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Manuali 3 – Mostrare

Questo è il terzo articolo nella serie dei Manuali. Trovate il primo articolo qui e il secondo qui. Gli articoli possono essere letti in qualunque ordine. Se avete pregiudizi riguardo i manuali di scrittura, date un’occhiata alle risposte ai miti, qui.
Ricordo infine che mi rivolgo a chi voglia imparare a scrivere narrativa di genere, in particolare narrativa di genere fantastico. I concetti esposti potrebbero come non potrebbero applicarsi alla narrativa in generale.

* * *

“Mostrare, non raccontare” o in inglese “Show, don’t tell” è il nome di una fondamentale tecnica narrativa. È un’esortazione agli scrittori perché evitino l’astratto e favoriscano sempre il concreto.
La narrazione deve essere un susseguirsi di dettagli concreti; dettagli che stimolino i sensi del lettore, che richiamino immagini, suoni, odori, sapori.

Esempio:

Michele è vecchio.

Il termine “vecchio” è astratto, dunque qui ci troviamo di fronte al raccontare.

Michele ha la barba bianca, il viso coperto di rughe. Cammina gobbo reggendosi al bastone.

Qui abbiamo una sequenza di particolari concreti, dunque ci troviamo di fronte al mostrare.

Perché il mostrare è preferibile al raccontare?

Icona di un gamberetto Perché è dimostrato che il cervello del lettore, se stimolato da dettagli concreti, vive le situazioni descritte. Il mostrato cala il lettore nella storia; il raccontato non garantisce la stessa risposta emotiva, non trascina il lettore.
Per questa ragione il raccontato può diventare noioso in fretta: il lettore non ha problemi a gustarsi 200 pagine di mostrato, mentre poche pagine di raccontato possono subito stufare.

Icona di un gamberetto Perché ogni volta che si scivola nel raccontare l’autore esprime un giudizio. La barba bianca o le rughe sono un fatto oggettivo, la vecchiaia è una valutazione soggettiva. Può essere una valutazione giusta e condivisa, ma questo non cambia il problema: il problema è che l’autore ha fatto capolino per parlarci direttamente, incrinando l’immersione.

Per usare la metafora di John Gardner del “fictional dream”: la buona narrativa trasporta il lettore in una condizione mentale simile a quella del sogno. Quando l’autore interviene nella storia, ha lo stesso effetto di qualcuno che ti parla all’orecchio mentre dormi: se ti va bene non te ne accorgi, se ti va male ti svegli. Se il lettore si sveglia, chiude il libro. EPIC FAIL.
Oppure immaginate di essere al cinema. Scorre la pellicola, la scena vede Michele che si trascina per i vialetti del cimitero. Porta i fiori alla moglie morta. Spunta il regista con un cartello: “Michele è vecchio.” Sarebbe ridicolo, rovinerebbe l’atmosfera.
Non rendetevi ridicoli. Non svegliate chi sogna.

Cthulhu addormentato
Nella sua dimora a R’lyeh, Cthulhu aspetta sognando. Non svegliatelo!

Icona di un gamberetto Perché il mostrare permette di scegliere i particolari che sono sul serio importanti per la storia.

Cosa mi spinge a sottolineare che Michele è vecchio? Qual è la rilevanza della vecchiaia per la storia?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso ci vede male, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele che porta occhiali spessi?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso è goffo e fragile, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele mentre inciampa nel suo bastone da passeggio e si rompe una gamba?
• Forse la vecchiaia è importante perché chi è vecchio spesso è malato, e questo dettaglio è vitale; ma allora non è forse meglio mostrare Michele a letto in ospedale?
E così via.
Il raccontato è impreciso. Se si vuole portare avanti la trama, occorre precisione, occorre mostrare.

Icona di un gamberetto Perché il raccontato non rimane in mente. Se non si affiancano alla vecchiaia particolari concreti, dopo poche pagine il lettore si sarà già scordato che Michele è vecchio. Invece il mostrato lascia un’impressione duratura; anche chiuso il libro e passati anni, ricorderemo i dettagli più vividi.

* * *

A prima vista può sembrare che lo “Show, don’t tell” sia una tecnica come le altre. Non è così. Le implicazioni del mostrare invece di raccontare sono basilari per la narrativa.

Una celebre citazione da The Craft of Fiction di Percy Lubbock recita:

bandiera EN The art of fiction does not begin until the novelist thinks of his story as a matter to be shown, to be so exhibited that it will tell itself. [...] The thing has to look true, and that is all. It is not made to look true by simple statement.

bandiera IT L’arte della narrativa non comincia finché il romanziere non pensa alla storia come una materia da mostrare, da esibire in modo che si racconti da sola. [...] La faccenda deve sembrare vera, e questo è tutto. Non è resa vera semplicemente raccontando che è vera.

Non c’è arte finché la storia non è in grado di raccontarsi da sola: i particolari concreti (barba bianca, rughe, gobba, bastone) dicono al lettore che Michele è vecchio. Non è intervenuto l’autore a spiegarlo.
La narrativa ha bisogno di verosimiglianza (la faccenda che deve sembrare vera) e questo bisogno non può essere soddisfatto dal raccontato. Non basta raccontare che una cosa è vera per renderla vera. Non basta raccontare che Michele è vecchio; dirlo vecchio non lo rende per magia vecchio. La sua vecchiaia dipenderà dai particolari concreti, non da quante volte ripeto che è “vecchio”.

La posizione di Lubbock è radicale ed è stata aspramente criticata. Tuttavia non è una posizione assurda. Una definizione di “narrativa” potrebbe essere: l’arte del mostrare attraverso le parole. Sarebbe una buona definizione e Lubbock avrebbe ragione.

Senza entrare nel filosofico, il succo è semplice: scegliere consapevolmente quando mostrare e quando raccontare è fondamentale. Dal punto di vista dello stile, ovvero del come si racconta una storia, niente è più importante. Non parliamo di una “regoletta”, parliamo di uno dei cardini della narrativa. E, se si vuole seguire Lubbock, parliamo della narrativa stessa.

Introduzione storica

Mi è capitato di imbattermi in “scrittori” (sebbene questi tizi non scrivano un bel niente, imbrattano solo di moccio la carta) con idee bizzarre riguardo lo “Show don’t tell”. Una delle più bislacche è quella che lo “Show don’t tell” sia una “trovata” moderna, colpa di Hollywood; “una sensibilità mediata dal cinema” – nelle parole di uno degli imbrattatori.

Sugimori Nobumori, più noto con il nome di Chikamatsu Monzaemon, è stato un famoso drammaturgo giapponese, “lo Shakespeare nipponico”.[1] Il saggio del 1738 Naniwa miyage riporta alcune considerazioni di Monzaemon[2] riguardo la narrativa e il teatro. Per esempio si legge (vi risparmio il giapponese, qui di seguito la traduzione inglese di Donald Keene):

bandiera EN There are some who, thinking pathos is essential to joruri, make frequent use of expression as ‘it was touching’ in their writing, or who when chanting do so in voices thick with tears, in the manner of Bunya-bushi.
This is foreign to my style. I take pathos to be entirely a matter of restraint.
Since it is moving when all parts are controlled by restraint, the stronger and firmer the melody and words are, the sadder will be the impression created. For this reason, when one says of something which is sad that it is sad, one loses the implications, and in the end, even the impression of sadness is slight. It is essential that one not say a thing that ‘it is sad’, but that it be sad of itself. For example, when one praises a place renowned for its scenery such as Matsushima, by saying, ‘Ah, what a fine view!’ one has said in one phrase all that one can about the sight, but without effect. If one wishes to praise the view, and one says numerous things indirectly about its appearance, the quality of the view may be known by itself, without one’s having to say, ‘It is a fine view.’ This is true of everything of its kind.

bandiera IT Alcuni, credendo che il patos sia essenziale per lo joruri, usano frequentemente nei loro scritti espressioni come “toccante”, oppure quando cantano lo fanno con voce rotta dalle lacrime alla maniera di Bunya.
Questi metodi sono estranei al mio stile. Io considero il patos una questione di disciplina. Si crea patos commovente quando tutte le parti sono controllate da una disciplina; più nette e precise sono parole e melodia, più si creerà un’impressione di malinconia. Per questa ragione, quando qualcuno dice che qualcosa triste è triste, si perdono le implicazioni e alla fine anche l’impressione di tristezza è minima. È essenziale che non si dica che qualcosa “è triste”, ma che la cosa sia triste in sé. Per esempio, quando si elogia un luogo rinomato per il suo paesaggio come Matsushima, dicendo: “Ah, che bella vista!” si è detto in una frase tutto quello che si potrebbe dire sul paesaggio, ma senza creare emozione. Se si vuole lodare il paesaggio e si dicono diverse cose indirettamente riguardo il suo aspetto, la bellezza del paesaggio emergerà da sola, senza che si debba dire: “Che bella vista.” Questo è vero per ogni situazione simile.

C’è poco da aggiungere: è una spiegazione di come funziona lo “Show don’t tell” da manuale. Non bisogna raccontare che qualcosa è triste o che il paesaggio è bello; bisogna mostrare caratteristiche della cosa o del paesaggio in modo che l’impressione di tristezza o bellezza emerga da sola, senza bisogno che l’autore venga a spiegarlo. E bisogna farlo perché così l’impressione sul pubblico è più intensa. È più emozionante quando tristezza o bellezza le abbiamo davanti al naso, che non quando ci viene raccontato che qualcosa è triste o bello.

Dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1738 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.

Il magnifico panorama di Matsushima
Il magnifico panorama di Matsushima

In Occidente si trovano le prime tracce del concetto alla base dello “Show don’t tell” nell’opera The Philosophy of Rhetoric dell’abate George Campbell, opera che l’autore ha iniziato a scrivere nel 1750.
Nel Libro III, Capitolo I, Sezione I Campbell scrive:

bandiera EN I begin with proper terms, and observe that the quality of chief importance in these for producing the end proposed, is their specialty. Nothing can contribute more to enliven the expression, than that all the words employed be as particular and determinate in their signification, as will suit with the nature and the scope of the discourse. The more general the terms are, the picture is the fainter; the more special they are, it is brighter. The same sentiments may be expressed with equal justness, and even perspicuity, in the former way, as in the latter; but as the colouring will in that case be more languid, it cannot give equal pleasure to the fancy, and by consequence will not contribute so much either to fix the attention, or to impress the memory.

bandiera IT Comincio con i termini appropriati, e osservo che la qualità di maggior importanza per raggiungere lo scopo voluto è la loro specificità. Niente può contribuire maggiormente a rendere vivida la narrazione quanto l’uso costante di parole precise e specifiche nel loro significato, come meglio si adatta alla natura e allo scopo del discorso. Più i termini sono generici, più l’immagine è sbiadita; più i termini sono specifici, più l’immagine è vivida. Le stesse emozioni possono essere espresse con uguale onestà, e persino chiarezza, in una maniera o nell’altra; ma usando la prima maniera, le tinte saranno più fiacche, non sarà procurato lo stesso piacere, e di conseguenza sarà più difficile far mantenere l’attenzione o lasciare un’impressione duratura.

Campbell non è esplicito come il giapponese, ma anche qui stiamo parlando di “Show don’t tell”: non usare termini generici (che sono raccontare), ma usare termini specifici (che sono mostrare).
Confrontate:

Qualche tempo fa, Anna ha avuto un incidente e si è fatta male.

con:

Ieri Anna è scivolata. Le ruote del tram le hanno tranciato le dita delle mani.

Più passo dal generale allo specifico, più passo dal raccontare al mostrare, e più la narrazione è vivida. Suscita più interesse, mantiene sveglia l’attenzione, si imprime nella memoria. Se racconto che Anna ha avuto un incidente, questa informazione sarà dimenticata nel giro di poche pagine, se ne ho bisogno venti capitoli dopo dovrò ripeterla; se invece mostro l’incidente, rimarrà impresso magari per anni dopo che il lettore ha finito il libro.

Dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1750 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.

Qualcuno potrebbe pensare che queste siano eccezioni, che dopo Monzaemon e Campbell lo “Show don’t tell” sia sparito dalla coscienza collettiva per riaffiorare con il cinema. Non è così. Se ne è sempre discusso negli ultimi tre secoli.

Per esempio Herbert Spencer, il celebre filosofo, spiega il principio alla base dello “Show don’t tell” nel suo saggio del 1852 The Philosophy of Style – lo citerò in dettaglio più avanti nell’articolo.

E dato che il tipico autore fantasy nostrano è un ignorante patentato, specifico: nel 1852 il cinema non era ancora stato inventato e Hollywood non era ancora stata fondata.

* * *

Perciò, quando sentite qualche presunto autore starnazzare in questa maniera:

Io me ne frego delle regole della narrativa! Me ne frego dello “Show don’t tell”! Io non mi piego alle mode moderne pilotate dal marketing!

Ecco, sapete di avere di fronte un gonzo ignorante come una capra.

Hollywood anni '10
Il primo studio cinematografico ha aperto a Hollywood nel 1911

Non dico che per scrivere bene occorra aver studiato Campbell, Spencer o la drammaturgia giapponese del ’700, dico che per scrivere bene occorre evitare i pregiudizi idioti.
Potete scrivere quello che vi pare, come vi pare, ma prima di cadere in “ragionamenti” simili a quello dell’autore di cui sopra, informatevi. Non avete niente da perdere e tutto da guadagnare.

Il mostrare e la verosimiglianza

Arrivo all’Università, entro nell’aula, mi siedo e sussurro alla tizia accanto a me: «Ieri sera sono andata a cena con un vampiro.»
La risposta sarà: «Devi cominciare a dire scemenze la mattina presto?»

Questo perché ho raccontato un evento impossibile (almeno per le attuali conoscenze scientifiche).
Se mostro i segni dei canini sul collo e un filmato nel quale si vede un tipo che si trasforma in pipistrello nel mio salotto, difficilmente le mie affermazioni saranno ancora scemenze. In altre parole il mostrato fornisce verosimiglianza al mio raccontato.
E quando parliamo di narrativa fantastica la verosimiglianza è vitale. La verosimiglianza separa le storie degne di essere ascoltate dalle stronzate. Nessuno vuole perdere tempo con le stronzate.

In altri generi, a meno di errori clamorosi, una storia raccontata male rimane solo una storia raccontata male. Una storia di narrativa fantastica raccontata male è una stronzata. Suscita disgusto e disprezzo.
Racconto alla mia compagna di Università di essere rimasta a casa a guardare la TV. Ho visto un film con Chris Pine. Peccato che a quell’ora, su quel canale, ci fosse la partita. La mia amica penserà che mi sia sbagliata, capita.
Racconto di essere stata rapita dagli alieni, senza fornire alcuna prova. La mia amica penserà che io sia impazzita o che la voglio prendere in giro.

In una mail lettera del 1953, Raymond Chandler chiede al suo interlocutore se ha mai letto “Science Fiction” e conclude domandando se è vero che gli editori pagano per spazzatura del genere. Questo atteggiamento è per molti versi giustificato.
La narrativa fantastica ha fama di essere letteratura di serie B. È una fama meritata. Da un lato abbiamo un genere difficilissimo da scrivere, dall’altro una marea di autori convinti che sia il contrario e che si possa procedere a starnuti. Il risultato è una montagna di spazzatura (non solo in Italia) che travolge le opere buone.
Se scrivete fantastico fatelo seriamente. La noosfera non ha bisogno di essere inquinata da nuovi rifiuti.

* * *

Rendere verosimili elfi e vampiri può sembrare un’impresa disperata. E non c’è dubbio che una fetta di pubblico non accetterà mai questo tipo di narrazioni, non importa quanto l’autore sia bravo.[3] Però c’è anche chi ha fatto del rendere verosimili elfi e vampiri una professione, e non parlo degli scrittori. Parlo di sensitivi, ufologi, cartomanti, fantarcheologi & ciarlatani assortiti. I tizi che ti vendono la Croce Magica di San Germano, mistica reliquia infusa di potere spirituale; cura il mal di schiena e ti permette di parlare con il gatto morto.

Per cavarti i 200 euro della Croce Magica, questi signori usano una serie di tecniche, tra le quali lo “Show don’t tell”.
Se io dico:

Qualcuno qualche volta ha provato la Croce Magica ed è stato meglio di prima.

Non convinco nessuno. Non convinco nessuno perché racconto. Perché i termini sono vaghi e generici.
Se dico:

Mi chiamo Roberta Cardato, ho ventiquattro anni, abito a Tresnate provincia di Varese. Tutto è cominciato il 24 dicembre, la vigilia. Ero in piedi sulla sedia per mettere la stella in cima all’albero di Natale, quando la mia gatta Birba mi è saltata tra le gambe. Ho perso l’equilibrio e sono caduta di schiena. Una botta terribile. Sono rimasta inchiodata a letto tutte le vacanze e il dolore non è passato. Medici, chiroterapisti, antibiotici, antinfiammatori: niente, non funzionava niente. Finché a San Valentino, il mio fidanzato, Mattia, non mi ha regalato la Croce Magica di San Germano. Appena l’ho presa tra le mani ho sentito un calore benefico. È bastato un giorno con la Croce al collo e già stavo meglio. Una settimana dopo ero guarita, in tempo per andare a sciare con Mattia! E adesso non ho più neanche paura di cosa succederà alla morte della Birba, perché grazie alla Croce Magica di San Germano, potremo sempre rimanere in contatto.

L’impatto è ben diverso. Non c’è più “qualcuno”, “qualche volta”, c’è una storia concreta, specifica, precisa. L’effetto taumaturgico della Croce è mostrato in un contesto. E la storia di Roberta potrebbe essere la tua. Anche tu puoi guarire! Se hai 200 euro (pagamento in contrassegno, bonifico o via PayPal).

