qualcuno lo confonde di certo, te, per esempio, e non c’è nulla di male: quando io ho studiato Pitagora ero ben confusa dal teorema ^__^. Semplicemente l’ho imparato così com’è, ma lì essendoci la formula non è che dovevo esattamente “capirlo”. In matematica sono purtroppo negata.
29 novembre 2011 alle 13:26
Gwenelan,
tu pensi che io stia dicendo che il consiglio “show don’t tell” è sbagliato. Non è così semplice. Ciò che io sto cercando di dimostrare è che è un consiglio “formulato” in un modo sbagliato. E nella sua formulazione imperfetta lo “show dont tell” genera confusione in quelli che cercano di applicarlo alla pratica. Anche Gamberetta ammette che confonde certi scrittori e induce altri a dire che ci sono delle eccezioni. Inoltre lei stessa si affanna a dare esempi di cosa sia lo “show don’t tell”, e questo fatto di avere bisogno di esempi è la conferma che la formula è incomprensibile per molti, e dunque espressa male. Pensiamo al teorema di Pitagora. Pitagora lo esprime con chiarezza, e subito esso diventa operativo per chi lo vuole usare. Pitagora non si affanna a dare esempi disegnando triangoli e quadrati. La sua immediata comprensione e la sua universale applicabilità alla pratica dimostrano che una vera teoria funzionante contiene in sè la logica che le consente di essere formulata con poche inequivocabili parole. Niente di tutto questo accade con lo “show don’t tell”.
Io non posso offrire un modo di correggere la formula “show don’t tell”, perchè stento molto a capire cosa voglia dire, e nessun esempio è riuscito a togliermi i dubbi.
Cercherò semplicemente di dimostrare che è una teoria caotica, con questo esempio. Potrei chiamarlo “Il giardino del dottor Jekyll”.
Poniamo che lo scrittore X voglia scrivere una cosa di questo genere: Un investigatore che cerca d’indagare sul dottor Jekill capita nella sua casa di campagna e scopre che dietro di essa c’è un grande giardino. Qui lo scrittore X comincia a raccontare in che modo l’investigatore vi si aggira, fermandosi a osservare nei dettagli la composizione floreale di ogni angolo, ogni aiuola, e l’aspetto delle piante che vi si trovano, la loro forma, il colore, e le sensazioni che destano all’occhio e alla mente, prima di proseguire il cammino e passare all’angoletto successivo.
Sicuramente questo giro descrittivo del giardino è un “tell”… ma lo è davvero?
Poniamo il caso che a metà di questo giro la presenza di strane piante porti l’investigatore ad accorgersi che non si sta aggirando in un semplice giardino, bensì dentro la mente dell’uomo che lo ha costruito, cioè nella mente del dottor Jekyll, e che ogni sua scelta vegetale dipinge un singolare risvolto della sua personalità, fino a rivelare quelle pericolose tentazioni represse che invece Mr. Hyde lascia esplodere orribilmente.
Se l’intuizione dell’investigatore è giusta, i paragrafi che fino a quel momento erano stati un semplice “tell” diventano all’improvviso un pregnante “show”, che ci “mostra” cosa sta nascosto in fondo alla mente di Jekyll e può emergere con furia nel pericoloso Hyde.
Allora io dico: se il “tell” si rivela per essere uno “show” solo quando l’intuizione dell’investigatore accende la luce sul significato, non è forse ovvio che lo “show” e il “tell” qui hanno avuto la stessa forma narrativa? Cioè, è occorso un intervento esterno (l’intuizione improvvisa) per fare al lettore la sorpresa di capire che le pagine lette fino a quel momento stavano solo in apparenza “raccontando”, mentre in realtà “mostravano”.
Ripeto, secondo me le contraddizioni sono troppe per mettere lo “show don’t tell” nei manuali. I manuali non possono essere raccolte di suggerimenti, ma devono informare sulle teorie che consentono al linguaggio scritto di comunicare a livello universale.
28 novembre 2011 alle 15:53
@Captan Razzo:
Tu dici
Ed è esattamente quello che intendevo :). Credo che sarebbe meglio fare un esempio concreto, ma non me ne vengono in mente al momento, quindi provo a spiegarmi così… anche a me capita di vedere film nei quali senza spiegazioni – cioè un personaggio che si mette e spiega – non si capisce bene cosa accade, ma 9 su 10 quella è una scena fiacca che avrebbero potuto sostituire con qualcosa di più elegante. L’estremo sono alcune telenovelas orride in cui vedi una scena chiarissima *e* pure spiegata (esempio classico: una madre torna a casa, non trova più sua figlia nella culla, si accascia, piange; da un lato un’amica dice: “Oh, no, sua figlia è scomparsa!” Ma và?). Insomma, se non si capisce, non è fatta bene. A meno che non sia volutamente una scena ambigua, che si chiarirà dopo. Usare lo show don’t tell non significa non far capire quel che accade, ma semplicemente farlo capire in modo più elegante e senza brutte intromissioni. La musica, e spesso anche semplicemente le inquadrature, nei film non equivale al “tell” dei romanzi, è comunque uno show :).