I venditori della Croce elencano decine di casi come quello di Roberta; riportano la testimonianza del dottor De Carolis, che ha svolto sulla Croce seri esperimenti scientifici; riproducono sul loro sito web la foto di Elvis che stringe la Croce tra le dita.
Creano una narrazione basata su una marea di dettagli concreti, finché il gonzo di turno pensa: “Non è possibile che si siano inventati tutto! Non è possibile che siano tutte coincidenze, non è possibile che così tanti fatti siano falsi! Ecco i 200 euro!”
E invece i fatti sono tutti falsi e la Croce è una patacca di plastica che prodotta in serie costa 50 centesimi.
Ma non importa. Non importa la “verità” come valore assoluto, importa che il lettore, quando legge un romanzo, si trovi nella stessa condizione mentale del gonzo che sgancia i 200 euro. Per quanto razionalmente sappia che i vampiri e gli elfi non esistono, la narrazione è così precisa e concreta che non le si può negare un fondo di verità. E se una storia di elfi o di vampiri è vera, è degna di essere ascoltata. Dunque il lettore si sorbisce felice le 400 pagine del romanzo e quando uscirà il secondo volume correrà a comprarlo.

San Germano di Parigi
San Germano di Parigi

Ok, questo in teoria. In pratica il successo commerciale deriva da molti altri fattori; la qualità è un fattore secondario. Tante volte il successo arride a chi bara: Twilight è inverosimile, ma può permetterselo perché non è fantasy. Edward Cullen è giovane, bello (letteralmente splende!), ricco, ecc.; la Meyer racconta che è un vampiro, ma in verità mostra il cliché del Principe Azzurro. Il cuore del racconto non ha niente a che vedere con il fantastico.

* * *

Per ricapitolare: gli scrittori di narrativa fantastica chiedono ai propri lettori di credere all’impossibile. Per convincere i lettori hanno a disposizione un arsenale di tecniche narrative. Una delle tecniche più potenti consiste nel narrare concatenando una serie di particolari concreti; ovvero narrare mostrando la storia. Non ci sono ragioni per rinunciare a quest’arma.

Riconoscere & sopprimere il raccontato

Mostrare è più efficace di raccontare. Purtroppo mostrare è anche più difficile: richiede esercizio, attenzione, documentazione – puoi raccontare quello che non sai: “Anna è salita sul Boeing 747, si è seduta al posto del pilota e ha fatto decollare l’aereo”, non lo puoi mostrare; non puoi fornire particolari concreti riguardo a come si pilota un aereo se non ti sei documentato a proposito.

Se si scrive senza disciplina, a furia di risate e starnuti, la tendenza istintiva è di scivolare nel raccontato. Quando si racconta le parole fluiscono rapide, senza fatica, la storia procede spedita. Peccato che il risultato sia spazzatura.
Ci vuole molta pratica prima che scrivere mostrando divenga naturale. Per raggiungere questo obiettivo, il primo passo è rendersi conto di quando si racconta invece di mostrare.

L’indicatore numero uno è la presenza di termini astratti o generici.
Questo non vuol dire che per forza ogni termine astratto o generico sia sbagliato, vuol dire che, quando rileggiamo la storia, dobbiamo prendere ognuno di questi termini come un campanello d’allarme. Ci potrebbe essere un problema. Occorre verificare se quel termine è accettabile o no.

Michele era un ragazzo molto alto.

Non ci sono termini astratti, ma “molto alto” è un’espressione generica. Campanello d’allarme! Un brutto raccontato con zampette pelose scorrazza sul manoscritto. Bisogna schiacciarlo sotto il tacco! … Sigh.

Due strade: dobbiamo decidere se l’altezza di Michele ha un ruolo nella storia, oppure se è solo “colore”, se è solo un dettaglio per dare credibilità al personaggio.
Nel primo caso c’è poco da fare: bisogna imbastire una o più scene nelle quali l’altezza giochi un ruolo importante – per esempio si può mostrare Michele mentre gioca a basket.
Nel secondo caso, basta un pizzico di furbizia, basta “spacchettare” l’altezza in un’immagine concreta:

Michele chinò la testa salendo sulla carrozza della metropolitana.

Oppure, in maniera indiretta:

Anna si alzò in punta di piedi per baciare Michele sulle labbra.

Notare che potrebbero essere le carrozze particolarmente basse. O magari Anna è una nana. Ma ha importanza? In fondo non esiste un “molto alto” in assoluto, esiste un “molto alto” in rapporto alle porte o alle fidanzate; in rapporto alle taglie dei vestiti o ai letti degli alberghi.
E nessuno vieta di utilizzare l’intero ventaglio dei dettagli: porte, fidanzate, vestiti, letti. Anzi, è meglio: secondo Flaubert, un particolare sembra vero solo quando è ribadito almeno tre volte.

Per quel che ho letto di lei, Katie MacAlister è una pessima autrice. Ma anche una pessima autrice quando deve parlare delle dimensioni del protagonista maschile non si rifugia nel dire che “ce lo aveva grosso.” Infatti in Steamed: A Steampunk Romance scrive:

bandiera EN “You appear to be larger than I expected,” I said, wrapping one hand around him, and noting how much was left over.
[...]
“You’re not quite two hands, in case you were wondering. That is good—two hands’ worth would be excessive. I could not approve of two hands’ worth. But one hand and slightly more than a half of a second hand—that is reasonable. I approve of your dimensions, even if they are a bit more robust than I had anticipated.”

bandiera IT “Mi sembri più grosso di quanto mi attendevo,” dissi, passandoci una mano intorno, e notando quanto era rimasto.
[...]
“Non sei proprio due mani, nel caso te lo stessi chiedendo. Il che va bene – una grandezza di due mani potrebbe essere eccessiva. Non potrei approvare una grandezza di due mani. Ma una mano e un po’ più di metà della seconda mano – è ragionevole. Approvo le tue dimensioni, anche se sei un po’ più robusto di quanto mi aspettassi.”

Puro romanticismo, altro che Twilight. Circa. Ho usato questo esempio un po’ volgare per una ragione, che illustrerò in seguito. Intanto il principio rimane lo stesso: non raccontare che Michele è alto o ce l’ha grosso, ma mostrare nel concreto altezza e grossezza. Molto alto è generico, Anna in punta di piedi è concreto; grosso è generico, una mano e poco più della metà dell’altra è concreto.

Copertina di Steamed
Copertina di Steamed: A Steampunk Romance

Ho detto che più si è precisi, più si evita il generico e l’astratto meglio è. Si potrebbe pensare che non ci sia niente di più preciso dei numeri. Però:

Michele era alto 2 metri e 14 centimetri.

Funziona poco. A meno che il lettore non sia un geometra, non è in grado di dare concretezza ai numeri. Michele che china la testa per non sbatterla o Anna in punta di piedi il lettore li vede, i numeri no.

Appena superiamo le dita di una mano, i numeri perdono significato.

In piazza c’erano tre persone.

Chiaro e concreto.

In piazza c’erano 82 persone.

Astratto. Non ha significato per il lettore.

Un altro esempio:

La torre era alta 286 metri.

È astratto.

La cima della torre spariva avvolta tra le nubi.

È concreto.

Consideratela in questo modo: quando si parla di misure, si fa sempre una similitudine. Quando scrivo che la torre è alta 286 metri, in realtà scrivo: “l’altezza della torre è simile all’altezza che si ottiene impilando 286 sbarre di platino-iridio[4] lunghe un metro.” Ed è una similitudine difficile da visualizzare. Viceversa, se parlo di altezza delle nubi, il lettore non ha problemi a vedere la scena, perché ha esperienza quotidiana di nubi.

Le similitudini devono semplificare il concetto, non renderlo più complesso. Mettere in rapporto Michele con una porta o con una ragazza in punta di piedi è semplice, metterlo in rapporto a 214 unità di misura molto meno.
Lo stesso vale per qualunque altro tipo di misurazione. Se non ci sono ragioni specifiche (per esempio il punto di vista è dell’architetto della torre giusto impegnato a progettarla), i numeri vanno evitati.

* * *

Ho preso come esempi due termini generici (alto e grosso), lo stesso concetto si applica ai termini astratti, come la vecchiaia esaminata a inizio articolo.
“Michele è generoso”, “Michele ha un carattere solare”, “Michele adora la compagnia degli animali”, “Michele odia leggere” e così via. Questo è raccontare, non è un granché, se si vuole diventare bravi scrittori bisogna sforzarsi di mostrare.

Fiammetta era una fatina piccina e permalosa.

Diventa:

La fatina Fiammetta strizzò gli occhietti, si coprì il faccino con il dorso della manina. La mezzaluna di luce brillava sopra di lei. Il gatto, doveva essere stato il gatto. Il felino si era strusciato contro la teiera e aveva smosso il coperchio.
Fiammetta si piegò sulle ginocchia. Saltò. Le dita afferrarono il bordo di porcellana della teiera. Chiuse le ali e spinse con la schiena contro il coperchio. L’intera mattinata intrappolata al buio. Nessuno l’aveva mai trattata così! Diede un colpo di reni. Il coperchio scivolò giù. La fatina volò fuori dalla teiera.

Fiammetta sgusciò tra le ante accostate della finestra. Cinzia era in giardino, seduta tra l’erba, la bambola della principessa Himiko in una mano, un drago di plastica nell’altra. Fiammetta volò davanti al viso della bambina.
Cinzia sgranò gli occhi. «Oh… scusa. Scusa! Stava arrivando la mamma e allora. Per nasconderti.»
Fiammetta incrociò le braccia. «E poi ti sei dimenticata di me. Sai, comincio a sospettare che tu non gradisca la mia compagnia.»
La bambina era sbiancata. «No, no. Scusa.»
«Non mi interessano le tue scuse. Hai sbagliato e devi pagare. Avanti, non farmi perdere tempo.»
Cinzia lasciò cadere il drago. Si morse il labbro. Lacrime scesero sulle guance arrossate. Offrì alla fatina la mano aperta, il palmo verso l’alto.
La fatina tagliò il palmo con una scheggia di vetro; un solco di sangue dal mignolo al pollice. «E se i tuoi genitori scoprono qualcosa, ti cavo gli occhi.»
Fiammetta rinfoderò la scheggia sotto il vestitino.

Sono stata forse troppo stringata, si può fare di meglio, ma spero che il concetto sia chiaro.

La fatina Fiammetta
La fatina Fiammetta

Una conseguenza di quanto visto finora è la norma che prescrive di evitare gli avverbi.
Certo, ci sono avverbi da evitare semplicemente(…) perché inutili – il classico “sbatté violentemente la porta”, come se fosse possibile “sbattere” senza violenza.
Certo, ci sono avverbi da evitare perché sostituibili da verbi più precisi – il classico “chiuse violentemente la porta” che diventa il più elegante “sbatté la porta”.
Ma in generale la ragione che dovrebbe spingere lontano dagli avverbi è che gli avverbi raccontano. Nella quasi totalità dei casi sono termini astratti o generici.

Michele scrisse l’articolo accuratamente.

È troppo generico. Meglio mostrare Michele che consulta per due ore Wikipedia, che scrive una mail a un suo amico esperto in materia, che fa un giro alla biblioteca locale per spulciare le pagine di un vecchio quotidiano che non si trova su Internet.
E se invece l’accuratezza non ha importanza per la storia, inutile inserirla. Come ho già spiegato, il raccontato non rimane impresso in mente, dunque perché sprecare inchiostro?

Notare che:

Michele scrisse l’articolo con cura.

È lo stesso. È un pochino meglio perché “con cura” si legge più spedito di un farraginoso ac-cu-ra-ta-men-te, ma il problema di fondo rimane. Non fate i “furbi”, non è cambiando la singola parola che si risolve la questione.

Un errore comune è quello di raccontare e mostrare (o raccontare e ri-raccontare in maniera meno generica):

Michele scrisse l’articolo con cura: consultò per due ore Wikipedia, chiese via mail un parere al suo amico esperto di lucertole, passò il pomeriggio a spulciare i vecchi numeri di Rettili Oggi.

È un errore dovuto all’insicurezza. L’autore (in)consciamente dice al lettore: “Visto che non parlo a vanvera? Ho scritto ‘con cura’ mica per caso, infatti ecco tutti i fatti a dimostrazione.”
Non funziona. I casi sono due: o il lettore la vede come l’autore (e dunque è superfluo specificare che l’articolo era scritto “con cura”, i fatti già lo mostrano), oppure il lettore rimane di stucco. Ma come, pensa, due ore su Wikipedia e un pomeriggio a sfogliare vecchie riviste lo chiami documentarti con cura? Ma quando mai! Questo autore proprio non ne capisce un’acca di cosa voglia dire scrivere un articolo accuratamente!
Dunque la parte raccontata (“con cura”) o non ottiene alcun effetto, oppure ottiene un effetto negativo. Non mettetela!

La domanda interessante è: come faccio a trasmettere al lettore che Michele scrive accuratamente? Se lo racconto, il lettore non ci crederà. Se lo mostro, il lettore potrebbe non essere d’accordo con me.

La riposta è: non puoi. Non si può forzare la morale della favola (Michele che scrive accuratamente è la “morale” del passare la giornata a documentarsi). Si può mostrare nella maniera più vivida possibile quello che è successo, dopodiché il giudizio spetta al lettore.

Anna è credente. Rispetta i comandamenti e va sempre a messa. Un giorno, mentre attraversa la strada, è stirata da un autobus. È portata in fin di vita all’ospedale, dove le amputano le gambe.
Qual è la morale? Che Dio non esiste o non si prende cura dei suoi fedeli? Oppure che Dio esiste e ha sempre un occhio di riguardo per chi crede in Lui? (di solito chi finisce travolto da un autobus muore).
Deciderà il lettore. Se si cerca di forzargli la mano lo si imbizzarrisce e basta.

Lo stesso discorso fatto per gli avverbi vale per gli aggettivi. Perché si consiglia di usarli con parsimonia? Perché gli aggettivi concreti e specifici (rosso, ruvido, umido, ecc.) sono pochi. Gli altri sono aggettivi astratti o generici e come tali vanno soppressi. Non ascoltate i lamenti degli aggettivi, metteteli al muro e fucilateli.

Era una bella mattinata di ottobre. Un’allegra Anna si stava recando al suo prestigioso lavoro presso una rinomata ditta di tostapane.

Se la bellezza della mattinata, l’allegria di Anna, il prestigio del lavoro o la fama della ditta hanno importanza per la storia, si mostrano. Altrimenti gli aggettivi vanno giustiziati e basta. No, non ci sono scuse che tengano.

* * *

Altre bestiacce figlie del raccontato che spesso non sono identificate come tali:

Icona di un gamberetto Le espressioni: “provò a”, “tentò di”, “(non) riuscì a”, “cercò di” e così via. Sono sempre un raccontare.

Per esempio, Anna è inseguita da Michele armato di mannaia:

Anna corse alla porta. Provò ad aprirla ma non ci riuscì.

Bah! Così scrivono gli autori di Serie C (gli autori italiani scrivono: “Provò furiosamente ad aprirla, ma non ci riuscì nonostante ci avesse provato disperatamente.”); gli autori decenti tagliano il “provò” e il “riuscì” e mostrano le dita sudate che scivolano sulla maniglia, la maniglia che gira a vuoto, i pugni picchiati contro il battente, i capelli sugli occhi, il rumore dei passi di Michele e ogni altro particolare degno di nota.
Più difficile, più faticoso, più impegnativo. E allora? Nessuno sostiene che scrivere narrativa sia facile e indolore.

Michele imbestialito
A furia di essere protagonista degli esempi, a Michele sono saltati i nervi

Icona di un gamberetto Il battito artificiale del tempo: “prima”, “dopo”, “poi”, “in seguito” e anche “pochi istanti”, “improvvisamente”, “al momento” e così via. Sono sempre un raccontare.

Anna entrò nella stanza. Poi si sedette e prima di cominciare a studiare si infilò gli occhiali, dopo averli puliti. Fissò la copertina del libro di storia per qualche istante. Improvvisamente le venne voglia di mangiare un gelato, cosa che avrebbe fatto in seguito.

Si sente tra le righe la presenza del narratore, qualcuno che ha già assistito ai fatti e si permette di ordinarli come gli pare. Non siamo nel vivo dell’azione. Siamo in poltrona ad ascoltare una storia, che ci viene confermato è solo una storia. Non va bene.

Il tempo deve essere scandito dalle azioni, se non scorre fluido occorre cambiare le azioni, non intervenire inserendo “istanti” o “dopo” o “poi” o, peggio ancora, “prima”.

Prendiamo:

Anna fissò la copertina del libro di storia per qualche istante.

Posso togliere gli istanti senza colpo ferire:

Anna fissò la copertina del libro di storia, le venne voglia di mangiare un gelato.

Mentre il lettore legge la frase, “qualche istante” è passato, non c’è bisogno di ribadirlo.

Se invece voglio sottolineare la pausa, il modo giusto è aggiungere il mostrato:

Anna prese una matita e disegnò un fiorellino nell’angolo in alto a destra della copertina.

Anna perde tempo e lo vediamo. Perciò:

Anna entrò nella stanza. Poi si sedette.

Oppure:

Anna entrò nella stanza. Si chiuse la porta alle spalle. Si tolse la giacca. Andò alla scrivania e si sedette.

Piccolo Quiz

Piccolo quiz per verificare se siete entrati nello spirito dello “Show don’t tell”:

Anna cominciò a studiare.

È mostrato o raccontato?
mostra la risposta ▼

Icona di un gamberetto Parolacce quali: “pressappoco”, “quasi”, “circa”, “piuttosto” e così via. Sono sempre un raccontare.

Il cervello degli esseri umani non ha le capacità per distinguere una cosa dal “quasi” quella cosa, o da “pressappoco” quella cosa, o da “circa” quella cosa.

Le ali della fatina sono pressoché rosse.

È preciso identico uguale non-cambia-una-virgola dallo scrivere:

Le ali della fatina sono rosse.

Perciò tanto vale mettere il “pressoché”. Se invece il “pressoché” indicava una sostanziale differenza tra le ali rosse e le ali pressoché rosse, occorre mostrare.

Le ali della fatina sono rosse, con macchioline bianche lungo il profilo.

Chiedetevi perché avete scritto che una cosa è quasi quella cosa o circa quella cosa. Se c’è una ragione specifica mostratela, altrimenti togliete i quasi e i circa, i piuttosto e i pressappoco.

Fatina con le ali pressoché rosse
Fatina con le ali pressoché rosse

Analizziamo questo passaggio, scritto da un autore che ho paura si illuda di essere più bravo di quanto in realtà sia:

L’Università era una sorta di città-nella-città, con le sue mura, i suoi viali, i suoi dormitori e anche un paio di officine idromeccaniche, oltre alla bottega di un pittore.

Abbiamo l’errore visto in precedenza di prima raccontare (“città-nella-città”) e poi mostrare (viali, dormitori, officine, bottega). In più c’è quel brutto “una sorta”.
“Una sorta” rientra nella categoria dei “quasi”, “circa”, “piuttosto”. Anche se nel caso specifico le motivazioni dietro “una sorta” sono diverse rispetto alle motivazioni del “pressappoco” legato alle ali della fatina. Qui è più l’autore che sussurra al lettore: “Ho detto città-nella-città? Cioè, volevo dire una sorta di città-nella-città. Eh, non prendermi sempre alla lettera. Una sorta.” Ma se persino l’autore ha dubbi di verosimiglianza su quello che scrive, figuriamoci il lettore.
E la soluzione giusta è la solita: non esprimere giudizi (“città-nella-città”) dei quali non si è neanche convinti (“una sorta”), ma mostrare questa benedetta città-nella-città; il lettore stabilirà lui se era una vera città-nella-città o “una sorta”. Infatti il paragrafo non dovrebbe neanche cominciare con “L’Università è”, dovrebbe cominciare con il personaggio punto di vista che percorre i viali della Università-città e vede, sente, annusa il mondo intorno a sé.

Come esercizio, analizzate voi questo piccolo capolavoro della nostra amata Licia:

Era una sorta di castello piuttosto massiccio [...]

Lei è sempre la migliore!

* * *

Un paio di esempi nei quali un termine generico o astratto non indica dannoso raccontato.

Erano rimaste due fette di torta. Anna fece la linguaccia a Michele e prese la fetta più grossa.

Il “grossa” serve solo a distinguere una fetta dall’altra. Non importa quanto le fette siano grosse, qui lo scopo è mostrare il rapporto tra Anna e Michele, non la torta.

Anna pensò che Michele era un gran figo.

Se scrivo così con lo scopo di descrivere l’aspetto fisico di Michele sbaglio, ma se scrivo per mostrare il carattere superficiale di Anna è giusto. I personaggi possono pensare in termini astratti o generici; se voglio aprire una finestra sui loro meccanismi mentali, posso usare termini astratti o generici.
Ma devo essere consapevole di quello che sto facendo, tenendo presente che:
• È una tecnica rischiosa. Se voglio mostrare che Anna è frivola, forse faccio prima a farle collezionare scarpe rosa.
• Difficilmente posso ottenere un doppio risultato. Qui ho mostrato il carattere di Anna e basta. Non ho descritto Michele. Se voglio che Michele sia sul serio un gran figo, dovrò comunque in altro momento mostrarne la “figaggine”.

In generale, più la telecamera è in profondità nella testa del personaggio, più si hanno margini di manovra. Se scriviamo in prima persona e il mostrare va in conflitto con il naturale flusso di pensiero del personaggio, possiamo decidere di non mostrare.

Intendiamoci bene: questo non significa che in prima persona si può scrivere come capita, significa che bisogna farsi in quattro per fornire un flusso di pensiero naturale e allo stesso tempo mostrare il più possibile. Ci sono più margini di manovra, ma nel complesso il compito è più arduo.
È lo stesso problema dei dialoghi: devono essere interessanti e devono essere naturali.

Scrivendo in prima persona con il punto di vista di Michele:

Odio Anna dal profondo del cuore.

È un pensiero astratto. È un pensiero naturale? Sì, può esserlo. Dunque tutto bene? Non proprio. Dovete essere orgogliosi. Non accontentatevi del 6 stiracchiato, del minimo sindacale.
Magari se scrivete:

Vorrei legare Anna e ficcarle chiodi arrugginiti nelle gengive.

Il pensiero suona ancora naturale (per certi versi di più), con il vantaggio che avete mostrato l’odio. I sentimenti diventano immagini. Parole a caso diventano narrativa.

* * *

Seguire il principio dello “Show don’t tell” implica rinunciare al narratore onnisciente. Infatti il narratore onnisciente per essere tale deve esprimere concetti astratti o generici. Se descrive dettagli concreti, non c’è bisogno di lui, basta prendere il punto di vista di un personaggio che osservi quei dettagli.

Il narratore onnisciente è quello che scrive:

[Il nostro eroe era] più amico di Dickens che dei videogiochi, non era uno stupido né uno svagato.

Ovvero una sfilza di termini generici o astratti. Se il narratore avesse mostrato il nostro eroe che rinuncia a un coupon per 6 mesi gratis a World of WarCraft e torna a sprofondarsi in poltrona per leggere Dickens, non ci sarebbe stato bisogno del narratore medesimo. Sarebbe bastato il punto di vista del nostro eroe (o il punto di vista del personaggio che gli offre i 6 mesi gratis).

Se mostrate non avete bisogno di un narratore onnisciente. E dato che è sempre meglio mostrare, non c’è alcuna scusa per tirar dentro il narratore onnisciente in un romanzo.
Se sentite il bisogno irrefrenabile di commentare le vostre stesse storie, scrivete un saggio. Lì potrete spiegare con agio il vostro amore per Dickens o il disprezzo per i videogiochi. Nessuno vi accuserà di interferire, anzi, quelli che compreranno il libro lo faranno proprio per ascoltare la vostra opinione.

Piccolo Quiz

Secondo piccolo quiz per verificare se siete entrati nello spirito dello “Show don’t tell”:

Anna si distrae tracciando con l’indice il profilo delle nuvole.

È mostrato o raccontato?
mostra la risposta ▼

* * *

Quando fanno capolino termini astratti o generici, lì intorno zampetta l’insetto viscido del raccontato. Ma se io scrivo:

Anna strangolò l’orco.

Sto mostrando o raccontando? “Anna”, “strangolare” e “orco” sono termini specifici, non sono generici o astratti; dunque è mostrare? Sì e no. Potrebbe essere un mostrare adeguato se il punto di vista fosse esterno all’azione (per esempio un terzo personaggio che guarda), ma se il punto di vista è di Anna o dell’orco non ci siamo.
Bisogna sporcarsi le mani. Nel caso in esame, letteralmente: sarebbe opportuno mostrare le dita di Anna attorno al collo della bestia, i latrati dell’orco, il tentativo del mostro di azzannare Anna, la puzza di marcio, la bava che le bagna la faccia, lo sforzo di lei, i muscoli tesi, le unghie che si spezzano contro le squame e ogni altro altro particolare concreto che renda vivida la situazione. Come già visto quando Anna doveva aprire la porta inseguita da Michele.

“Sporcarsi le mani” non è solo legato all’azione violenta, “sporcarsi le mani” è anche evitare di scrivere:

La biblioteca del professor Polipo era colma di trattati sui calamari.

Ma andare a descrivere quel particolare libro con il calamaro d’oro imbullonato alla costa, quell’altro libro che puzza di pesce ed è pieno di sottolineature, e il terzo libro con le pagine in pelle di pinguino – assumendo che tali volumi siano importanti per la storia e che il personaggio punto di vista sia interessato alla letteratura dedicata ai cefalopodi.

Copertina di Animals of the Ocean, in Particular the Giant Squid
Animals of the Ocean, in Particular the Giant Squid

La narrativa dovrebbe essere una catena di dettagli scelti con cura, evitando il più possibile di condensare. O, per usare una metafora sanguinolenta: la narrativa è una sega per amputazioni. Più inserite particolari concreti, più usate parole specifiche, più i denti della sega sono fitti e affilati. Quando scivolate nell’astratto o nel generico ne nascono denti spuntati, arrotondati e inutili.
La buona narrativa taglia che è un piacere, neanche vi accorgete di segare le ossa! La cattiva narrativa è un macello. È un lavoro fatto a metà, una ferita purulenta, una gamba che penzola ancora attaccata con brandelli di carne. E in più vi siete insozzati da capo a piedi. La gonna non verrà più pulita.

La timidezza e il famigerato stile evocativo

Anna posò sul tavolo una scatoletta graziosa.

Perché uno scrittore mette quel brutto “graziosa”, invece di mostrare l’intrinseca graziosità?

Escludiamo gli scrittori ignoranti, quelli che non hanno idea di cosa si intenda per “Show don’t tell”, quelli che procedono a starnuti e risate – la quasi totalità dei pubblicati in Italia in ambito fantasy.
Esclusi questi, che hanno scritto “graziosa” perché sì!!! perché è fantasy!!! perché scrivere è un sogno!!!, alcuni mettono “graziosa” per un problema di timidezza.
Perché hanno paura del giudizio del pubblico. Hanno paura che se scrivessero che la scatola è avvolta in carta rosa con nastro rosa il pubblico potrebbe pensare che sono loro frivoli e non Anna; hanno paura che se scrivessero che la scatola è avvolta in carta regalo con Topolino e Paperino il pubblico potrebbe pensare che sono loro infantili e non Anna.

Fregatevene!

Se volete essere scrittori, i giudizi di cui vergognarsi sono quelli negativi sulla vostra tecnica narrativa, non sul vostro carattere desunto da come mostrate i personaggi.
La moralità, se si vuole parlare di moralità in riferimento alla narrativa, è legata al come non al cosa. Se scrivete un romanzo con protagonista un nazista pedofilo che brucia la foresta amazzonica e lo scrivete bene, siete degni di ammirazione; se scrivete un romanzo pieno di Buoni Sentimenti™ e lo scrivete con i piedi, siete da biasimare. Qualunque giudizio che esuli dagli aspetti tecnici dello scrivere potete ignorarlo.

Il brano tratto da Steamed era un po’ volgare. Be’, avrebbe dovuto esserlo di più. Se scegli di scrivere un mezzo porno (come si è rivelato quel romanzo), è inutile che ti nascondi dietro a un dito. Vai fino in fondo.
Se scrivi un romanzo di guerra, mostra quello che succede. La narrativa non è l’equivalente su carta delle tavole rotonde in TV, dove gente che non ha mai imbracciato un fucile chiacchiera di battaglie a migliaia di chilometri di distanza e il conduttore raccomanda di mantenere un tono pacato. Quella è fuffa. La narrativa, la buona narrativa, è viscerale. Il fucile lo hai in mano e la battaglia è intorno a te. Nessuna timidezza, nessun tentennamento. Se hai problemi con la violenza lascia stare i romanzi di guerra e scrivi qualche altro genere – ma non esistono generi “tranquilli”, la buona narrativa è sempre emozionante e coinvolgente.

Parlo di “buona narrativa”, non necessariamente di “narrativa che piace” o di “narrativa che ha successo”. Un sacco di gente, in maniera più o meno inconscia, sceglie romanzi “tranquilli”. Il romanzo d’orrore che non spaventa, il romanzo di guerra dove non muore nessuno, il romanzo rosa senza passione, il romanzo di fantascienza privo di sense of wonder e magari tra qualche anno il romanzo di Bizarro Fiction senza bizzarrie. È il tipo di narrativa che si legge proprio per non emozionarsi, per spegnere il cervello; per occupare il tempo a vuoto. Scelta legittima, ma per quanto questi romanzi possano piacere, rimangono pessimi romanzi.

Una statua dallo splendore del marmo di luna e una bellezza straziante da far desiderare anche l’Inferno per poterla vedere ancora. L’aveva distratta per un istante, emergendo sul terrore folle che le invadeva il cervello.
Né morto né vivo, una creatura del sangue che cammina per l’eternità su quella soglia che agli umani è consentito varcare una volta soltanto, senza ritorno.
Lui invece, da qualche parte lungo i secoli, era tornato.
Il suo potere era talmente forte che gli aggressori non erano riusciti a vederlo. Eloise era sicura che non si fossero accorti di lui fino a che non era piombato loro addosso e adesso nel buio cieco si stava svolgendo un massacro: scorgeva solo sagome, ma aveva la percezione netta del sangue che scorreva, caldo e metallico, macchiando la polvere della strada. La misericordia del buio le celava alla vista l’immagine di corpi smembrati e della forza umana opposta a un’altra forza che di umano non aveva nulla.

Questa schifezza inqualificabile viene da un romanzo fantasy italiano regolarmente pubblicato da casa editrice non a pagamento. Il passaggio di cui sopra è persino citato su un blog “letterario”(…) a testimonianza delle qualità dell’opera, di uno stile “ricco e ricercato” adatto per “chi ama immergersi completamente nelle realtà e nelle atmosfere evocate dalle pagine.”
Il passaggio di cui sopra è in realtà uno sfolgorante esempio di narrativa “tranquilla”, direi persino “innocua”. Si parla di gente così affascinante “da desiderare l’Inferno per poterla vedere ancora”, si parla di “eternità”, si parla di “massacro”, si parla di “forza che di umano non aveva nulla”. Bene. Siete turbati, eccitati, disgustati? Sentite il pranzo che vi risale per l’esofago? Eppure è questa la reazione che dovrebbe suscitare un “massacro”. Non c’è il briciolo di un’emozione.
Narrativa di questo genere è una perdita di tempo e nient’altro. È acqua tiepida, senza sapore. E lo è non per l’argomento, ma per come è scritta.

* * *

Esclusi gli autori che non saprebbero distinguere un romanzo da un tostapane e gli autori timidi, esiste una terza categoria di imbrattacarte che scrivono “scatoletta graziosa”: i gonzi che blaterano di “stile evocativo” o di “suggestioni”.

Il problema è che costringere il lettore a “evocare” non è una buona idea. Lo spiega Herbert Spencer nel già citato saggio The Philosophy of Style.

Herbert Spencer
Herbert Spencer

Nella parte I, ii-9, Spencer illustra il principio alla base dello “Show, don’t tell”, usando il seguente esempio, che sarà ripreso in The Elements of Style di Strunk & White:

bandiera EN We should avoid a sentence as: – “In proportion as the manners, customs, and amusements of a nation are cruel and barbarous, the regulations of their penal code will be severe.” And in place of it we should write: – “In proportion as men delight in battles, bull-fights, and combats of gladiators, will they punish by hanging, burning, and the rack.”

bandiera IT Occorre evitare frasi come: – “Quanto più gli stili di vita, i costumi e i divertimenti di una nazione sono crudeli e barbari, tanto più le norme del codice penale saranno severe.” Invece bisognerebbe scrivere: – “Quanto più gli uomini si dilettano in combattimenti, corride e scontri tra gladiatori, tanto più saranno puniti con l’impiccagione, il rogo e la tortura della ruota.”

Fate un confronto con questo frammento, scritto da un autore che ho paura si illuda di essere più bravo di quanto in realtà sia:

Nei cinque mesi trascorsi laggiù aveva visto più orrori che nel resto della sua vita: dalle piccole violenze domestiche, quasi banali, agli omicidi in pieno giorno, agli stupri di gruppo. E peggio.

“piccole violenze domestiche, quasi banali”, “omicidi in pieno giorno”, “stupri di gruppo”, “peggio”, è troppo generico; è il tipo di scrittura fiacca che da secoli viene suggerito di evitare. Dunque quali sono gli orrori? Gli orrori sono sempre specifici: un bambino a cui hanno cavato gli occhi con un apribottiglie, una ragazza sodomizzata con un attizzatoio, un uomo bastonato a morte da una banda di castori mannari.
Sottolineo infine il solito errore di prima raccontare (“orrori”) e poi “mostrare” (piccole violenze, omicidi, stupri, peggio).

In ii-10, Spencer chiarisce l’esempio:

bandiera EN This superiority of specific expression is clearly due to a saving of the effort required to translate words into thoughts. As we do not think in generals but in particulars – as, whenever any class of things is referred to, we represent it to ourselves by calling to mind individual members of it; it follows that when an abstract word is used, the hearer or the reader has to choose from his stock of images, one or more, by which he may figure to himself the genus mentioned. In doing this, some delay must arise – some force expended; and if, by employing a specific term, an appropriate image can be at once suggested, an economy is achieved, and a more vivid impression produced.

bandiera IT Questa superiorità dei termini specifici è chiaramente dovuta al risparmio di energie nel trasformare le parole in pensieri. Noi non pensiamo in termini generali, ma in termini particolari – quando si fa riferimento a una classe di oggetti, noi la rappresentiamo richiamando alla mente singoli membri di essa; ne segue che quando viene usata una parola astratta, l’ascoltatore o il lettore devono pescare una o più immagini dal proprio repertorio e attraverso queste raffigurarsi la classe menzionata. Nel fare questo si consuma del tempo – e si consumano delle energie; se, utilizzando termini specifici, può essere suggerita immediatamente l’immagine più adatta, si ottiene un risparmio e si produce un’impressione più vivida.

In altre parole, cosa succede nella testa del lettore quando legge della scatoletta “graziosa”? Se il lettore non è coinvolto, non succede niente. Ignora il “graziosa” e tira dritto. Se il lettore è più di buon umore, esce dalla storia e comincia a frugare nella sua mente. Cerca rappresentanti concreti della graziosità per trasformare la formulazione astratta in immagine.
E la faccenda può essere lunga e noiosa. Magari per il lettore il culmine della graziosità sono i coniglietti e lì è una scatola; magari non c’è niente di più grazioso delle fatine e lì è una scatola. Quando pure recupera una scatoletta compatibile, non sarà la scatoletta che pensa l’autore.
L’autore poi scriverà che Anna si mette in tasca la scatoletta e il lettore proverà fastidio, perché la sua di scatoletta in tasca non ci entra.
Perdita di tempo a cercare, conseguente noia e adesso fastidio. E se la scatoletta graziosa del lettore fosse un regalo della fidanzata – il giorno prima che la povera ragazza crepasse stritolata da una macchina agricola? Evocazione riuscita! Solo dei sentimenti opposti a quelli che si volevano comunicare!

Quando uno “scrittore” parla di “suggestioni”, in realtà confessa: “Sono pigro, non so scrivere e non ho voglia di imparare; spero che tutto il lavoro lo faccia il lettore dopo avermi pagato 20 euro.” Siete autorizzati a sputare in faccia a gente del genere.

Lo scopo della narrativa è acchiappare il lettore per la collottola e trascinarlo nella storia, metterlo qui-e-ora con un fucile in mano in mezzo ai proiettili che fischiano. Se il lettore rimane in poltrona a “evocare”, il romanzo è EPIC FAIL.

Ragioni per raccontare

Ho già illustrato una ragione che può spingere a raccontare invece di mostrare: quando, considerato il punto di vista, raccontare suonerebbe più naturale. Un’altra ragione è quando si vogliono riassumere fatti noiosi che però il lettore deve conoscere per capire la storia.
Sono quelle scene dei film di Indiana Jones nella quali si vede un aereo che sorvola la mappa del mondo, a indicare che i nostri eroi si sono spostati da un punto all’altro del globo. Meglio quei pochi secondi raccontati che non tre ore di Indiana Jones che fissa le nuvole fuori dal finestrino.

Non abusate di questo espediente. Riducetelo al minimo. Il lettore non è scemo: se mostrate Indiana Jones all’aeroporto che sfugge ai nazisti e salta sul dirigibile un secondo prima del decollo, la scena dopo potete direttamente mostrare Indy che sbarca a New York. Nessuno avrà problemi a ricostruire quello che è accaduto. E se d’altra parte durante il viaggio è successo qualche evento significativo, va mostrato.

Pensate sempre bene se non sia il caso di tagliare. Nel famigerato Bryan di Boscoquieto, l’autore compie l’errore di mostrare l’inutile, indugiando sulle minuzie della vita quotidiana del protagonista. Avrebbe dovuto raccontare? Forse. Ma ancora meglio sarebbe stato tagliare in tronco quelle parti. Del pranzo di Bryan o della partita a calcetto non frega niente a nessuno, né questi fatti hanno rilevanza per la storia.

Maccheroni
Un piatto di maccheroni fumanti era già pronto in tavola e la grattugia era accanto, ad attendere soltanto Bryan per una sventagliata di formaggio.

In prima stesura mostrate sempre. Se rileggendo vi accorgete di brani e capitoli superflui, tagliate. Usate il raccontato solo come ultima opzione.

È importante abituarsi a mostrare anche per una ragione pratica: passare dal mostrato al raccontato richiede pochi istanti; passare dal raccontato al mostrato significa scrivere una o più scene, servono ore se non giorni.

Prendete l’esempio della fatina Fiammetta. Ci mettete un attimo a cancellarlo e a scrivere che Fiammetta è permalosa. Invece non è automatico passare dal concetto astratto di permalosità a una scena che lo mostri. Senza contare che il raccontato è “senza tempo e senza luogo”, può essere incastrato ovunque nella narrazione, il mostrato no. Eventuali nuove scene vanno inserite tra le altre; a romanzo concluso, può rivelarsi una rogna.
Non andate a cercare rogne: progettate come se fosse tutto da mostrare.

* * *

Ci sono poche ragioni per usare il raccontato guardando esclusivamente alla tecnica narrativa. Ce ne sono di più allargando il discorso.

Icona di un gamberetto Si usa il raccontato per risparmiare pagine. Se dovete parlare di un argomento in un numero limitato di parole – per esempio perché state scrivendo un racconto che deve partecipare a un concorso con precisi limiti di spazio – il raccontato può essere una buona scelta.
Ma prima di arrendervi studiate bene il problema: magari, scegliendo di mostrare particolari diversi da quelli che avete pensato la prima volta, parlate con compiutezza dell’argomento in oggetto rispettando i limiti.

Attenzione a credere che il raccontato sia sempre un risparmio di parole. Per citare un esempio che l’anno scorso ha suscitato centinaia di commenti di flame:

Infine giunsero nei pressi del ponte principale, un’imponente struttura arcuata, con ampie rampe inclinate che congiungeva le due sponde del fiume.

Così scrive un imbrattacarte nostrano. Posso rendere più concreti termini generici come “imponente” o “ampie” nello stesso numero di parole? Forse sì. Se scrivo:

Il fiume ruggiva contro le arcate del ponte. Uno spruzzo d’acqua bagnò la testa del brontosauro che li precedeva sulla rampa.

Ho reso più vivida la situazione mantenendo l’impressione di grandezza del ponte – dato che lo attraversa un brontosauro.
Parole originali: 22. Parole mie: 22. Non arrendetevi al raccontato senza combattere!

Icona di un gamberetto Si usa il raccontato per sfuggire alla censura. Se mostrare il vampiro che strappa le interiora alle sue vittime, può essere che il romanzo non lo pubblichino, non sarebbe adatto agli young adult. Se lo sbudellamento lo raccontate è tutto ok. Il romanzo lo spacceranno anche ai bambini.
Ma dato che non vi pubblicano comunque, è inutile farsi questi problemi!

Icona di un gamberetto Si usa il raccontato per ragioni economiche. Mostrare è difficile. Mostrare le emozioni è molto difficile. Vale la pena perdere anni dietro a un romanzo per renderlo al 100% mostrato, o non è il caso di prendere qualche scorciatoia?
Decisione che spetta a ognuno, dopo dibattito con la propria coscienza. Ma se prendete scorciatoie che sia almeno una scelta consapevole, dettata dal desiderio di scrivere nuovi romanzi. Non lasciatevi guidare dalla pigrizia o dall’ignoranza.

Ma Lovecraft raccontava!!!

Se è vero come è vero che fin dalla metà del ’700 si sapeva che mostrare è meglio di raccontare, come mai così tanti autori, anche considerati bravi, hanno passato la carriera a raccontare?

Per capirlo bisogna riprendere Le intermittenze della morte (As Intermitências da Morte, 2005) di José Saramago, romanzo già citato nell’articolo dedicato ai dialoghi. In quel romanzo, Saramago ha tolto le virgolette ai dialoghi; le battute fluiscono all’interno della narrazione, senza identificatori espliciti.
È una scelta nella direzione dello “Show don’t tell”: quando sentiamo la gente parlare, non vediamo una mano che scende dal cielo e mette intorno alle parole le virgolette. Inserire le virgolette è un intervento dell’autore, è un raccontare.
Tuttavia persino io – fan del “mostrare” – ho avuto difficoltà a leggere quel romanzo. Sono così abituata ad avere l’autore che mi racconta quando iniziano e quando finiscono i dialoghi, che una soluzione teoricamente migliore mi risulta difficile da digerire. Fra cinquant’anni, se il metodo di Saramago si diffonde, una Gamberetta del futuro potrebbe prendermi in giro: “Guardate questa svampita: cianciava tanto di mostrare e poi metteva le virgolette ai dialoghi! È così ovvio che i dialoghi devono essere integrati nella narrazione!”

Tra la formulazione teorica (“mostrare è meglio di raccontare”) e la realizzazione pratica intercorrono secoli di fatica. Quando si vanno a pescare autori passati e si starnazza: “Questi erano bravi e non mostravano!!! Dunque mostrare è inutile!!!” bisogna capire se i signori autori non mostravano perché convinti che fosse sbagliato o non mostravano perché, pur con tutta la buona volontà, non ne erano in grado. Perché non si rendevano neanche conto che certe cose avrebbero potuto mostrarle – come adesso quasi nessuno considera possibile rendere più mostrati i dialoghi.

Scrittori come Gustave Flaubert o Henry James erano annoverati tra i “mostratori”. Eppure potrei riprodurre pagine e pagine dei loro romanzi nei quali raccontano a profusione. Non credo dipendesse dal fatto che erano incoerenti o stupidi, semplicemente non avevano la forma mentale per fare più di quanto hanno fatto.

La narrativa non è scolpita nella pietra. Si evolve ed è influenzata dal progresso scientifico e filosofico. È assurdo rimanere legati a modelli passati, sarebbe come rifiutare i computer perché Pitagora faceva matematica senza ed era bravo lo stesso. Bisogna ammirare tanti autori dei secoli scorsi perché hanno scritto opere bellissime nonostante non possedessero i mezzi tecnici attuali.
I registi a inizio secolo non giravano film muti in bianco e nero perché disdegnavano i colori e il sonoro, lo facevano perché non avevano alternative. Alcuni loro film sono belli nonostante le limitazioni tecniche.

Il ragionamento giusto non è: “Lovecraft raccontava. Lo imito come una capra.” Il ragionamento giusto è: “Lovecraft raccontava. Io conosco la tecnica del mostrare e scriverò racconti più belli dei suoi!”[5]

Quali manuali leggere

Ogni manuale che si rispetti ha un capitolo dedicato allo “Show don’t tell”. E al di là degli esempi non sempre azzeccati, non mi è mai capitato un manuale che spiegasse male il concetto. Infatti lo “Show don’t tell” è un principio né difficile, né complesso. Le conseguenze però non sono così ovvie, e non sempre i manuali stessi le colgono.
Ci sono poi i manuali che cascano nell’errore di un “politicamente corretto” letterario: mostrare e raccontare sullo stesso piano, per non fare torto a nessuno. Ma, come spero di aver dimostrato, la faccenda non è proprio in questi termini.

Perciò mi sento di dire che se avete seguito con attenzione questo articolo, ne sapete sullo “Show don’t tell” tanto quanto possa insegnarvi qualunque manuale, se non di più.
Al massimo date un’occhiata a:

Copertina di Showing & Telling Showing & Telling: Learn How to Show & When to Tell for Powerful & Balanced Writing di Laurie Alberts (Writer’s Digest Books, 2010).

Non mi è sembrato un granché, e soffre della sindrome del “politicamente corretto”. Tuttavia è meglio leggere un manuale in più che uno in meno.

Conclusione

Spesso si criticano romanzi, film, fumetti o in generale le opere d’arte in base a quanto siano “diseducative”. L’ho sempre trovato ingiusto: l’arte è arte, non è educazione; se una persona legge un romanzo per educarsi il problema è di quella persona, non del romanzo.
Ma farò uno strappo ai miei principi e parlerò di un’opera in termini di diseducazione. La scena che segue è quanto di più diseducativo si possa immaginare. Al confronto la più perversa pornografia che si annida nei recessi oscuri di Internet non può fare altro che bene.

Lezione di idiozia

Era una scena da L’Attimo Fuggente (Dead Poets Society, 1989). Notare che questo film non è vietato ai minori. Pazzesco.

Che retorica schifosa. Il “pensare autonomamente” che si concretizza nello strappare i libri senza leggerli; il rifiuto di ogni interpretazione della poesia al di là dell’istinto; il mescolare passione, amore, e gli altri Buoni Sentimenti™ così come capita, senza la minima consapevolezza di come sul serio nasca un’opera d’arte.

Il professor Keating – il personaggio interpretato da Robin Williams – andrebbe trascinato in strada. Fatto sdraiare sul selciato. Costretto a mordere il bordo di cemento del marciapiede. Poi qualcuno dovrebbe pestargli la nuca con la suola dello scarpone.
Non dico che la passione (e l’amore, la bellezza, il sogno, l’incanto, la meraviglia…) non sia importante. La passione è quella che ti fa lavorare ventiquattro ore al giorno e ti fa rischiare la vita per andare sulla Luna. Ma non voli nello spazio su una nuvola di passione, voli dentro un’astronave. Una realizzazione basata sulla tecnica.
Scrivere con passione non significa usare uno stile piuttosto che un altro, significa documentarsi per anni, revisionare fino alla nausea, studiare ogni dettaglio. Chi è appassionato di un argomento non strappa i libri, ne legge il doppio.

Adesso, le parole di un vero poeta. T. S. Eliot nel saggio del 1919 Hamlet and His Problems,[6] scrive:

bandiera EN The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked. If you examine any of Shakespeare’s more successful tragedies, you will find this exact equivalence; you will find that the state of mind of Lady Macbeth walking in her sleep has been communicated to you by a skilful accumulation of imagined sensory impressions; the words of Macbeth on hearing of his wife’s death strike us as if, given the sequence of events, these words were automatically released by the last event in the series. The artistic “inevitability” lies in this complete adequacy of the external to the emotion; [...]

bandiera IT In un’opera artistica, l’unico modo per esprimere un’emozione è trovare un “correlativo oggettivo”; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che rappresentino la formula per quella specifica emozione; cosicché, quando sono presentati i fatti esterni, che devono condurre a esperienze sensoriali, l’emozione è immediatamente suscitata. Se si esaminano le tragedie di Shakespeare di maggior successo, si troverà questa esatta equivalenza; si troverà che la condizione mentale di Lady Macbeth mentre cammina nel sonno è stata comunicata da un’abile accumulazione di impressioni sensoriali tradotte in immagini; le parole di Macbeth al sentire della morte di sua moglie ci colpiscono, data la sequenza degli avvenimenti, come se fossero l’automatica conseguenza dell’ultimo evento nella catena. Questa “inevitabilità” artistica nasce dalla completa corrispondenza dei fatti esterni alle emozioni; [...]

Di cosa sta parlando Eliot? Indovinato! Dello “Show don’t tell”!
Per esprimere emozioni, l’unico modo – the only way – è trovare un “correlativo oggettivo”. Ovvero qualcosa di concreto – oggetto, situazione, evento – che induca nel lettore l’emozione che desideriamo. Proprio come spiegava il giapponese a inizio articolo. Per suscitare tristezza non dobbiamo parlare di tristezza, ma trovare un oggetto, una situazione, un evento che sia triste in sé, e dunque evochi tristezza nel lettore.

Riascoltate la scena da L’Attimo Fuggente. Il brano di Eliot assomiglia più all’introduzione dell’emerito professor Pritchard o alle sviolinate amore & passione di Robin Williams?
Ognuno ne tragga le sue conclusioni.

Compiti a casa

Vi propongo due fatine. Dirò qualcosina su di loro, voi sceglietene una e mostrate quello che io ho raccontato. Non ci sono limiti di spazio, ma non sbrodolatevi. Fate riferimento all’esempio di Fiammetta: lì sono stata fin troppo concisa, ma non sono necessarie molte parole in più.
Potete usare il punto di vista che preferite, potete articolare una breve storia o no. L’importante è concentrarsi sul mostrare. Sull’uso costante di parole specifiche, sull’epurazione di ogni traccia di raccontato.

• La prima fatina si chiama Scintilla. È una fatina giovane e altruista. Adora realizzare i sogni degli esseri umani, ma alle volte ha il vago sospetto che questo non sia il mestiere più adatto per lei. Dovrebbe imparare dalle fatine più esperte, se non fosse così orgogliosa e testarda.

• La seconda fatina si chiama Lametta. È scappata da casa e adesso è in cerca di un lavoro. Non è facile però trovare un decente impiego part-time, non quando sei una fatina con un brutto carattere e troppi interessi da coltivare. Non aiuta l’ossessione per le cianfrusaglie che Lametta vuole sempre portarsi dietro.

Scuola per fatine
Scuola per fatine. Scintilla avrebbe dovuto prestare più attenzione!

Se avete bisogno di documentarvi sulle fatine, fate un salto all’Osservatorio.

Buon divertimento!

* * *

note:
 [1] ^ “Chikamatsu and His Ideas on Drama” di Makoto Ueda. Educational Theatre Journal Vol. 12, No. 2.

 [2] ^ Ringrazio zora che per prima aveva segnalato Monzaemon in un vecchio commento.

 [3] ^ D’altra parte c’è una fetta di pubblico allergica al “fantastico” in senso lato, quelli che: “C’era bisogno di andare sulla Luna con la gente che muore di fame?”, oppure: “Non vedo ragione perché qualcuno voglia un computer a casa sua” (ultime parole famose pronunciate dal presidente della DEC nel 1977).

 [4] ^ Lo so che dal 1960 la definizione di metro è diversa, ma per l’esempio va bene uguale la sbarra. Non siate più pignoli di Gamberetta!

 [5] ^ Lovecraft qui è un esempio. Se siete fan del solitario di Providence e non tollerate critiche al vostro idolo, non imbizzarritevi: rileggete, e ogni volta che capita “Lovecraft” sostituite con “William Hope Hodgson”. Il concetto rimane lo stesso.

 [6] ^ In questo saggio Eliot definirà l’Amleto un fallimento. Eliot ha ragione? Ha torto? Non lo so, non ho le adeguate conoscenze poetiche per giudicare. Però so che è l’atteggiamento giusto. Non c’è progresso se si rimane legati ai pregiudizi. Pensateci prima di scrivere stronzate tipo: I Promessi Sposi sono “un’opera stilisticamente, narrativamente, linguisticamente perfetta”.


Approfondimenti:

bandiera EN The Philosophy of Rhetoric leggibile online
bandiera EN The Philosophy of Style leggibile online
bandiera EN Hamlet and His Problems leggibile online
bandiera EN The Craft of Fiction su Amazon.com

bandiera EN Chikamatsu Monzaemon su Wikipedia
bandiera EN George Campbell su Wikipedia
bandiera EN Herbert Spencer su Wikipedia
bandiera EN José Saramago su Wikipedia
bandiera EN T. S. Eliot su Wikipedia

bandiera EN Dead Poets Society su IMDb
bandiera IT Segnalazione di Steamed: A Steampunk Romance

bandiera IT Manuali su gigapedia

 

Scritto da GamberolinkCommenti (516)Lascia un Commento » feed bianco Feed dei commenti a questo articolo Questo articolo in versione stampabile Questo articolo in versione stampabile • Donazioni

Manuali 2 – Dialoghi

Introduzione

Questo è il secondo articolo dedicato ai manuali di scrittura. Il primo articolo, Manuali 1 – Descrizioni, si trova qui. Il terzo articolo, Manuali 3 – Mostrare, si trova qui.

Ricordo che questi articoli sono un invito alla lettura. Se l’argomento vi interessa, leggete i manuali via via segnalati. Li trovate tutti su gigapedia e molti anche su emule. In questo articolo c’è l’elenco completo dei manuali che ho scovato su gigapedia. Sì, lo so, sono in inglese. Ho aggiunto qualche nota bibliografica quando un manuale ha avuto un’edizione italiana, ma non posso farci niente se la traduzione è pessima o l’edizione italiana è fuori commercio. Se si intende scrivere fantasy o fantascienza con serietà, vale la pena investire del tempo per imparare l’inglese. Non è indispensabile, ma aiuta moltissimo.

* * *

Se pensate che i manuali di scrittura siano inutili o dannosi, prima di continuare date un’occhiata alle Risposte ai Miti.

A tal proposito, voglio aggiungere qualche altra parola.
Lo scopo è imparare a scrivere bene. Essere orgogliosi dei romanzi e dei racconti che si scrivono. Troppo spesso si confonde la buona scrittura con la pubblicazione (intesa in senso tradizionale: il romanzo in libreria). Scrivere bene e pubblicare sono due attività distinte. Qualche volta c’è un rapporto di causa-effetto (ho scritto un bel romanzo, vengo pubblicata), nella maggior parte dei casi non c’è alcuna particolare correlazione.
Ciò non vuol dire che non si debba aspirare a pubblicare, è un desiderio legittimo, ma non può essere la spinta a cercare di migliorarsi, perché scrivere più o meno bene non incide sulle possibilità di approdare in libreria. Se una persona mi chiedesse: “Ma in pratica, che vantaggio ho a studiare l’inglese? Leggere i manuali di scrittura? Darmi una disciplina nello scrivere?” la risposta sarebbe che non c’è alcun vantaggio pratico. Il “vantaggio” è che si potrà essere fieri di quello che si è scritto e, se qualcuno leggerà le nostre storie, non dovremo vergognarci.

Così come scrivere bene non porta necessariamente alla pubblicazione, allo stesso modo un romanzo non diventa automaticamente decente perché ha trovato una casa editrice. Scrive Ansen Dibell in Plot:

bandiera EN Bad writing, by any standard you care to name, sometimes reaches the printed page.
Print doesn’t sanctify it. I’ve read some really rottenly-written fiction over the years, and not all of it in dog-eared copies with garish covers, from used-book shops—how about you?
But competent writers have their lapses, too. In many cases where a major narrative blunder survives into print, it’s tolerated because the story shines like a jewel, flaws and all, and the momentary failure of craft is forgiven for the sake of the power of the whole.
Some boners are allowed great writers. Laughably bad technique is often tolerated from very popular writers. But you and I are interested in good craft, in understanding options and making choices on purpose. If you didn’t care about craft, you wouldn’t be reading this book. So you wouldn’t want to cite others’ blunders to justify your own anyway—right?

bandiera IT La cattiva scrittura, qualunque criterio si adotti per definirla, qualche volta raggiunge la pagina stampata.
La pubblicazione non santifica la cattiva scrittura. Nel corso degli anni mi è capitato di leggere narrativa scritta in maniera davvero schifosa, e non sempre si trattava di libri trovati su qualche bancarella, con i bordi delle pagine arricciati e copertine pacchiane. E a voi è mai capitato?
Ma anche gli scrittori competenti ogni tanto sbagliano. In molti casi, quando un errore vistoso arriva fino alla pubblicazione, è perché la storia risplende come un gioiello, difetti compresi, e una svista è oscurata dalla qualità dell’insieme.
Qualche strafalcione è concesso ai grandi scrittori. Una tecnica ridicolmente scarsa è spesso tollerata in scrittori molto popolari. Ma noi siamo interessati alla buona scrittura, siamo interessati a conoscere le alternative e vogliamo compiere scelte consapevoli. Se non vi interessasse la buona scrittura, non stareste leggendo questo libro. Perciò non vi metterete a citare gli errori degli altri per giustificare i vostri, giusto?

In altre parole: non si tratta di mettersi in competizione con autori già pubblicati, non si tratta di una gara per arrivare alla pubblicazione, si tratta di imparare a scrivere bene!

Taiga armata di bokken
Imparate a scrivere una buona volta! Non costringetemi a usare il bokken: anche se è solo una spada di legno, fa molto male

Scopo dei dialoghi

La scopo principale dei dialoghi è caratterizzare i personaggi che vi partecipano.
I dialoghi sono uno strumento potentissimo per definire un personaggio, spesso ancor più delle azioni che compie:

Michele esce ogni sera con una ragazza diversa: le sue azioni lo definiscono come un certo tipo di personaggio.
Michele esce ogni sera con una ragazza diversa; a ognuna dice che l’amerà per tutta la vita e non la tradirà mai: le azioni sono uguali, ma il dialogo dipinge un Michele diverso.

Michele spara a Carlo: Michele è un certo tipo di personaggio.
Carlo dice a Michele che gli ha ucciso il figlio, Michele gli spara: stessa azione, ma il dialogo dipinge un altro Michele (e un altro Carlo, non più vittima innocente).

I dialoghi sono un mezzo favoloso per dare spessore a un personaggio. Oltre a questo si possono usare i dialoghi per arricchire le descrizioni, per spingere la storia in nuove direzioni, per accrescere la tensione o per smorzare il ritmo.

Discorso diretto e indiretto

Il discorso diretto è il riportare battuta per battuta quello che i personaggi si dicono:

«Ciao, come stai?» chiese Michele.
«Io sto bene» rispose Anna.

Quando si usa il narrato per riferire gli stessi concetti, è discorso indiretto:

Michele salutò Anna e le chiese come stava. Anna rispose che stava bene.

Il discorso diretto è mostrare. Il discorso indiretto è raccontare. Dato che la regola numero uno della narrativa recita: “mostrare, non raccontare!”, il discorso diretto è preferibile.
È preferibile perché è più preciso e concreto. “Michele salutò Anna” è vago, è generico, non consente al lettore di vedere o sentire. Quel saluto potrebbe essere uno qualunque di questi – e tanti altri:

«Ciao, bella!»
«Buongiorno, signorina Anna.»
«Lunga vita e prosperità.»
«Oh, tipa, sì tu, che ci hai da accendere?»

Ognuno dei quattro saluti aiuta a definire il personaggio di Michele e il suo rapporto con Anna.
La materia grigia del lettore è stimolata; nel suo cervello la scena si abbozza: anche se non scriviamo nient’altro è possibile che il lettore veda un Michele trasandato leggendo il quarto saluto e magari un Michele maggiordomo leggendo il secondo. Con “Michele salutò Anna” il lettore non vede niente.

Il discorso indiretto non funziona. È inchiostro sprecato e porta molto in fretta alla noia. Non è una scappatoia dal discorso diretto. Se io sono in difficoltà con le scene d’amore, ma la trama richiede che Michele confessi ad Anna che la ama alla follia, non posso scrivere: “Michele confessò ad Anna che l’amava”. Fa schifo. Devo impegnarmi, costruire il dialogo battuta per battuta; se non viene bene rifarlo, provare a leggere qualche romanzo rosa per avere ispirazione, ritentare e ritentare un’altra volta.
Se è vitale per la trama che Michele spieghi ad Anna come si atterra con un F-16 non posso scrivere: “Michele spiegò ad Anna come pilotare il caccia”. Fa schifo. Devo documentarmi e rendere il discorso diretto verosimile.

Il discorso indiretto può essere usato solo quando il discorso diretto risulterebbe ripetitivo o insignificante.
Esempio:

«Andrelli?» chiamò la maestra.
Un bambino alzò la mano. «Presente.»
«Bonzi?»
«Presente.»
«Carotoni?»
«Presente.»
La maestra continuò l’appello fino a Valvucci, assente.

“La maestra continuò l’appello [...]” è discorso indiretto. Ma è meglio così che non avere un elenco di trenta nomi con trenta “presente”.
O ancora: se sappiamo che Michele è il maggiordomo, dopo la prima volta che ha salutato Anna, le volte successive possiamo sì scrivere “salutò Anna”, perché il lettore sa di cosa stiamo parlando.
Altro esempio:

«Allora mi sono arrampicata sul muro. Ho usato le cesoie del contadino per tagliare il filo spinato. Ho aspettato che la guardia passasse e sono saltata a terra. Mi sono nascosta dietro il gabbiotto degli attrezzi. Ho forzato la serratura. Dentro ho trovato il fucile da cecchino e due caricatori. È stato facile ammazzare Don Calogero quando si è affacciato al balcone.»
Intanto era entrato in classe Michele. Anna spiegò anche a lui come superare il quinto livello di Hitman.

“Anna spiegò anche a lui [...]” è discorso indiretto, ma è preferibile che non ripetere le battute appena pronunciate.

Hitman
I videogiochi di Hitman sono tra i miei preferiti, perché si possono garrottare le persone! Manca solo un mod che inserisca gli autori di fantasy italiani…

Però, qualche volta, le ripetizioni possono essere volute. Per esempio, supponiamo che Anna ogni volta che viene interrogata dal professore di matematica abbia una scusa per non presentare i compiti. “Li ha mangiati il gatto”, “Erano nella macchina dello zio che è finita nel fiume”, “Le macchie solari hanno sciolto l’inchiostro del quaderno”. Alla diciottesima scusa, si potrebbe scrivere: “Anna inventò l’ennesima scusa”. Oppure si può riportare la diciottesima scusa: ripetitivo, ma divertente.

Il discorso indiretto spesso è usato come forma di (auto)censura:

Il martello colpì il dito invece del chiodo. Anna imprecò.

Se non ci sono ragioni particolari – stiamo scrivendo un libro per bambini e vogliamo evitare le parolacce – è meglio trascrivere l’imprecazione:

Il martello colpì il dito invece del chiodo. «Cazzo che male!»

Se Anna invece non si lascia mai andare a espressioni volgari – può essere, non è di per sé inverosimile – allora non impreca neanche usando il discorso indiretto.

Si può impiegare il discorso indiretto per celare fatti al lettore:

«Non hai paura della polizia?» chiese Anna.
«È un piano perfetto. Non la vedremo neanche la polizia» rispose Michele. Quindi illustrò ad Anna i dettagli dell’operazione.
Anna sorrise. «Con la mia parte voglio comprarmi una villa ai Caraibi!»

Per non svelare in anticipo al lettore come si svolgerà l’assalto alla banca, si passa per un attimo al discorso indiretto. Non è grave, è una consapevole scelta che normalmente il lettore accetta di buon grado. Tuttavia con un po’ di sforzo si può evitare:

«Non hai paura della polizia?» chiese Anna.
«Se seguiremo alla lettera il piano del marsigliese non la vedremo neanche la polizia» rispose Michele.
Anna sorrise. «Con la mia parte voglio comprarmi una villa ai Caraibi!»

Se Anna conosce il piano del marsigliese e il lettore no, il risultato è lo stesso di prima, ma il Narratore non è dovuto intervenire. Un piccolo guadagno in verosimiglianza.

Punteggiatura nel discorso diretto

Appurato che nella maggioranza dei casi è necessario usare il discorso diretto, è utile ricapitolare quale sia la corretta punteggiatura. Non so perché, ma mi capita spessissimo di vedere manoscritti con dialoghi pieni di punteggiatura bizzarra e simboli strani. Non vale la pena fare gli originali: il lettore è abituato a un certo schema visivo, se lo si viola, si attira l’attenzione sui segni invece che sulla storia. Non è una buona idea.

Per delimitare il discorso diretto si usano o le virgolette alte (“) o le virgolette uncinate[1] (« ») o il trattino lungo (–). Bisogna usare lo stesso simbolo in tutto il romanzo o racconto. Inoltre basta un simbolo solo, non c’è bisogno di mettere un trattino dopo le virgolette, o due virgolette diverse di seguito.
Esempi:

“Oggi è una bella giornata.”
«Oggi è una bella giornata.»
– Oggi è una bella giornata.

La punteggiatura di solito è dentro le virgolette. Il trattino non va chiuso se non ci sono altre parole dopo la fine della battuta. Dopo le virgolette a inizio battuta e prima delle virgolette in chiusura di battuta non ci vuole lo spazio; ci vuole invece dopo il trattino in apertura e prima del trattino in chiusura.

Domanda & Risposta

Ma io non posso introdurre il dialogo con l’asterisco???

Sì che puoi farlo! Però i lettori continueranno a chiedersi: “Perché ci sono tutti questi asterischi?” e non presteranno attenzione alla storia.

Se si vogliono distinguere due tipi di dialogo, per esempio il parlato del protagonista e i pensieri del protagonista, si possono usare due simboli diversi: magari il trattino per i discorsi e le virgolette alte per i pensieri. Per i pensieri si può anche usare il corsivo, senza alcun simbolo di delimitazione.

«Oggi è una bella giornata» disse Michele. In verità fa schifo, pensò.

Se la battuta non è autonoma ma è introdotta da un verbo, ci sono varie alternative. Le più comuni sono le seguenti tre:

  • Mettere uno spazio. «Oggi è una bella giornata» disse Michele.
  • Mettere uno spazio e una virgola dentro la battuta. «Oggi è una bella giornata,» disse Michele.
  • Mettere uno spazio e una virgola dopo la battuta. «Oggi è una bella giornata», disse Michele.

Non c’è un modo “giusto”: ognuno può scegliere quello che preferisce, l’importante è che si mantenga lo stesso stile nel corso dell’intero manoscritto.
Se la battuta termina con un punto di domanda o un punto esclamativo, di solito non si mette la virgola:

«Oggi è una bella giornata!» esclamò Michele.

Meglio le virgolette uncinate, quelle alte o il trattino? Anche qui è questione di gusti. Per curiosità ho preso dieci fantasy italiani pubblicati negli ultimi anni da editori diversi, questi sono gli stili:

 Pan (Marsilio, 2008).
«Tre bussolotti, vedete» dice la Meravigliosa Wendy.
(Virgolette uncinate e spazio).

 Gli Ultimi Incantesimi (Salani, 2008).
«Ora che lo so mi sento meglio» esplose Inskay.
(Virgolette uncinate e spazio).

 La Ragazza Drago II (Mondadori, 2009).
«Per trovare te ho impiegato molti anni, lo sai» diceva a Sofia.
(Virgolette uncinate e spazio).

 L’Eretico (Corbaccio, 2005).
«Il tenente Stark avrà il comando» riprese Ruesch.
(Virgolette uncinate e spazio).

 Gli Eroi del Crepuscolo (Einaudi, 2008).
– È andato a farsi un bagno, – rispose, piano.
(Trattino e virgola dentro).

 Il Signore del Canto (Delos Books, 2009).
– È quello che ho sentito – borbottò la ragazza.
(Trattino e spazio).

 Wunderkind (Mondadori, 2009).
– Grazie – gracchiò il ragazzo.
(Trattino e spazio).

 La Leggenda dei Cinque Ardenti (Armenia, 2007).
«Zitta. Siedi e mangia», la interruppe, senza neppure guardarla in faccia.
(Virgolette uncinate e virgola fuori).

 Estasia 2 (Curcio, 2008).
“Non è del tutto vero ciò che dici” lo corresse il guerriero.
(Virgolette alte e spazio).

 La Rocca dei Silenzi (Nord, 2005).
«Accomodati tra noi folli, dunque, Thal Dom Djèw», lo invitò Grèon en’Dhat.
(Virgolette uncinate e virgola fuori).

Le virgolette uncinate sono in maggioranza, ma c’è una bella varietà di stili. Addirittura Wunderkind e La Ragazza Drago II, pur essendo stati pubblicati lo stesso anno dalla stessa casa editrice, hanno stili diversi.

Copertina de La Ragazza Drago II
Copertina de La Ragazza Drago II. Non ci sperate, non lo recensirò

Se i simboli per delimitare i dialoghi possono essere scelti in base al gusto personale – pur nel rispetto delle convenzioni e dell’uniformità – la posizione dei dialogue tag ha un significato preciso. I dialogue tag sono quelle locuzioni usate per identificare chi parla e come parla; sono i “disse Michele”, “bofonchiò Anna”, “rispose allegramente Marco” e così via.

Questi tag possono essere messi in quattro posizioni.

Icona di una stellina Prima della battuta. È lo scolastico: due-punti-a-capo-aperte-virgolette. Esempio:

Michele disse:
«Oggi è una bella giornata.»

È pesante, appunto scolastico, può suonare addirittura biblico:

E Gesù disse:
«Beati quelli che sanno scrivere i dialoghi.»

L’enfasi che si pone sulla battuta è notevole. Non è il caso di usare questa posizione spesso.

Icona di una stellina Dopo la battuta.

«Oggi è una bella giornata» disse Michele.

Questa posizione è da usarsi solo se la battuta è breve, se il lettore riesce con gli occhi a cogliere subito il “Michele”. Infatti lo scopo primario dei dialogue tag è identificare chi parla, se la rivelazione avviene dopo dieci righe è finito lo scopo.

«Oggi è una bella giornata. Non come ieri però, ieri sì che c’era un bel sole, e non faceva neanche tanto caldo. Oggi invece è nuvoloso, e l’afa è fastidiosa. Dovrebbe alzarsi il vento, un bel vento a rinfrescare l’ambiente. Anche se spesso il vento mi fa venire il mal di testa» disse Michele.

Il passaggio sopra non funziona perché il lettore comincia a leggere, continua a leggere, e la sua comprensione è ostacolata dal fatto che a parlare potrebbe essere Michele come Carlo o Antonio – il lettore non sa quale personaggio deve immaginare con la bocca in movimento. Quando scopre chi è, è troppo tardi, il fastidio si è già fatto strada.
Perciò dialogue tag dopo la battuta, solo se la battuta è breve.

Icona di una stellina Nel mezzo della battuta.

«Oggi è una bella giornata» disse Michele. «Non come ieri però, ieri sì che c’era un bel sole, e non faceva neanche tanto caldo.»

Questa posizione va appunto bene quando la battuta è lunga, per identificare subito chi parla.
Si può anche usare questa posizione per introdurre una pausa:

«Sono stufo di vivere» disse Michele. «E sono stufo di mangiare pizza.»

È un ritmo più lento di:

«Sono stufo di vivere. E sono stufo di mangiare pizza» disse Michele.

Icona di una stellina Nessun tag. Può essere sottointeso chi parla.

Michele si alzò in punta di piedi e picchiò con le nocche il vetro della finestra. «Anna, sei sveglia?»

Il lettore non ha alcun problema a capire che ha parlato Michele. In generale, se a parlare è il soggetto della frase precedente, il lettore non ha difficoltà a fare l’associazione.
Il lettore non ha difficoltà anche nel caso le battute siano alternate tra due personaggi:

Michele si alzò in punta di piedi e picchiò con le nocche il vetro della finestra. «Anna, sei sveglia?»
«Che diavolo vuoi alle tre di notte?»
«Non stai guardando la TV?»
«No, stavo dormendo.»
«Sono arrivati gli extraterrestri!»

Questa soluzione di non usare alcun tag è un’ottima soluzione, essenziale ed elegante. Però si deve stare attenti a che sia chiaro chi parla:

Michele portò alla cassa dodici copie di Nihal nella Terra del Vento. La commessa lo fissò dritto negli occhi. «Mia sorella è una grande fan di Licia Troisi.»

Chi ha parlato? Michele o la commessa? L’ultimo soggetto è la commessa, però il punto di vista è quello di Michele. È una frase ambigua, e le frasi ambigue disturbano il lettore. Meglio aggiungere il tag:

Michele portò alla cassa dodici copie di Nihal nella Terra del Vento. La commessa lo fissò dritto negli occhi.
«Mia sorella è una grande fan di Licia Troisi» si giustificò Michele.

* * *

Dicevamo che il ruolo primario dei tag è identificare chi parla. E dicevamo che può essere una buona idea eliminare del tutto i tag. Alcuni furboni, per coniugare le due cose, inseriscono nelle battute i nomi dei personaggi.

«Anna, la devi finire di infastidirmi.»
«Non essere così permaloso, Michele.»
«Anna, sono serio.»
«Michele, anch’io.»

Tanto per cambiare, dialoghi del genere fanno pena. Infatti è innaturale continuare a chiamarsi per nome in quella maniera. È raro citare esplicitamente il nome della persona con cui stiamo parlando. Quando succede, c’è una ragione precisa:

«Carotoni, vieni alla lavagna» disse la maestra.

La maestra deve per forza chiamare per nome, avendo di fronte trenta alunni.
Oppure si può inserire il nome poche volte, in battute chiave per dare maggior enfasi:

«Ho deciso di partire per Marte.»
«E io ho deciso di comprarmi un vestito nuovo.»
«Anna, non sto scherzando.»

In altri termini: l’inserire i nomi nelle battute ha uno scopo, e questo scopo non è quello di facilitare la vita allo scrittore che cerca di eliminare i dialogue tag.

L’altro ruolo dei tag è definire come un personaggio parla. Qui più si elimina, meglio è.
Il come deve essere implicito nelle battute o nell’azione.

«Ridammi lo stereo» disse rabbiosamente Michele.

Lo scrittore non deve raccontare che Michele è arrabbiato, lo deve mostrare.

«Ridammi lo stereo, oppure ti spacco quella cazzo di faccia da scimmia che ti ritrovi» disse Michele.

Ci sono dubbi sul fatto che Michele stia parlando rabbiosamente?
Oppure, senza tag, mantenendo la battuta originaria:

Michele puntò la pistola alla tempia di Carlo. Tolse la sicura. «Ridammi lo stereo.»

Ci sono dubbi sul fatto che Michele sia incazzato?
È sempre il solito discorso: il mostrare è più efficace del raccontare. Mettere un aggettivo o un avverbio è una scelta pigra. Lo scrittore vuole Michele incazzato ma neanche lui sa in che modo si manifesta l’incazzatura. E il lettore dovrebbe fare il lavoro al posto suo. Manco per niente! Lo scrittore deve vincere la pigrizia, togliere l’avverbio, e mostrare la rabbia di Michele.

Qualche volta si compie l’errore di mostrare e raccontare.

Michele accostò la bocca all’orecchio di Carlo. «Ridammi lo stereo» sussurrò.

Visto che gli parla all’orecchio, mi sembra scontato che sussurri, dunque si può togliere.

Anna arretrò fino all’angolo opposto della stanza. Il fuoco divorava la carta da parati, il letto era in fiamme, le travi del soffitto ardevano. «Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!» gridò.

Non credo che Anna chieda aiuto sussurrando

Un’altra pratica fastidiosa è l’abuso del gerundio insieme ai dialogue tag.

«Oggi sei splendida» disse Michele, sorridendo.
«Qui dentro non si respira» disse Anna, tossendo.

O sorridi o tossisci o parli. Meglio:

Michele sorrise. «Oggi sei splendida.»
«Qui dentro», Anna tossì, «non si respira.»

Anche quando le azioni non si contraddicono, i gerundi sono meh, poco affilati.

L’ispettore Callahan puntò la pistola. «Coraggio, fatti ammazzare.»

È più netto e preciso di:

«Coraggio, fatti ammazzare» disse l’ispettore Callahan, puntando la pistola.

Infine, non c’è niente di male a usare “disse”. Non si vince un premio se si scovano tutti i sinonimi di “dire”. È meglio una ripetizione piuttosto che un termine balordo:

«Sulla i manca un puntino» arzigogolò Michele.

Sigh.
Non sono solo i dilettanti a cadere in questo tranello, basta leggere questo brano da una recensione del New York Times:

bandiera EN [...] Mr. Ludlum has other peculiarities. For example, he hates the “he said” locution and avoids it as much as possible. Characters in “The Bourne Ultimatum” seldom “say” anything. Instead, they cry, interject, interrupt, muse, state, counter, conclude, mumble, whisper (Mr. Ludlum is great on whispers), intone, roar, exclaim, fume, explode, mutter. There is one especially unforgettable tautology: ” ‘I repeat,’ repeated Alex.”
The book may sell in the billions, but it’s still junk.

bandiera IT [...] il signor Ludlum ha altre particolarità. Per esempio, odia la parola “disse” e la evita il più possibile. I personaggi in “The Bourne Ultimatum” raramente “dicono” qualcosa. Invece piangono, interferiscono, interrompono, rimuginano, dichiarano, controbattono, concludono, bofonchiano, sussurrano (il signor Ludlum è un appassionato di sussurri), intonano, ruggiscono, esclamano, sbuffano, esplodono, brontolano. C’è una tautologia particolarmente indimenticabile: ” ‘Ripeto,’ ripeté Alex.”
Il libro potrà vendere miliardi di copie, ma rimane spazzatura.

Chissà quando un giornale delle nostre parti avrà il coraggio di definire “spazzatura” un romanzo italiano che vende molto bene…

Copertina dell'edizione inglese di The Bourne Ultimatum
Copertina dell’edizione inglese di The Bourne Ultimatum

Domanda & Risposta

Ma Augusto Pepponi, che è un Grande Scrittore, usa un sacco di dialogue tag pieni di avverbi e aggettivi. Gamberetta, visto che ti sbagli???

E qui lascio la parola a Dean R. Koontz:

bandiera EN You can find published novels in which authors use one flashy dialogue tag after another. Don’t send me a list of those authors, please. I didn’t tell you that the frequent use of such tags would prevent you from being published. I only said that they indicate that the author is an amateur or that he lacks the sensitivity to appreciate the musical qualities of language. Books full of inept dialogue tags get published all the time. Of course they do. Not all published writers are good writers.

bandiera IT Si possono trovare romanzi pubblicati nei quali gli autori usano dialogue tag appariscenti uno dietro l’altro. Per piacere, non mandatemi una lista di questi autori. Non ho mai detto che l’uso frequente dei tag in quella maniera impedisca di essere pubblicati. Ho solo detto che un tale uso indica che l’autore è un dilettante che manca della sensibilità per apprezzare le qualità musicali del linguaggio. Vengono pubblicati di continuo libri pieni zeppi di dialogue tag orribili. Ovviamente succede. Non tutti gli scrittori pubblicati sono bravi scrittori.

* * *

Abbiamo visto come si delimitano e si introducono i discorsi diretti. Bisogna prestare attenzione alla punteggiatura anche nelle battute.

La virgola indica una pausa breve, ed è accettabile. Il punto indica una pausa più lunga, ed è accettabile. I puntini di sospensione indicano una pausa molto lunga. Così lunga che normalmente ha bisogno di essere mostrata.

«Ma io… io, ecco, non volevo… non volevo…» disse Anna

Non è un granché. Meglio riempire le pause:

«Ma io», Anna abbassò lo sguardo. «Io, ecco, non volevo.» Le guance le divennero rosse. «Non volevo.» Rimase in silenzio, ad aspettare la decisione della maestra.

Inoltre si deve ragionare bene se le pause sono volute o sono solo frutto di indecisione dello scrittore. Siamo sicuri che il personaggio è davvero così incerto? O magari siamo noi che non sappiamo bene quali parole mettergli in bocca?
Se il personaggio è davvero insicuro, mostrare l’insicurezza è molto più efficace di infarcire il dialogo con puntini di sospensione.

I punti esclamativi vanno usati con parsimonia e uno per volta è più che sufficiente. Come sempre è il mostrare che funziona, non il raccontare. Se io scrivo:

«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»

E se scrivo:

«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!!!»

Ho scritto due frasi con lo stesso significato, preciso identico. I punti esclamativi in più non portano maggior enfasi. Se voglio maggior enfasi devo mostrare:

Anna non riusciva a star ferma. Saltellava qui e là per la stanza. Fece una capriola e si rimise in piedi barcollando. Stappò lo spumante e ne bevve un sorso. «Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»

Il punto di domanda seguito dal punto esclamativo (?!) dev’essere usato solo in situazioni eccezionali. Di quelle che non capitano quasi mai.

Se si vuole dare enfasi alle singole parole è meglio usare il corsivo piuttosto del maiuscolo. Meglio:

«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il mio romanzo!»

di:

«Hai saputo la notizia? Ghigliottina Editore pubblicherà il MIO romanzo!»

Robe in stile fumetto, del tipo:

Darth Vader si prese la testa tra le mani. «NOOOoooooooooooooooooo!!!!!!!!!!!!!»

non fanno una bella impressione, a meno che consapevolmente non si stia cercando di imitare uno stile del genere. E anche in quel caso non vuol dire che sia una buona idea.

* * *

Il famoso scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998, usa uno stile particolare per i dialoghi. Ecco un estratto dal suo romanzo Le Intermittenze della Morte (2005):

Come responsabile del dicastero della salute, assicuro a tutti coloro che mi ascoltano che non c’è alcun motivo di allarme, Se ho ben capito quanto ho appena udito, osservò un giornalista in un tono che non voleva sembrare troppo ironico, secondo lei, signor ministro, non è allarmante il fatto che nessuno sta morendo, Esatto, anche se con altre parole, è proprio ciò che ho detto, Signor ministro, mi permetta di ricordarle che ancora ieri c’erano persone che morivano e a nessuno sarebbe passato per la testa che questo fosse allarmante, È naturale, la consuetudine è morire, e morire diviene allarmante solo quando le morti si moltiplicano, una guerra, un’epidemia, per esempio [...]

In pratica non ci sono né virgolette, né trattini, né a capo; l’unica indicazione che inizia una battuta è data dalla maiuscola che segue la virgola. Inoltre Saramago non usa né punti di domanda, né punti esclamativi.

Copertina de Le Intermittenze della Morte
Copertina de Le Intermittenze della Morte

Saramago ha spiegato che adotta questo stile non perché sì, ma perché gli sembra possa essere più verosimile. Quando le persone parlano non ci sono virgolette, né ritorni a capo, né punti esclamativi e di domanda. Il tentativo è quello di imitare il flusso della conversazione come si dipana nella realtà. È sacrificata la consuetudine in cambio di maggiore verosimiglianza. Una scelta consapevole.
Si possono stravolgere le regole se si ha ben presente cosa si sta facendo e perché. Poi è tutto da dimostrare che i vantaggi superino i problemi. Io quel romanzo di Saramago ho provato a leggerlo: ho fatto parecchia fatica a seguire i dialoghi.

Verosimiglianza

Seguendo i consigli della sezione precedente, si possono scrivere dialoghi corretti dal punto di vista formale. Non è sufficiente. Un buon dialogo è prima di tutto verosimile.
Il lettore deve credere che le parole che mettiamo in bocca ai personaggi nascano spontaneamente dai personaggi stessi. Il lettore deve avere l’impressione che i personaggi siano vivi e che non siano marionette.

L’autore ha una sola voce, i personaggi ne devono avere tante quanti sono. Il profugo bosniaco non può parlare come una fan tredicenne di Twilight che a sua volta non si esprime come un generale dell’esercito. Se vogliamo mettere in bocca a un ufficiale veterano le parole: “Edward è proprio uno gnokko!”, bisogna inserire una valida giustificazione.
I personaggi devono esprimersi in maniera consistente: se la fan tredicenne di Twilight parla come una cerebrolesa a pagina 5, deve farlo anche a pagina 100, a meno che nel frattempo l’autore non abbia mostrato il cambiamento nella personalità della ragazza.
Non è un invito ad adagiarsi in uno stereotipo: il barbone può avere tre lauree e il generale avere una passione morbosa per i vampiri, l’importante è che questi dettagli fondamentali siano mostrati.

Se il romanzo è ambientato in un mondo secondario c’è maggiore libertà, ma fino a un certo punto. Il contadino non può esprimersi alla stessa maniera del mago centenario che ha passato l’intera vita a studiare. Poi nessuno vieta di progettare un mondo in cui anche i contadini studiano i misteri della magia da mattino a sera – il lavoro manuale lo fanno gli gnomi da giardino a orologeria – basta essere consapevoli del problema. E rimane il vincolo della consistenza: è probabile che possa far parlare un drago come mi pare, ma se è una bestia che si esprime a ringhi a pagina 18, sarà ancora una bestia ringhiosa a pagina 97, a meno di non mostrare il mutamento.

I personaggi, in determinati ambienti (per esempio le forze armate), si esprimo in gergo. L’autore deve documentarsi su quale siano le convenzioni dell’ambiente in questione e far parlare i personaggi di conseguenza. Il ragionamento: “Chi se ne sbatte, tanto nessuno dei miei lettori è mai stato sommergibilista, mi invento quello che voglio” è sbagliato, perché:

  • Al lettore basta il sospetto per perdere fiducia. Forse non sarà mai stato in Marina, ma lo stesso gli sembrerà molto strano che il Capitano del sommergibile si esprime proprio come il vicino di casa, di mestiere falegname. Comincerà a prestare maggiore attenzione a questi dettagli, e quando capiterà un particolare che il lettore conosce bene e l’autore no, il lettore avrà la conferma che l’autore è un ciarlatano. Dopo di che chiude il libro, si collega a Internet e comincia a parlar male dell’autore su tutti i forum che gli capitano a tiro.
  • Lo si trova il lettore ex sommergibilista. Lui non ha bisogno di ulteriori conferme: butta il libro e si fionda su Internet!
  • È una questione di rispetto per il prossimo.
    Aprite il frigorifero e dovete chiudervi il naso per la puzza. La maionese è acida, la carne è nera, il latte scaduto, le verdure marce, il pesce è ridotto a una poltiglia. Pensate: “Be’ chi se ne sbatte, tanto stasera ho ospiti a cena”?
    Io non credo proprio. Quando ci sono ospiti a cena magari si prepara un pasto più gustoso del solito. I lettori sono gli ospiti a cena: bisogna dar loro il meglio, non gli avanzi.

Una giusta preoccupazione è quella che il gergo possa rendere difficile la lettura. È vero, però con un po’ di furbizia lo scrittore può illustrare il gergo in maniera indolore. Per esempio i romanzi di guerra di Tom Clancy sono pieni di vampiri. I personaggi gridano disperati che i vampiri stanno per colpire la portaerei. Al che il lettore può essere spiazzato, può immaginarsi torme di ragazzotti sbrilluccicosi e con i denti appuntiti che si stanno avvicinando in canotto.
Ma se a questo punto mostro le scie di un nugolo di missili diretti contro la portaerei, nessuno avrà problemi a capire che “vampiro” è un termine gergale per “missile anti-nave”. È rispettata sia la verosimiglianza sia la comprensione del lettore.

Due tipi di vampiri
Disguido semantico

Attenzione: il collegamento vampiro-missile deve essere implicito. Una cosa del tipo:

Il guardiamarina Michele osservò le scie lasciate dai vampiri. I missili anti-nave, che noi in gergo chiamiamo vampiri, sono un grosso rischio per la portaerei, si disse.

è un’atrocità. Pensieri e dialoghi non devono essere artefatti per informare il lettore. Ma su questo tornerò più avanti.

* * *

Un punto cruciale è bilanciare la brillantezza con la verosimiglianza. Quando la gente parla nella vita reale, spreca una quantità di parole impressionante. Il novanta percento dei discorsi che conduciamo sono chiacchiere inutili, banalità, o comunicazioni di servizio: “scusa non ti ho sentito pensavo ad altro oh squilla il telefono uh hai comprato la marmellata?” A riportare sulla carta discorsi del genere si otterrebbe massima verosimiglianza, ma nessuno avrebbe voglia di leggere un romanzo pieno di dialoghi condotti in questa maniera.
I personaggi in un romanzo devono esprimersi in maniera interessante. Catturare l’attenzione del lettore. Coinvolgerlo. Problema: un personaggio che dice sempre cose interessanti non è verosimile. I pareri a proposito sono discordi. James N. Frey in How to Write a Damn Good Novel è per la brillantezza; invita gli autori a meditare ogni battuta perché sia sempre intrigante, arguta o spiritosa. Gloria Kempton in Dialogue invece invita al massimo della spontaneità; non bisogna mai cercare apposta la battuta intrigante, arguta o spiritosa.

Entrambe le strade sono praticabili, ma entrambe sono difficili da seguire: ci vuole notevole talento sia per scrivere dialoghi brillanti, sia per scrivere dialoghi sempre verosimili ma che non siano noiosi e banali. Se proprio dovessi scegliere, in linea teorica propenderei più per le tesi della Kempton, anche se personalmente mi diverto molto di più a cercare di scrivere dialoghi brillanti piuttosto che dialoghi assolutamente verosimili.

Nelle light novel di Haruhi (ne ho parlato qui), Kyon, protagonista e narratore, non si esprime come un ragazzo. Kyon è cinico e sarcastico, non suona quasi mai come un sedicenne. Eppure i dialoghi funzionano benissimo: la brillantezza delle battute mette in ombra la scarsa verosimiglianza.
Nella quarta light novel, The Disappearance of Suzumiya Haruhi, la storia diviene drammatica e Kyon non può più esprimersi con il consueto, ironico distacco. I dialoghi sono meno vivaci, ma più verosimili. Forse è anche per questo che The Disappearance è più emozionante dei romanzi precedenti.

Immagine dal film di The Disappearance of Suzumiya Haruhi
Una delle prime immagini del film tratto da The Disappearance of Suzumiya Haruhi, in uscita nella primavera del 2010

Riporto i due esempi di Frey sulla questione verosimiglianza vs. brillantezza, traducendo e adattando direttamente. Ognuno tragga le sue conclusioni.
Giovanni deve invitare Maria a uscire con lui per il prom, il ballo scolastico di fine anno.

Dialogo verosimile ma scialbo:

«Ciao» disse Giovanni a Maria.
Maria sollevò gli occhi dal libro che stava leggendo. «Ciao.»
Giovanni spostò il peso da un piede all’altro. Era convinto che tutti nella caffetteria della scuola lo stessero osservando. «Che fai?» chiese.
«Leggo.»
«Oh. Cosa leggi?»
«Moby Dick
«È bello?»
«È solo una storia di pescatori.»
Giovani si sedette. Si passò un dito nel colletto per asciugare il sudore che gli scendeva lungo il collo.
«Ah, avrei una cosa da chiederti.»
«Dimmi.»
«Er, vai con qualcuno al ballo?»
«Non vado al ballo.»
«Tutti vanno al ballo. Non ti piacerebbe andarci con me?»
«Uhm, ci penso, okay?»
«Non pensarci, vieni! Mi farò prestare la macchina dal mio vecchio. E avrò un bel po’ di soldi.»
«Mi sembra il minimo.»
«Potremmo cenare in pizzeria, al Benni.»
«Be’, allora okay.»

Dialogo brillante:

«Devo sedermi qui, è il mio lavoro» disse Giovanni.
«Oh?» disse Maria, alzano lo sguardo dal libro che stava leggendo.
«Già. La scuola mi paga cinquanta euro l’ora per studiare in caffetteria e dare il buon esempio.»
«Siediti dove ti pare, siamo in un paese libero.»
Giovanni le sorrise. «Conosco il tuo futuro.»
«Come fai a conoscere il mio futuro?»
«Leggo i Tarocchi.»
«Non credo ai Tarocchi, in famiglia siamo molto religiosi.»
Giovanni prese dalla tasca il mazzo di carte e lo mischiò. Girò la prima carta. «Otto di sera. Una 500 verde è sotto casa tua.»
«Davvero?»
«La sta guidando un ragazzo incredibilmente bello. Indossa una giacca da sera bianca.»
«Sul serio?»
«Lui ti porterà al ballo, proprio nella palestra della nostra scuola.»
«Ma va? E lo dicono le carte, vero?»
«Dicono questo e altro.» Giovanni mise via i Tarocchi. «Non voglio rovinarti tutte le sorprese.»
«Mi stai chiedendo un appuntamento?»
«Verrai al ballo con me?»
«Le carte dicono tutto, giusto? Allora dovresti già sapere la risposta.»

Il primo dialogo è insulso. Può essere verosimile, ma non suscita la minima curiosità nel lettore. Il secondo dialogo è un po’ più movimentato, più interessante. Però non è verosimile neanche per sbaglio. Il ragazzo che chiede un appuntamento con la manfrina dei Tarocchi? In quale film l’hai visto?

* * *

Dove si può essere verosimili senza compromessi è nella costruzione del contesto nel quale il dialogo si svolge. Un dialogo non si svolge nel vuoto, con due teste separate dal corpo che parlano. I personaggi si siedono o si alzano, vanno alla finestra, tirano un pugno alla porta, danno un calcio alla sedia, rovesciano la scacchiera, si mangiano le unghie e si mordono il labbro.
Un dialogo deve svolgersi in un contesto dinamico. Un dialogo statico annoia, perché il cervello del lettore non può vivere alcuna esperienza concreta. Ci sono solo chiacchiere; non ci sono capriole, coltellate, sberle. Per non tediare il lettore e per essere verosimili è necessario far agire i personaggi anche mentre parlano.
Come spiegato nell’articolo sulle descrizioni, la realtà non è mai una fotografia, non è mai fissa. Due persone sono al ristorante, si sono incontrate proprio perché hanno molto da dirsi: lo stesso mentre discutono mangiano e bevono, sono interrotte dal cameriere, sono distratte dal bambino che piange a due tavoli di distanza; fuori scatta l’antifurto di un’auto, inizia a piovere e la pioggia batte sui vetri; dalla cucina escono gli odori più diversi, alla cassa scoppia una lite perché qualcuno non ha apprezzato la birra annacquata. Il mondo è in continuo mutamento; magari non ce ne accorgiamo coscientemente, ma se all’improvviso tutto si ferma, subito sembra che ci sia qualcosa di sbagliato. Lo stesso accade nella narrativa: se il dialogo procede su uno sfondo immobile, con personaggi immobili, il lettore si infastidisce. Forse, se non è un lettore particolarmente attento, non saprà spiegare il perché di tale fastidio, ma il fastidio rimane.
Si pensi a situazioni ancora più formali, per esempio un interrogatorio (che sia da parte della polizia o da parte del professore di storia durante l’esame di maturità). Non ci sono solo domande e risposte. La vittima si tormenta le mani, si asciuga la fronte con un fazzoletto, muove i piedi, beve un caffè o un bicchier d’acqua, fuma una sigaretta, sorride a sproposito; l’aguzzino punta la lampada contro l’interrogato, si alza per incombere sul poveretto, fa gesti spazientiti di fronte alle risposte balbettanti e così via.
Si può fermare il mondo. Per poche battute. Il contesto può sfumare davanti al dialogo serrato dei due personaggi, ma è questione di istanti, poi il tempo deve tornare a scorrere. Altrimenti il lettore intuisce che qualcosa non funziona, e quando qualcosa non funziona in un romanzo, la prima reazione è chiudere il libro e mettersi a giocare con i videogiochi (ché si diventa più intelligenti).

Attenzione però a non far prevalere il contesto. Quando succede nella realtà, il dialogo si arena con frasi del tipo: “guardami quando ti parlo”, “ne parliamo domani”, “non parliamone in mezzo alla strada”. Se un personaggio si distrae di continuo, l’interlocutore si stufa in fretta della conversazione.
Attenzione anche alle elucubrazioni del personaggio punto di vista: può essere che il dialogo susciti nel personaggio mille pensieri, ma se vengono tutti riportati, il lettore avrà l’impressione che tra una battuta e l’altra passino le mezzore, e questo è inverosimile.
Già che ci sono: come sempre funzionano solo i pensieri concreti, che stimolino i cinque sensi del lettore. Anna e Michele discutono all’entrata del cimitero: Michele non deve rimuginare sulla morte in astratto, deve ricordare quando ha seppellito con le sue mani il corpicino del suo coniglietto.

* * *

La vita reale è piena di chiacchiere, nella narrativa un dialogo ha senso solo se è significativo per la trama e mette di fronte personaggi con obiettivi diversi. Se queste condizioni non sono rispettate, è meglio tagliare il dialogo o al massimo ricorrere al discorso indiretto.
Ci deve essere tensione tra i personaggi, ognuno deve avere desiderio di prevalere sull’altro. Ciò non significa che ogni dialogo debba finire in rissa (non che ci sia niente di male nella violenza – la scena dove la discussione tra cowboy degenera e poi sfasciano il saloon può non piacere, ma di solito non è noiosa), significa che in ogni dialogo ci deve essere un conflitto.
Giovanni vuole che Maria lo accompagni al ballo. Maria vuole continuare a leggere Moby Dick. Non finirà a botte, ma c’è sufficiente distanza tra gli obiettivi dei personaggi perché il dialogo possa interessare il lettore.
Se Giovanni vuole invitare Maria e Maria vuole invitare Giovanni, che dialogo può esserci? È come leggere i commenti degli amyketti al tale o tal altro romanzo: “bellissimo”, “capolavoro”, “mai letto niente di simile”, “sublime!” Dov’è il dialogo? Non c’è. Il dialogo nasce quando qualcuno commenta: “È cacca”. A questo punto può nascere il dialogo, perché ci sono due personaggi con obiettivi diversi: il fan che vuole difendere l’autore-amyketto e il detrattore che vuole difendere la buona narrativa.

«Esco» disse Anna.
«Torna per le undici, va bene?» disse la mamma.
«D’accordo.»
«Ok.»
«Ciao.»
«Ciao.»

E il lettore pensa: “Buon per loro, a me che frega?” Non c’è coinvolgimento.

«Esco» disse Anna.
«Torna per le undici, va bene?» disse la mamma.
«Torno quando cazzo mi pare.»

Il lettore è meno indifferente. Qualcuno penserà che Anna è una maleducata e che la mamma non dovrebbe più farla uscire di casa per un mese; altri saranno compiaciuti dalla reazione di Anna, così la mamma impara a voler imporre regole idiote. In entrambi i lettori dovrebbe nascere un minimo di curiosità rispetto a quello che farà adesso la mamma.
Giovanni vuole uscire con Maria, ma Maria vuole uscire con Marco; Anna vuole tornare alle sei del mattino, ma la mamma vuole che rientri per le undici; Michele vuole ordinare la pizza con le acciughe, ma Nicola preferisce quella con i peperoni; undici giurati sono pronti a condannare un ragazzo per omicidio, ma il dodicesimo non è d’accordo. Non importa se il dialogo è su questioni serie o su stupidate: ci deve essere tensione tra i personaggi, ci deve essere un conflitto.

* * *

Tre difetti comuni che intaccano la verosimiglianza:

Icona di una stellina Personaggi che hanno tutti la stessa voce. Ogni personaggio ha cultura diversa, ha vissuto esperienze diverse, viene da una famiglia diversa, ha obiettivi diversi: deve esprimersi in modo univoco. Non importa se le fan di Twilight sembrano tutte una massa di cerebrolese e dicono tutte le stesse cose con lo stesso linguaggio balordo: se i miei personaggi sono un gruppo di ragazzine fanatiche della Meyer, ognuna deve avere una voce distinta. Il lettore deve subito capire che ha parlato Simona e ha risposto Nicoletta; alle battute deve associare i nomi, non fan #1 e fan #2.

Fan di Twilight
Fan di Twilight: Nicoletta è quella con la faccia intelligente

Per ottenere questo risultato, l’autore deve conoscere molto bene i propri personaggi. Deve sapere che Simona non parla mai di cioccolato da quando il fratellino è morto soffocato mentre mangiava un gianduiotto; deve sapere che Nicoletta in realtà non ha mai letto Twilight e frequenta le altre solo per non sentirsi sola – ogni tanto nei dialoghi la sua ignoranza emerge; deve sapere che Monica è convinta di avere sempre ragione, perciò non usa mai il congiuntivo o espressioni del tipo: “credo”, “penso”, “secondo me”.

Una scorciatoia è quella di creare tic linguistici specifici per i singoli personaggi, qualcosa che balzi subito all’occhio.

«Devi imparare le vie della Forza, giovane Jedi.»

A parlare può essere stato chiunque, ma:

«Le vie della Forza imparare devi, giovane Jedi.»

è una battuta che solo il maestro Yoda può pronunciare.
Attenzione: non è una scorciatoia facile da seguire, ci vuole poco per scadere nel ridicolo o nell’artefatto.

Icona di una stellina Personaggi che parlano al lettore invece di parlare tra di loro. Un errore classico: l’autore vuole informare il lettore su particolari che ritiene necessari per la storia e mette queste informazioni in bocca ai personaggi, che sia verosimile o no. È quello che i manuali inglesi chiamano: “As you know, Bob…” Sono quei dialoghi con battute così:

«Come lei sa benissimo, professor Spiegoni, il problema della tassellazione non può essere risolto con un algoritmo di complessità lineare.»

Ma se lo Spiegoni ‘sta cosa la sa già, cosa gliela dici a fare?

Anna si soffiò sulle mani per scaldarle. Il respiro le si condensava davanti alla bocca. «Oggi fa un freddo cane» disse a Michele.
«Sì, oggi fa molto freddo. È colpa dello strato di fuliggine che perennemente copre il cielo a causa della guerra nucleare di tre anni fa iniziata dopo l’affondamento accidentale della portaerei americana Enterprise da parte dei cinesi al largo delle coste della nord corea.»

Sembra un pochino strano che Anna non sappia che c’è stata una guerra atomica, e sembra altrettanto strano che Michele si metta di punto in bianco a elencarne le cause. È ovviamente un dialogo a beneficio del lettore e non dei personaggi: inverosimile in maniera dolorosa, è da evitare come la peste.
Attenzione: non si può risolvere il problema tramutando le battute in pensieri, rimane brutto uguale:

Anna si soffiò sulle mani per scaldarle. Il respiro le si condensava davanti alla bocca. «Oggi fa un freddo cane» disse a Michele.
«Sì, fa proprio freddo.» Già, che freddo oggi, pensò. È colpa dello strato di fuliggine che perennemente copre il cielo a causa della guerra nucleare di tre anni fa iniziata dopo l’affondamento accidentale della portaerei americana Enterprise da parte dei cinesi al largo delle coste della nord corea.

Domanda & Risposta

Ma io devo dire che c’è stata la guerra atomica, vero???

No. Tu devi mostrare i palazzi distrutti, devi mostrare il cielo sempre coperto, devi mostrare la gente che vive nei rifugi sotto terra, devi mostrare i mutanti nati dalle radiazioni: il lettore capirà da solo che c’è stata la guerra atomica.

Icona di una stellina Personaggi che parlano con la voce dell’autore. Sono quei personaggi che all’improvviso, senza apparente ragione, cominciano a pontificare sulle virtù del pacifismo, sul pericolo del riscaldamento globale, sul ruolo della donna nella società moderna o su quanto sia sporca la politica. Anche in questo caso il dialogo risultante rischia di essere inverosimile in maniera dolorosa.

Nel 2012 la razza umana come noi la intendiamo non esisterà più, a causa dei fotoni[2]. Duecento anni dopo, una spedizione aliena proveniente dal pianeta Nibiru sbarca in Italia. Gli alieni frugano tra le rovine. Trovano giornali e registrazioni risalenti al 2009. Commentano tra loro su quanto i giornalisti italiani dell’epoca fossero poco professionali e corrotti.
Tale dialogo tra gli alieni dicesi porcheria. Non è l’uso del fantastico come specchio deformante per fare affermazioni importanti sulla nostra realtà sociale bla bla bla, è fuffa. Se l’autore è interessato all’argomento, scriva un thriller con i giornalisti corrotti – meglio ancora un saggio, ma lasci stare i poveri alieni. Grazie.

Alieni
Siamo così arrabbiati perché gli Americani non si ritirano dall’Iraq e i Giapponesi massacrano i delfini. Certo, è del tutto verosimile per noi alieni che abitiamo dall’altra parte della Galassia avere queste preoccupazioni. Infatti ne parliamo di continuo…

Un errore analogo è quello di avere tutti personaggi politicamente corretti. L’autore è cosi scollato dalla realtà che il dialogo perde verosimiglianza.

Michele si infilò il costume del Ku Klux Klan. «Sono pronto.»
«Prendiamo il tram?» chiese Anna.
«No, non mi piace usare i mezzi pubblici, perché non gradisco la presenza degli extracomunitari.»

Michele, membro del KKK, si esprime così? Secondo me no, secondo me il dialogo si svolge come segue:

Michele si infilò il costume del Ku Klux Klan. «Sono pronto.»
«Prendiamo il tram?» chiese Anna.
«No, non mi piace usare i mezzi pubblici, sono sempre pieni di negri che puzzano di merda.»

Il timore dell’autore è che se inserisce un personaggio apertamente razzista, il lettore potrebbe pensare che anche lui autore è un razzista. Lo scrittore ha paura di essere giudicato come persona in base a quello che i suoi personaggi fanno e dicono.
È un timore infondato? Per niente. Sarete giudicati in base ai vostri personaggi. Basta fregarsene.

bandiera EN There is a technical term for someone who confuses the opinions of a character in a book with those of the author. That term is idiot.

(attribuita a Robert A. Heinlein).

bandiera IT C’è un termine tecnico per chi confonde le opinioni di un personaggio in un libro con quelle dell’autore. Il termine è idiota.

(attribuita a Robert A. Heinlein).[3]

Bisogna rimanere fedeli alla storia e ai personaggi, e chi se ne importa se questo ci mette in “cattiva luce” con gli idioti.

Dialogo obliquo

Cynthia Whitcomb distingue tre tipi di collegamento che possono mettere in relazione due battute consecutive.
Un collegamento diretto:

«Che ore sono?» chiese Michele.
«Le cinque e un quarto» rispose Anna.

Un collegamento obliquo o indiretto:

«Che ore sono?» chiese Michele.
«Dovresti riaccompagnarmi a casa» rispose Anna.

Oppure una disconnessione:

«Che ore sono?» chiese Michele.
«Guarda, sei proprio un cretino» rispose Anna.

Più la connessione è labile, più la scena si carica di tensione. Il collegamento diretto esaurisce la suspense, il dialogo perde la sua energia: “Che ore sono?” “Le tre” e il lettore pensa, “E allora? Chi se ne sbatte!”
Tuttavia, più un dialogo è sconnesso, più rischia di suonare inverosimile. Se io vado a chiedere l’ora a cento persone, amiche o sconosciute, dubito che anche una sola mi darà della cretina. Il compito dello scrittore diviene allora progettare la storia in modo che un dialogo sconnesso risulti verosimile. Magari chiedo l’ora a Licia Troisi!

Se scrivere dialoghi sconnessi richiede molta pianificazione e non sempre è fattibile, il secondo livello, il collegamento indiretto, richiede solo un minimo di attenzione e spesso è più verosimile del collegamento diretto. Meglio:

«Ordino la costata?» chiese Michele.
«Sono vegetariana» rispose Anna.

di:

«Ordino la costata?» chiese Michele.
«No» rispose Anna.
«Perché?»
«Non mangio mai la carne.»
«Come mai?»
«Sono vegetariana.»

Tre usi per un dialogo

Icona di una stellina Dialoghi che accelerano il ritmo. In parte avviene per la natura tipografica dei dialoghi stessi. I paragrafi in un dialogo sono in media più corti rispetto ai paragrafi durante la narrazione. Il lettore termina di leggere le pagine più in fretta, e ha la sensazione di procedere nella storia con più velocità.
In parte è dovuto al fatto che nelle descrizioni spesso non c’è conflitto e il lettore è meno coinvolto. Il mare liscio come l’olio. Il sole alto in cielo. I gabbiani che volano bassi. Le nuvole pigre. L’unica nave che procede lenta all’orizzonte. La gente che cammina con calma, si asciuga il sudore sulla fronte, si mette a chiacchierare agli angoli delle strade. Anna osserva tutto ciò dalla finestra dell’albergo. Come ammira in lontananza le montagne, i boschi verdi, i cucuzzoli bianchi, ecc. ecc. zzz. Poi Anna si gira e dice a Michele che aspetta un bambino. Non da lui. E il padre è un vampiro.
I dialoghi danno uno strappo alla storia, imprimono maggior spinta rispetto alle descrizioni o alle elucubrazioni solitarie del personaggio punto di vista.

Icona di una stellina Dialoghi che rallentano il ritmo. Se si passa da una (violenta) scena d’azione a un dialogo, la sensazione è quella di un rallentamento. Questo perché, pur essendo un buon dialogo dinamico, non sarà comunque così movimentato come una scena d’azione. Per quanto sia vivace il dialogo tra i guerrieri nell’accampamento dopo la battaglia, non può essere più burrascoso della battaglia stessa.
L’elfo e il nano che bisticciano su chi abbia ucciso più orchi è un conflitto, e può reggere un dialogo, ma non c’è la stessa adrenalina di quando elfo e nano gli orchi li ammazzavano sul serio.

Bisticcio sugli orchi morti
Ho ucciso più orchetti di te, gné gné gné

Icona di una stellina Dialoghi per descrivere. Basare una descrizione interamente su un dialogo non è una grande idea. Ci sono situazioni dove è naturale (la guida al museo che descrive lo scheletro del dinosauro, il professore che fa lezione, ecc.), ma troppo spesso si intuisce la forzatura: il personaggio parla e descrive non perché lo voglia, ma perché deve dare una mano all’autore.
Tuttavia, con le dovute accortezze, può essere opportuno descrivere alcuni particolari attraverso un dialogo. Per esempio: Anna e Michele passeggiano per il centro, ogni tanto si fermano a guardare le vetrine dei negozi. Il punto di vista è quello di Anna. Anna non avrà problemi a descrivere le vetrine dei negozi di abbigliamento e delle librerie, ma quando si fermano davanti a un negozio di elettronica?
Ad Anna non frega un tubo dell’elettronica, dunque osserva distratta e, anche fosse interessata, non conoscendo l’argomento, non dispone della terminologia adatta: per lei sono tutti cosi. Se per la trama è importante sapere cosa espone quel negozio di elettronica, come si fa? Si chiama in causa Michele: lui è così appassionato di elettronica da non sapersi trattenere dall’illustrare il contenuto della vetrina ad Anna.
Avvertenze:

  • Suona inverosimile che Michele di punto in bianco si scopra appassionato di elettronica. Questo suo hobby deve essere mostrato in precedenza, in tempi non sospetti.
  • Anna prima o poi prende Michele per un braccio e lo trascina via. Per quanto Michele sia appassionato, si può tirare la corda del personaggio punto di vista solo per un numero limitato di battute, oltre diventa inverosimile.
  • Infine questo è un esempio. Se in un romanzo vero si evitano i cliché del tipo tutte le ragazzine giocano con le bambole e tutti i bambini con i soldatini, è meglio. Grazie.

Ricapitolando

Icona di un gamberetto Il discorso diretto è preferibile al discorso indiretto.

Icona di un gamberetto Bisogna studiare bene come introdurre il discorso diretto e come gestirne la punteggiatura.

Icona di un gamberetto Il dialogo deve suonare naturale, deve essere verosimile.
Per raggiungere questo scopo:

  • I personaggi devono parlare rispettando sempre la propria cultura, educazione, esperienza.
  • Il dialogo deve essere calato in un contesto dinamico.
  • Il dialogo deve essere interessante, deve mettere di fronte personaggi con obiettivi diversi e deve contribuire a portare avanti la storia.

Non si deve:

  • Far parlare il barbone come il Re e il Re come il barbone.
  • Far parlare i personaggi nel vuoto, come fossero teste senza corpo.
  • Impostare un dialogo che manchi di conflitto.
  • Mettere in bocca ai personaggi nostre idee estranee alla storia.
  • Far parlare i personaggi tra loro in modo artefatto per fornire informazioni al lettore.
  • Far parlare tutti i personaggi alla stessa maniera.

Icona di un gamberetto Un dialogo obliquo o addirittura sconnesso, se ben progettato, può aumentare tensione e verosimiglianza.

Icona di un gamberetto Si possono sfruttare i dialoghi per tenere sotto controllo il ritmo della storia o per facilitare determinate descrizioni.

* * *

E adesso l’ultimo consiglio: non tenete conto di tutti i suggerimenti che ho elencato!
Non nella prima stesura. Cercare di scrivere dialoghi a tavolino, sudando su ogni battuta, è rischioso: c’è la concreta possibilità di sfornare dialoghi artefatti. Durante la prima stesura conviene scrivere i dialoghi di getto, senza contorno, senza dialogue tag, senza niente tranne le battute: così si imposta uno scheletro di conversazione che suona naturale. Poi, pian piano, si ripassa il dialogo e lo si cambia quando sono evidenti delle pecche. A questo punto è sì utile soppesare ogni virgola e ogni parola.
Bisogna anche mettersi nella disposizione d’animo che i dialoghi potrebbero cambiare la trama: Giovanni vuole invitare Maria al ballo, Maria preferirebbe rimanersene a casa o andarci con Marco. Io devo buttarmi nel dialogo con queste premesse, senza aggiungere: “nella scaletta è previsto che Maria accetti ed esca con Giovanni.” Se il dialogo nel suo incedere naturale sfocia in Maria che accetta, ottimo. Se invece appare chiaro che Giovanni è uno sfigato fastidioso e Maria non accetterà mai, bene lo stesso. Vorrà dire che la trama subirà qualche mutamento. Magari per uscire insieme a Maria Giovanni dovrà ricattarla, o Maria dovrà scoprire che Giovanni è malato terminale e che uscire con lei è il suo ultimo desiderio prima di tirare le cuoia.
Forzare lo scorrere di un dialogo per accomodare la trama prevista porta a dialoghi fasulli in maniera vistosa. Se proprio si deve, conviene riscrivere il dialogo da zero, alterando le condizioni di partenza (Maria ha appena litigato con Marco e vede nell’appuntamento con Giovanni un modo per ingelosirlo).

Per scrivere buoni dialoghi bisogna essere schizofrenici. Immergersi senza remore, senza timori, nella testa dei personaggi. Bisogna compiacersi di essere un volontario che impiega ogni minuto del suo tempo libero per aiutare il prossimo, si deve essere orgogliosi di aver passato la notte all’addiaccio per dare una mano alla vecchietta in difficoltà; così come si deve godere quando il giovanotto annoiato ammazza di botte un barbone e poi gli dà fuoco che ancora si dibatte, si deve essere fieri di aver ripulito le strade da un altro rifiuto umano.
È difficile scrivere dialoghi davvero naturali e verosimili senza questo tipo di partecipazione emotiva.

Quali manuali leggere

Le fonti primarie per questo articolo sono state:

Copertina di Dialogue Dialogue: Techniques and Exercises for Crafting Effective Dialogue di Gloria Kempton (Writer’s Digest Books, 2004).

E i capitoli dedicati ai dialoghi in:

Copertina di Stein on Writing Stein on Writing di Sol Stein (St. Martin’s Press , 1995).
Copertina di How to Write a Damn Good Novel How to Write a Damn Good Novel di James N. Frey (St. Martin’s Press, 1987).

Edizione italiana: Come scrivere un romanzo dannatamente buono (Le Fonti, 2009).

Il testo della Kempton è l’unico che ho trovato dedicato solo allo scrivere i dialoghi. È un manuale decente, ma la Kempton si sperde troppo. Manca di sintesi, gira a vuoto prima di arrivare al punto. Le 200 pagine circa sarebbero potute essere la metà senza perdere niente.
Alcuni capitoli lasciano perplessi, come quello dedicato all’Enneagramma: onestamente non mi pare uno strumento utile per lo scrittore, mi pare un’emerita stupidaggine. Così pure il capitolo dedicato ai tipi di scrittura diversa a seconda dei generi è molto superficiale: non ci vogliono dialoghi “magici”(sic) in un fantasy.
Gli esempi variano in qualità: alcuni centrano molto bene la questione, altri sono bruttini o poco attinenti a spiegare la teoria.
Nel complesso può valere la pena leggere questo Dialogue, basta non prendere per oro colato tutto quello che dice la Kempton.

Dei manuali di Stein e Frey parlerò più diffusamente in un altro articolo. Comunque i capitoli dedicati ai dialoghi sono buoni; danno consigli concreti e sensati. Frey in particolare ha uno stile molto deciso e piacevole, ma qualche volta quelle che afferma essere verità auto-evidenti non lo sono poi tanto (vedi la questione verosimiglianza vs. brillantezza).

Compiti a casa

Vi propongo due immagini. La prima pare tratta da una classica storia di primo contatto[4]:

Topo alieno
Topo alieno

C’è un signore alle prese con un topo alieno sul letto. Cosa vorrà il topo? Chi è? Da dove viene? Immaginate il contesto, fornite a entrambi i personaggi degli obiettivi, scegliete un punto di vista e scrivete il dialogo tra uomo e ratto extraterrestre. Come sempre siete liberi di fantasticare e di inserire elementi nuovi rispetto all’immagine. Potete anche abbozzare una storia e descrivere con dovizia di particolari, ma qui l’esercizio è scrivere un buon dialogo. Il resto è solo un di più per sfizio.

Se i topi di Saturno non vi ispirano, date un’occhiata a quest’altra immagine:

Ragazza con fiori
Edward mi aspetta!

Una ragazza in divisa scolastica chikas_pink03.gif con un mazzo di fiori in mano che si aggira in un edificio diroccato. Immaginate che stia guardando un altro personaggio (licantropo/vampiro/coniglietto/ragazzo/ragazza/quello-che-vi-pare) e ideate il dialogo. Pensate a una ragione bizzarra perché la ragazza con i fiori sia lì nel palazzo in rovina, e cercate di far trasparire le sue motivazioni dal dialogo: attenzione però, dovete essere subdoli, il lettore non deve avere la sensazione di essere imboccato.

È questo è tutto. Divertitevi!

* * *

note:
 [1] ^ Dette anche virgolette basse, virgolette a caporale o “caporali”. Sono simboli non presenti sulla tastiera italiana. Per farli apparire si può ricorrere ai codici ASCII, digitando Alt + 174 per « e Alt + 175 per ». Significa tenere premuto il tasto Alt (di solito in basso a sinistra sulla tastiera) e mentre Alt è premuto digitare 1, poi 7, poi 4, oppure 1 7 5.
Una soluzione più pratica è ricorrere alle funzioni di autocorrezione degli elaboratori testi. Praticamente tutti i programmi di videoscrittura offrono la possibilità di convertire al volo uno o più simboli in altri.
Di seguito è illustrato come trasformare >> in » usando l’autocorrezione di Microsoft Word 2007 e OpenOffice.org Writer 3.0 – se usate un altro programma di videoscrittura consultatene il manuale.

Screenshot di Microsoft Word: Correzione automatica
Microsoft Word 2007. Per raggiungere questa finestra di dialogo usare: simbolo di Office (la sfera in alto a sinistra) -> Opzioni di Word -> Strumenti di correzione -> Opzioni correzione automatica…

Screenshot di OpenOffice: Sostituzione
OpenOffice.org Writer 3.0. Per raggiungere questa finestra di dialogo usare il menu Strumenti -> Correzione automatica…

Screenshot di OpenOffice: Virgolette tipografiche
OpenOffice offre un’altra interessante opzione per quanto riguarda la correzione automatica: sostituire le virgolette alte, singole o doppie, con i simboli che vogliamo. Qui ho sostituito le virgolette alte doppie (“) con le virgolette uncinate. Il bello è che se digito le virgolette alte, OpenOffice inserirà il simbolo delle virgolette uncinate aperte («), se digito di nuovo le virgolette alte, OpenOffice si accorgerà che c’è una battuta “aperta” e inserirà automaticamente le virgolette uncinate chiuse (»).
Il problema è che poi avrò qualche difficoltà se voglio mettere proprio le virgolette alte. Ma se uso i “caporali” per i dialoghi e per esempio il corsivo per i pensieri, non ho più bisogno di virgolette alte

 [2] ^ Cito dal libro di Roberto Giacobbo 2012. La Fine del Mondo?

Di fatto, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del XX secolo, nell’atmosfera terrestre ha improvvisamente fatto la sua comparsa una presenza inedita: un numero sempre crescente di particelle di luce dette “fotoni”.
Particelle che assomigliano molto alla luce che, secondo la profezia maya interpretata da José Arguelles, dovrebbe investire il nostro pianeta quando i Maya Galattici giungeranno ancora una volta sulla Terra per aiutare l’uomo a realizzare il suo salto evoluzionistico…

Ringrazio Hellfire per la segnalazione.

Copertina di 2012. La Fine del Mondo?
Copertina di 2012. La Fine del Mondo?

 [3] ^ Tuttavia S. M. Stirling, riportando la citazione nel suo romanzo Conquistador, lascia presumere che sia attribuibile a Larry Niven.

 [4] ^ L’immagine è presa da The Arrival di Shaun Tan. Trovate il libro completo su gigapedia, qui. Tecnicamente è l’edizione francese, ma dato che sono solo immagini, senza testi, non ha importanza. È una storia illustrata di immigrazione new weird. Però, prima di guardarla, fate i compiti, altrimenti potreste essere influenzati!

Copertina di The Arrival
Copertina di The Arrival


Approfondimenti:

bandiera EN Dialogue su Amazon.com
bandiera EN Stein on Writing su Amazon.com
bandiera EN How to Write a Damn Good Novel su Amazon.com
bandiera IT Come scrivere un romanzo dannatamente buono su iBS.it

bandiera EN Il sito di Gloria Kempton
bandiera EN Il sito di Sol Stein
bandiera EN Il sito di James N. Frey

bandiera IT Un post dedicato alla punteggiatura nei dialoghi sul forum di Edizioni XII
bandiera IT José Saramago su Wikipedia
bandiera EN Ipotesi sul 2012 su Wikipedia
bandiera IT 2012. La Fine del Mondo? su iBS.it
bandiera EN The Arrival su Amazon.com

 

Scritto da GamberolinkCommenti (172)Lascia un Commento » feed bianco Feed dei commenti a questo articolo Questo articolo in versione stampabile Questo articolo in versione stampabile • Donazioni